Nicola Pandolfo: il chirurgo, la bimba e la vendetta del boss
Era il 20 marzo 1993 quando, di servizio a Locri, il primario di neurochirurgia dell’ospedale Riuniti di Reggio Calabria, Domenico Nicolò Pandolfo, venne ammazzato da due sicari con sette colpi di pistola.
Agli occhi del presunto mandante, Cosimo Cordì – morto nel 1997 e boss ‘ndranghetista – la colpa del medico era quella di non essere riuscito a salvare sua figlia, Paola, una bimba di nove anni a cui era stato diagnosticato un tumore al cervello molto invasivo e che Pandolfo e i suoi colleghi avevano comunque cercato di operare, nel disperato tentativo di contrastare la gravissima patologia.
La vicenda, ormai trentennale, è stata rievocata dal figlio del primario, Marco, in un’intervista di qualche giorno fa ad “Antimafia Duemila”. Il fine della famiglia è quello di ottenere giustizia dopo che, nel 1996, il caso fu archiviato per insufficienza di prove e di vedere riconosciuto il proprio congiunto come vittima innocente di mafia. In effetti, per quanto sul piano giudiziario non ci siano sentenze se non quella che derubrica il fatto, la storia di Nicola, come veniva chiamato dalla famiglia, è esemplare di un contesto a quanto pare non scalfito dagli anni. Quale contesto, esattamente? Una realtà locale estesa la cui grammatica comunitaria è data dalle parole “intimidazione” e “omertà”. Per quanto riguarda l’intimidazione, a Pandolfo non era certo sfuggito il fatto che, nel 1988, l’allora primario di chirurgia di Locri, Girolamo Marino, fu assassinato da un clan perché ritenuto responsabile della morta di una bambina da lui operata. Peraltro, sempre secondo il racconto del figlio Marco, qualche anno prima di essere ucciso, il padre aveva operato la nipote di un capobastone ‘ndranghetista della provincia di Reggio Calabria. In quel caso, l’operazione riuscì e il chirurgo vide il nonno della piccola poggiare sul tavolo dello studio una pistola, accompagnando il gesto con le seguenti parole: «la ringrazio dottor Gandolfo, se dovesse avere problemi di qualsiasi natura si può rivolgere a me».
Quel clima, che Marco Pandolfo ricorda come se fosse stato a Beirut – tra camionette dell’esercito che presidiavano il territorio graffiato dalle lotte fra clan e sparatorie –, era ben chiaro al primario messinese, a cui i conflitti tra famiglie della ‘ndrangheta imposero, a volte, di correre a riparare i danni delle armi sui corpi dei membri della consorteria criminale o dei boss. E fu chiaro anche il messaggio implicito che seguì la morte della giovane Paola, ossia il ritiro della cartella clinica da parte della famiglia Cordì. Non a caso, nella sua rievocazione, il figlio Marco sottolinea che il chirurgo disse alla moglie che, nel caso gli fosse accaduto qualcosa, avrebbe dovuto ricordare un cognome. Lo stesso cognome che ripeté al poliziotto che raccolse le sue ultime parole prima di morire. Cordì, appunto.
A dirigere le indagini sulla morte del primario fu un giovane pubblico ministero di Locri, Nicola Gratteri, che dispose lo stato di fermo per Cosimo Cordì, quale presunto mandante dell’omicidio. Ma, come si è detto, l’esito processuale fu nullo; il padre della bambina, quel 20 marzo, era a Bologna in ospedale e non poteva quindi essere stato lui personalmente a freddare il medico. Ma qui interviene la seconda parola della grammatica comunitaria, cioè omertà. Sono le stesse parole di Marco Pandolfo a introdurci in quella vicenda lontana, quando parla delle carte processuali: Nicola, il padre, fu freddato dinanzi all’ospedale, al mattino, e a cento metri dal suo corpo c’era un ambulante che, interrogato dal magistrato, disse di non aver visto e sentito nulla. «Ma sono 7 colpi di pistola. Forse il primo puoi non sentirlo, ma gli altri…». Non sentì neanche gli altri e, come lui, nessuno sentì o vide, «nessuno parlò o aiutò la giustizia».
Marco Pandolfo e i suoi famigliari, ora, chiedono giustizia. Dopo molti anni, certo, tra scoramenti e speranze, tra il timore che la distanza del tempo cancelli definitivamente l’episodio di Nicola Pandolfo e l’auspicio che la diversa sensibilità odierna, la diversa consapevolezza del fenomeno mafioso, come dice il figlio del primario ucciso, possa riabilitare la memoria del padre, possa restituire integrità a un uomo «che ha dato la vita per il proprio lavoro, per quello in cui credeva» senza voltarsi dall’altra parte, capace di gestire la paura di vivere in un contesto così complesso come quello della provincia calabrese simile a Beirut.
Chiedono, a un Paese smemorato, di non dimenticare, Marco e i parenti di Nicola Pandolfo. Il primario morì in un’Italia, al tempo, dilaniata dalle bombe mafiose, in una delle più feroci stagioni del rapporto tra Stato e mafie. Una parte della nazione chiede da decenni giustizia e memoria e farebbe bene a chiederle anche in nome della famiglia Pandolfo, perché il primario messinese era un uomo pubblico ed è stato sottratto alla comunità per una questione privata. Quel velenoso interesse personale che tanta parte gioca nella storia italiana, impoverendone le risorse e i diritti collettivi. Perché i Cordì di turno si sentono divinità a cui baciare le mani. Sporche, sempre, di sangue.
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