Sei all'interno di >> :.: Primo Piano | Guerre Globali |

Pace Perpetua e non “pace eterna”

In questi giorni il Presidente degli Stati Uniti ha usato, a proposito della tregua a Gaza, l’espressione “pace eterna”. Uno scritto di Lelio La Porta.

di Lelio La Porta - sabato 25 ottobre 2025 - 592 letture

Nota editoriale: In questi giorni il Presidente degli Stati Uniti ha usato, a proposito della tregua a Gaza, l’espressione “pace eterna”. Prescindendo dal brivido che noi italiani possiamo provare a mettere il termine “eterna” dopo pace, perché richiama la pace dei credenti dopo la morte, qualche commentatore ha ritenuto di azzardare un paragone con il noto scritto kantiano “Per la pace perpetua”. Naturalmente si può provare orrore nel paragonare un complice di genocidio (ruolo rivendicato anche davanti alla Knesset dallo stesso Trump) al pensatore di Königsberg tutto etica e morale ma ancor più ogni paragone è impossibile da un punto di vista scientifico. In queste pagine il nostro Lelio La Porta analizza compiutamente lo scritto kantiano e lo pone a confronto con altri pensatori successivi. Quello che emerge è la straordinaria attualità del pensiero di Kant, non c’è alternativa alla pace e questo ancor più oggi che esistono strumenti in grado di distruggere in pochissime ore se non minuti tutta la natura e l’umanità al cui studio Kant ha dedicato la vita: “tratta l’umanità, in te stesso e negli altri, sempre come fine e mai semplicemente come mezzo”.


In occasione della pace firmata a Basilea il 5 aprile del 1795 tra la Repubblica francese e la Prussia, Kant scrisse il saggio intitolato Per la pace perpetua. Progetto filosofico [1]. Il tema della pace viene qui affrontato nella forma di un trattato internazionale con articoli preliminari e definitivi, due supplementi e una Appendice sui rapporti tra politica e morale.

Gli articoli preliminari sono sei:

1) Nessun trattato di pace deve considerarsi tale se è stato fatto con la tacita riserva di pretesti per una guerra futura [2].

2) Nessuno Stato indipendente (non importa se piccolo o grande) può venire acquistato da un altro per successione ereditaria, per via di scambio, compera o donazione [3].

3) Gli eserciti permanenti (miles perpetuus) devono col tempo scomparire interamente [4].

4) Non si devono contrarre debiti pubblici in vista di controversie fra Stati da svolgere all’estero [5].

5) Nessuno Stato deve intromettersi con la forza nella costituzione e nel governo di un altro Stato [6].

6) Nessuno Stato in guerra con un altro deve permettersi atti di ostilità che renderebbero impossibile la reciproca fiducia nella pace futura [7]; ed aggiunge Kant che tra due Stati non è concepibile una guerra punitiva… Ne segue che una guerra di sterminio in cui la distruzione può colpire contemporaneamente entrambe le parti ed ogni diritto venire soppresso, darebbe luogo alla pace perpetua unicamente sul grande cimitero del genere umano [8].

Con la formulazione dei sei articoli preliminari Kant intende sottolineare che il raggiungimento dell’obiettivo della pace perpetua prevede una serie di misure a monte aventi come scopo la neutralizzazione della guerra in quanto la pace deve essere istituita e, per questo, viene comunque a seguito di una guerra.

Gli articoli definitivi sono tre.

1) La costituzione civile di ogni Stato deve esser repubblicana [9].

Poiché la costituzione repubblicana si fonda sui principi di libertà e di uguaglianza, poiché essa prevede che siano i cittadini stessi a dare l’assenso a leggi che essi stessi hanno contribuito a fare, ciò significa che mai questi stessi cittadini si arrischieranno a dare il loro beneplacito ad una guerra pensando a quali catastrofi ricadrebbero come conseguenza su di sé; per questo la costituzione repubblicana è l’unica che garantisca la solidità del percorso verso la pace perpetua.

2) Il diritto internazionale dev’essere fondato su un federalismo di liberi Stati [10].

Si tratta di stringere un foedus pacificum, una lega della pace, al fine di evitare non solo una guerra ma tutte le guerre. Kant pensa ad un’unione federativa, «una lega permanente e sempre più estesa, come unico strumento possibile che ponga al riparo dalla guerra e arresti il torrente delle tendenze ostili – contrarie al diritto, sempre però con il continuo pericolo che queste erompano nuovamente» [11].

3) Il diritto cosmopolitico dev’essere limitato alle condizioni dell’universale ospitalità [12].

Kant, come trapela dalle sue stesse parole, non vuole fare sfoggio di filantropia, ma vuole soltanto ribadire un concetto del diritto che, riguardando i rapporti tra uno Stato ed i cittadini degli altri Stati, è cosmopolitico: lo straniero giunto in un altro Stato deve essere trattato in maniera ospitale, ma ciò non significa che egli debba adoperarsi, nel mentre fruisce dell’ospitalità, per disgregare lo Stato dal quale è stato ospitato.

Il primo dei due supplementi è intitolato Garanzia della pace perpetua [13] e vi si legge all’inizio: «Ciò che fornisce tale garanzia non è altro che la grande artefice Natura... dal cui corso meccanico scaturisce evidente la finalità di trarre dalle discordie degli uomini, anche contro la loro volontà, la concordia… (Alla Natura) diamo il nome di Provvidenza».

Kant imposta il suo discorso nei termini tipici della teodicea. È la Natura che determina quella situazione per cui ogni popolo, in quanto «premuto da un altro popolo vicino», deve darsi delle leggi, deve divenire Stato per essere pronto a resistere al popolo limitrofo «come potenza». È la natura ad evitare, attraverso «la diversità delle lingue e delle religioni», che i popoli si mescolino e a condurli, quindi, alla guerra, ma è la stessa natura che «conduce all’accordo in una pace che non è prodotta e garantita, come lo è (sul cimitero della libertà) il dispotismo, dall’indebolimento di tutte le energie, ma dal loro equilibrio nella più viva delle emulazioni». In ultimo la natura se, da un lato, «separa i popoli, dall’altro li unisce» poiché l’idea del diritto cosmopolitico non garantirebbe contro la violenza e la guerra.

È lo spirito commerciale che non può coesistere con la guerra e che prima o poi «si impadronisce d’ogni popolo». Quindi la natura, ossia la Provvidenza, ordina il modo e vigila sulle singole creature di modo che è alle trasgressioni di queste ultime che bisogna far risalire ogni modificazione del progetto provvidenziale.

Il Secondo supplemento è intitolato Articolo segreto per la pace perpetua [14]; il principio fondamentale è il seguente: «Le massime dei filosofi circa le condizioni che rendono possibile la pace pubblica devono essere prese in considerazione dagli Stati armati per la guerra».

L’articolo è segreto in quanto lo Stato spingerà segretamente i filosofi a parlare poiché esso non potrà farlo pubblicamente, pena la perdita di prestigio.

Dunque, è obbligo per i re ascoltare i filosofi in merito ai modi ed ai mezzi per ottenere la pace pubblica.

Lo scritto sulla pace perpetua si conclude con un’appendice divisa in due parti: Sulla discordia tra morale e politica in ordine alla pace perpetua [15] e Dell’accordo della politica con la morale secondo il concetto trascendentale del diritto pubblico [16].

Kant sottolinea la differenza fra «un politico morale, ossia uno che intende i principi della prudenza politica in modo ch’essi possano coesistere con la morale» e «un moralista politico che sfoggi una morale secondo gli interessi dell’uomo di Stato»; il primo opererà al fine di correggere i difetti nella costituzione dello Stato, il secondo tenderà a rafforzare il potere costituito senza essere mai neanche lontanamente sfiorato dall’idea di introdurvi delle benefiche riforme.

Ciò che Kant vuole mettere al centro della riflessione è la priorità della morale rispetto alla politica, ossia la convinzione che soltanto la retta disposizione della ragion pratica può condurre alla pace perpetua.

Una prima lettura del testo kantiano, che si è tentato di riassumere, pone una serie di riflessioni sia intorno allo spirito del saggio sia intorno alla lettera.

A) La Repubblica come Stato rappresentativo è il tipo di governo più adatto alla fine delle guerre volute da quegli Stati bellicisti in sé che sono gli Stati dispotico-paternalisti. Lo Stato di diritto non può esistere che nella pace e tendenzialmente eliminerà le guerre.

Kant poggia il suo ragionamento, quindi la possibilità di realizzazione del progetto di pace perpetua, sul principio di non intervento presente nella Costituzione francese del 1793 in base al quale è giusta la guerra difensiva della Francia rivoluzionaria ed ingiusta la guerra di coalizione delle grandi potenze belliciste europee.

La forma di governo repubblicana consente, in quanto regimen civitatis et patriae, ai cittadini stessi di decidere sull’opportunità o meno di una guerra poiché «essi rifletteranno a lungo prima di iniziare un così cattivo gioco» [17] e, nel caso in cui guerra sia dichiarata, essa potrà essere esclusivamente patriottica e combattuta da un esercito di cittadini soldati.

B) La guerra, dal punto di vista del diritto e della filosofia della storia può essere giustificata? Quando essa non sia di conquista o di sterminio. Si può giustificare in termini di filosofia della storia come l’ultima astuzia della natura, la manifestazione finale dell’insocievole socievolezza fra gli Stati per produrre una situazione generale di pace, fondamento di un tutto morale e fine della lotta fra gli Stati dispotici.

C) La dottrina del diritto impone di uscire dallo Stato di natura che caratterizza le relazioni fra gli Stati e di costituire uno stato civile universale, in «una grande unione degli Stati analoga a quella mediante cui un popolo diviene uno Stato» [18].

È la filosofia della storia che mantiene viva questa speranza. Qui la ragion pratica giuridica mostra la sua dimensione utopica. Ma questa utopia può essere interpretata positivamente, intendendo con ciò che essa è non una forma di dogmatismo bensì assume un ruolo quasi normativo?

Seguiamo Kant. La pace universale non può essere realizzata sotto la forma di uno Stato di popoli, soprattutto in rapporto alle dimensioni di un tale Stato che non gli consentirebbero di proteggere adeguatamente tutti i suoi membri. «Ma i principi politici che tendono a questo scopo, che cioè servono a produrre tali alleanze degli Stati per avvicinare continuamente i popoli a quella meta, non sono affatto irrealizzabili» [19]. Da un lato, ci si potrebbe avvicinare all’idea dello Stato di popoli attraverso una moltiplicazione degli Stati repubblicani pacifisti e, dall’altro lato, si potrebbe procedere ad una riorganizzazione del diritto internazionale secondo lo schema di una federazione di popoli «che non dovrebbe essere però uno Stato di popoli» [20]. L’utopia della ragion pratica rifiuta ogni illusione. Teoricamente «non si tratta più di sapere se la pace perpetua sia una cosa reale o un non-senso» [21], non si tratta di giudizi teorici ma di obblighi morali: «dobbiamo agire come se fosse una cosa reale, il che forse non è» [22].

D) Il nodo rappresentato dal nesso politica-morale è sciolto nella seconda appendice dove si legge: «Tutte le azioni relative al diritto di altri uomini, la cui massima non è compatibile con la pubblicità, sono ingiuste» [23]. La pubblicità rende possibile il legame fra politica e morale, realizza la sottomissione della politica alla morale, si pone come manifestazione politica dell’imperativo morale. Detto altrimenti, la pubblicità o l’opinione pubblica è la società civile ossia il luogo in cui avviene la traduzione o la trasformazione dell’imperativo categorico in norme giuridico-politiche.

Quindi, lo stesso diritto diviene manifestazione della morale nella politica.

E) In riferimento ad un passo del Primo supplemento in cui Kant afferma che non dalla moralità «può attendersi la buona costituzione dello Stato, ma al contrario è in primo luogo da una buona costituzione dello Stato che c’è da aspettarsi la buona educazione morale di un popolo» [24], Hannah Arendt avanza alcune osservazioni sul nesso fra ragion pratica ed organizzazione dello Stato.

È possibile costringere l’uomo, anche quando non è buono, ad essere un buon cittadino? Ciò è possibile solo dove esiste uno Stato buono, una buona costituzione dello Stato, allora ciò è possibile soltanto in presenza di uno Stato di angeli?

Kant osserva, secondo la Arendt, che anche «un uomo malvagio può essere un buon cittadino in uno Stato buono» [25] in quanto il malvagio è tale solo per sé, non vuole il male, solo nel segreto della propria massima opera in senso malvagio; questo perché se la sua massima diventasse legge ciò lo porrebbe contro l’interesse comune ed egli assumerebbe lo scomodo ruolo di nemico del popolo. E, ancora una volta, il discorso sulla pubblicità, la condotta pubblica dà significato alle azioni che, uscendo dalla sfera morale, occupano lo spazio della politica.

F) Il nesso fra diritto, filosofia della storia e realizzazione della pace perpetua suggerito da Kant riporta alla mente la teorizzazione bobbiana del Terzo, ossia di un potere non dispotico al di sopra delle parti in grado di risolvere i conflitti evitando il ricorso alla violenza.

Non per nulla, il filosofo torinese raccolse gli articoli dedicati a questo tema in un volume intitolato Il Terzo assente [26]; vale la pena chiedersi se oggi, nella situazione mondiale attuale, un Terzo sia presente. Certamente l’onestà intellettuale impone di ricordare che lo stesso Bobbio indicava come utopica la sua proposta, ma diceva di notare segni di un progresso verso la meta ideale. La stessa onestà intellettuale spinge a dire che l’assenza continua e la latitanza di un potere “super partes”, che non è certamente l’Onu, può procurare inasprimenti nelle già orrendamente cruente dispute in atto nel mondo.

L’obbligo morale kantianamente inteso non ha nulla a che spartire, almeno in questo ambito, con la filosofia della storia come attesa di un necessario avvenire migliore. L’attesa della creazione di un Terzo fra le parti, in quest’epoca che, mutatis mutandis, è nuovamente di compiuta peccaminosità, deve essere necessariamente preceduta, prima che sia troppo tardi, dalla diffusione di una massima come la seguente: «Agisci come se dalla tua azione o dalla tua inazione dipendesse il mutamento del destino del mondo» [27].

Si tratta del Lukács del 1919.

G) Si può dire che Kant non fosse un pacifista, ma soltanto un legalizzatore. Per lui la guerra era certamente un male, anzi il male peggiore, al quale, però, non si poteva opporre nessuna cura assoluta ed immediata. Soltanto nel caso in cui si è chiamati a difendersi, Kant considerava la guerra ammissibile anche se ciò avrebbe comportato problemi gravi nel tentativo di definire un complessivo quadro di giustizia internazionale. In sostanza la guerra è ingiusta perché, nel momento in cui qualcuno attacca un altro, chi attacca si pone contro la legge, assume una posizione anti-legale. In questo contesto vale la pena ricordare la nona lezione della Arendt su Kant in cui la considerazione kantiana della guerra viene affrontata dal doppio punto di vista dello spettatore e dell’attore. Dal punto di vista del primo, la guerra, per quanto insensata, sviluppa la cultura e prepara la pace cosmopolitica. Dal punto di vista del secondo, capace di cogliere in prospettiva il progresso del genere umano, anche la guerra vi contribuisce e non in maniera secondaria. Lo spettatore è il genere umano. In sostanza, dalla filosofia morale si passa di nuovo al livello della filosofia della storia [28].

H) Nel testo del 1979 sul problema della guerra e le vie della pace, Bobbio, riprendendo da Kant, definisce due tipi di pacifismo:

quello giuridico «secondo cui la guerra è un evento dipendente dall’esistenza dello Stato in quanto tale»; quello sociale «secondo cui la guerra è un evento dipendente non dallo Stato in quanto tale ma da una certa forma di Stato».

«Per il pacifismo sociale – continuava Bobbio – il rimedio per eccellenza è la trasformazione dell’assetto sociale capitalistico» [29]. Nel mondo attuale che sembra avere come proprio motto “hic manebimus optime”, un accenno inattuale a voci che si richiamano, o meglio, si richiamavano, al pacifismo sociale sarà simile al “flatus vocis”; ma non sarà casuale se riferito all’ambito di questioni qui affrontate. Infatti, Ernst Bloch nel suo Principio-speranza propone una lettura del progetto kantiano di pace perpetua. La seguente successione di citazioni riporta il nocciolo della riflessione blochiana: «L’utopia pacifista si presentò con i suoi contorni più netti in Kant; Kant, quando prospetta un’unica repubblica mondiale, a dispetto di tutto il rigorismo della moralità, ha sufficiente buon senso scottato da accontentarsi di un surrogato di fronte agli stati predoni esistenti: la federazione tra i popoli; (il pessimismo kantiano) si distingue dalla credulità di quei pacifisti che in una repubblica universale americana vedevano la promozione della pace e non l’industria degli armamenti; il pacifismo non consiste nel mettere fine ad ogni costo alle guerre presenti, bensì nell’evitare le guerre future sin dalla radice» [30].

Sintetizzando: l’utopia pacifista kantiana si trasforma in un pessimismo che, nel momento in cui fa a meno della filosofia della storia, non può che registrare l’impossibilità di qualsiasi tentativo di progettare la pace o, in termini bobbiani, il Terzo.

L’inattuale Bloch lettore di Kant ci rimanda, perciò, alla massima, prima ricordata, dell’altrettanto inattuale Lukács, il quale, parlando nel 1948 sulla responsabilità degli intellettuali, sottolineava il rischio che il desiderio di pace dei popoli si esprimesse in un pacifismo astratto, «nel quale il desiderio di pace è degradato al livello della passività» [31] e si trasforma in un feticcio, ossia si riduce ad una dimensione esclusivamente utopistica molto prossima alla soluzione kantiana.

Anche Gramsci scrisse pagine molto importanti sulla guerra e sulle possibili iniziative per impedirne nel futuro. Il punto di vista di Gramsci è riassumibile in un passaggio dell’articolo Il canto delle sirene: «Io dimostro che una guerra, dato l’assestamento attuale della produzione e degli scambi, non può arricchire nessuno, non è utile a nessuno, che in una guerra moderna non vi possono essere vincitori e vinti, ma tutti saranno vinti, cioè per tutti si abbasserà il livello di vita economica, perché il danno dell’uno sarà inevitabilmente danno dell’altro. La rivelazione, la dimostrazione matematica di questa verità deve uccidere la guerra. Diffondetela, propagandatela: quando tutti saranno persuasi, la guerra scomparirà, quanto prima questa verità avrà conquistato la maggioranza degli uomini, tanto prima la guerra scomparirà» [32]. L’obiettivo non può essere rappresentato da una generica avversione alla guerra, bensì da un impegno assiduo per sventare tutte le iniziative tendenti alla guerra.

«Poiché è pur necessario che la guerra scoppi in un certo momento, bisogna impedire che questo momento arrivi mai» [33]. Per cui i socialisti avranno un compito specifico: «fare che la persuasione diventi volontà, stimolo, azione rivoluzionaria» [34]. È chiaro che per Gramsci la politica viene prima della morale e, perciò, la ragion pratica si pone come prassi autentica, come momento di realizzazione dell’obiettivo della pace nella dimensione della privazione o dello svuotamento a priori delle cause stesse della guerra. Insomma Gramsci non è d’accordo con Croce che vede nella guerra un momento che sfugge alla razionalità storica [35] o, ancora, la mediazione con la pace per cui esiste fra loro corrispondenza biunivoca [36]. Certamente non si può parlare di pacifismo gramsciano almeno nel senso che si è soliti attribuire al termine; se invece per pacifismo si intende un’azione politica avente come fine la realizzazione di un universo morale consapevole dell’inutilità della guerra, si è molto prossimi al senso ultimo dell’analisi gramsciana. La pace perpetua non può scaturire quale acqua nel deserto soltanto in virtù dell’applicazione degli imperativi categorici che, nella forma di legge, debbono kantianamente avere valore universale; in questa dimensione è il significato stesso di ragione che va rimesso in gioco e ridiscusso.

Ragion pratica, ragione teorica, ragione discorsiva, etica del discorso e via dicendo: viene da chiedersi, proprio con Kant, se ciò che può essere giusto in teoria valga anche nella pratica, ossia, se la struttura della società civile permette di affrontare i problemi dell’agire comunicativo o, a livello sovranazionale, dell’interdipendenza a partire da una ragione che si autofonda, trova la giustificazione in se stessa e, per questo, si priva la giustificazione in se stessa e, per questo, si priva degli oggetti sui quali si deve agire. I grandi progetti palingenetici, dal canto loro, hanno fallito perché partivano da un presupposto che era già un obiettivo: imporre a tutti di essere intelligenti.

A questo punto si riprenda dall’inizio. Si assuma la pace perpetua come obiettivo da raggiungere, come fine da realizzare: la prospettiva kantiana l’abbiamo già presa in esame; adoperiamo la prospettiva gramsciana: non si parte più dal “come se”: operiamo come se la pace perpetua fosse realizzabile.

Si parte da un conflitto fra la guerra e la pace: quali sono i mezzi più adatti a raggiungere il fine della pace? L’opzione di partenza non è più etica, bensì è politica. Si tratta, al dunque, di valutare cosa si realizzerebbe con la prospettiva della guerra e cosa, invece, con la prospettiva della pace; ma la valutazione va fatta sui mezzi per e non sulle intenzioni; è immorale ciò che allontana dal fine «o non crea condizioni che approssimano al fine» [37]. Evitare il male della guerra è compito della politica, non della morale.

Ancora Gramsci: «Nel beato paese di utopia ha avuto in tutti i tempi diritto di cittadinanza e di libera circolazione il bel sogno… degli Stati Uniti d’Europa e del Mondo» [38]. In linea con la priorità della politica rispetto alla morale, Gramsci non indirizza strali direttamente in direzione delle posizioni di Kant, ma sembra critico nei confronti di un pacifismo astratto e lontano dalle situazioni concrete.

Ultima questione: Kant affida la realizzazione del suo progetto agli individui che, stimolati dall’etica del “come se”, divengono soggetti universali, genere umano; Gramsci affida la realizzazione del suo progetto all’uomo politico che, nel rispetto degli impegni assunti e della conoscenza dei dati di fatto, opera in concreto all’edificazione di una realtà privata della guerra.

Quindi, in Kant, dalla morale nasce la politica e si raggiunge un livello di compenetrazione e di equilibrio; per Gramsci, invece, «la politica è concepita come un processo che sboccherà nella morale, cioè come tendente a sboccare in una forma di convivenza in cui politica e quindi morale saranno superate entrambe» [39].

Si dirà che in Gramsci il discorso è puramente di filosofia della storia; ma se i soggetti non sono soltanto considerati in potenza, ma vengono valutati in atto, è possibile ancora parlare di filosofia della storia? Se questi soggetti sono in grado di organizzarsi in associazioni, partiti, strutture di qualsiasi tipo, e non restano confusamente indistinti nell’intenzionalità di un astratto genere umano, è possibile ancora parlare di filosofia della storia? Se all’etica della possibilità si sostituisce la politica del qui ed ora, è possibile ancora parlare di filosofia della storia?

Scriveva Cesare Luporini: «Non agisce bene chi vuol agire bene (come comanda l’etica kantiana…), ma agisce bene chi vuol creare migliori condizioni per gli uomini» [40] a partire, si potrebbe aggiungere, dalla situazione concreta. Si deve andare, allora, oltre Kant avendo fra i referenti anche Gramsci; è una sfida teorica che guarda con insistenza al terreno della pratica intesa concretamente come vita quotidiana, ossia come moderna manifestazione della politica.

Nella sostanza l’intreccio delle questioni fin qui affrontate e scaturite dalla discussione della pace perpetua kantiana ci porta a riflettere intorno al seguente problema: se politica è, gramscianamente, il primo gradino del percorso verso la vita morale, politica significa, nelle società di democrazia avanzata e consolidata, educazione alla democrazia, ossia all’assunzione di responsabilità che proiettino il singolo, in ogni momento del quotidiano, verso il raggiungimento di una consapevolezza morale che gli consenta di sentirsi parte del genere. Si vuol dire che la democrazia è sì «un insieme di regole […] che consentono la più ampia e sicura partecipazione della maggior parte dei cittadini (…] alle decisioni politiche» [41], ma ciò non basta, soprattutto ove si manifestassero tentativi palesi di trasformare la democrazia rappresentativa in democrazia plebiscitaria. La democrazia, come momento decisionale, come elemento fondante dell’organizzazione dello Stato deve essere insieme di regole. Ma questo è il punto d’arrivo, non il punto di partenza.

La democrazia non può non essere, all’origine, che il luogo in cui la consapevolezza politica che il singolo ha maturato della articolazione dei problemi che investono la società si salda con la convinzione etica della risoluzione di questi stessi problemi.

La democrazia, perciò, intesa come coinvolgimento politico che tende a risolversi in consapevolezza morale; in questa prospettiva la democrazia esce dalla morta gora delle forme come apriori, come prius e si trasforma in processo, in prassi coinvolgente che mira alla soluzione effettiva dei problemi. La democrazia tende al socialismo.

A partire dal 1989 si assiste ad un disincantamento, per usare il termine weberiano: la centralità del Kant etico-politico da parte di una sinistra che ha, troppo frettolosamente, sposato la causa del pensiero unico dimenticando che, nella propria cassetta degli arnesi, non ci sono soltanto, come vorrebbero far intendere le sirene del pensiero dominante, cattivi maestri. A meno di credere che Gramsci e Lukács siano stati cattivi maestri dimenticando la dimensione intellettuale della battaglia politica e culturale da loro combattuta che nessuna macerie, se non quelle del pentimento a posteriori, possono sotterrare.


Questo testo di Lelio La Porta è stato pubblicato e diffuso da Parliamo di socialismo, 17 ottobre 2025. Si ringrazia Lelio La Porta e la redazione di "Parliamo di socialismo".


In icona: Immanuel Kant "Ritratto di Dresda". - Di unbekannt, möglicherweise Elisabeth von Stägemann (Schule von Anton Graff) - /History/Carnegie/kant/portrait.html, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=897016


[1] L’opera di Kant sarà citata da I. Kant, Lo stato di diritto, a cura di N. Merker, Roma, Editori Riuniti, 1973; lo scritto kantiano sulla pace perpetua è alle pp. 79-121, d’ora in avanti si riporterà con la sigla PP seguita dall’indicazione delle pagine.

[2] PP, p. 80.

[3] PP, p. 80.

[4] PP. p. 81.

[5] PP. p. 82.

[6] PP. p. 83.

[7] PP, p. 83

[8] PP, p. 84.

[9] PP. p. 85.

[10] PP, p. 89.

[11] PP, p. 93-94.

[12] PP. p. 94 «… Si è membri di una comunità mondiale per il semplice fatto di essere uomini: in ciò consiste la nostra esistenza cosmopolitica. Nel giudicare e nell’agire politicamente ci si deve orientare all’idea, non all’effettuazione dell’essere cittadino e con ciò anche spettatore del mondo» (H. Arendt, Teoria del giudizio politico, Genova, Il Melangolo, 1990, pp. 115-116).

[13] PP, pp. 96-101.

[14] PP, pp. 102-103.

[15] PP, pp. 103-116.

[16] PP, pp. 116-121.

[17] PP, p. 87.

[18] I. Kant, La metafisica dei costumi, Roma-Bari, Laterza, 1983, Principi metafisici della dottrina del diritto: Il diritto delle genti: par. 61.

[19] Ivi.

[20] PP, p. 89.

[21] I. Kant, La metafisica dei costumi, cit., par. 62.

[22] Ibidem.

[23] PP, p. 117.

[24] PP, p. 100.

[25] H. Arendt, op. cit., pp. 31-33.

[26] N. Bobbio, Il Terzo assente, Torino, Edizioni Sonda, 1989.

[27] G Lukács, Tattica ed etica, in Id., Scritti politici giovanili 1919-1928, Bari, Laterza, 1972, pp. 10-11.

[28] H. Arendt, op. cit., pp. 81-90.

[29] N. Bobbio, Il problema della guerra e le vie della pace, Bologna, Il Mulino, 1979, pp. 83-86.

[30] E. Bloch, Il principio speranza, Milano, Garzanti, 1994, v. II, pp. 1035-1040.

[31] G. Lukács, Sulla responsabilità degli intellettuali, in Id., Marxismo e politica culturale, Milano, Il Saggiatore, 1972, p. 90.

[32] A. Gramsci, Il canto delle sirene, 10 ottobre 1917, in Id., Scritti (1910-1926) 2 1917, Edizione nazionale degli scritti di Antonio Gramsci, a cura di L. Rapone, con M. L. Righi e B. Garzarelli, Roma, Treccani, 2015, pp. 521-522.

[33] Ivi, p. 524.

[34] A. Gramsci, La grande illusione, 24 luglio 1916, in Id., Scritti (1910-1926) 1 1910-1916, Edizione nazionale degli scritti di Antonio Gramsci, a cura di G. Guida e M. L. Righi, Roma, Treccani, 2019, p. 535.

[35] B. Croce, L’Italia dal 1914 al 1918. Pagine sulla guerra, Bari, Laterza, 1965, p. 21.

[36] La critica di Gramsci a Croce su questo punto è in Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, Torino, Einaudi, 1975, pp. 1211-1213. Gramsci si riferisce allo scritto crociano indicato nella nota precedente.

[37] Ivi, p. 1710.

[38] A. Gramsci, La Lega delle Nazioni, 19 gennaio 1918, in Id., Scritti (1910-1926) 3 1918, Edizione nazionale degli scritti di Antonio Gramsci, a cura di L. Rapone e M. L. Righi, Roma, Treccani, 2023, p. 51.

[39] A. Gramsci, Quaderni del carcere, cit, p. 750. Intorno a questo problema continua a essere fondamentale A. Zanardo, Gramsci e la vita morale, in: Critica marxista, 1988, n. 5.

[40] C. Luporini, Kant e il moralismo, in: Filosofi vecchi e nuovi, Roma, Editori Riuniti, 1981, pp.1-5.

[41] N. Bobbio, Quale socialismo? Discussione di un’alternativa, Torino, Einaudi, 1976, p. 42.


- Ci sono 0 contributi al forum. - Policy sui Forum -