Muoia Brusca con tutti i filistei

La scarcerazione di Giovanni Brusca infiamma le coscienze. Quelle pulite di chi è stato investito dalla sua spietatezza criminale e quelle più sporche di chi, attraverso il caso del boss dimesso dalla galera, intende cancellare uno strumento che si è rivelato utile nella lotta contro le mafie.
Montano le polemiche, inevitabili, sulla scarcerazione di Giovanni Brusca. L’assassino, l’animale, ‘u verru, il porco, o lo scannacristiani, il braccio violento di Cosa nostra, affiliato dallo stesso Totò Riina, capo mandamento di San Giuseppe Jato, membro della Cupola, figlio di Bernardo e fratello di Emanuele ed Enzo Salvatore, tutti uomini d’onore, ha terminato, con un anticipo di qualche mese, la sua detenzione dopo 25 anni di carcere. A chi conosce i fatti di mafia, è nota la figura di Brusca: è lui stesso a confessare di aver compiuto più di cento delitti, ma, precisa, meno di duecento, di aver ucciso nella maniera più orrenda il piccolo Giuseppe Di Matteo per punirne il padre pentito, di aver premuto il pulsante che squarciò l’autostrada di Capaci, il 23 maggio 1992, e la vita di cinque persone. Non è facile ragionare sul caso Brusca, perché l’orrore che ha creato, la violenza che si è fatta modello di vita, impediscono di passare a quel livello di riflessione fredda e lucida che richiederebbe la sua vicenda quale emblema di una categoria, quella dei collaboratori di giustizia.
Il caso Brusca sollecita, infatti, un dibattito mai sopito: qual è il giusto atteggiamento da tenere nei confronti di chi ha compiuto scelte di vita estreme e pluriomicide e che, poi, ha optato per una strada di rientro, più o meno profondo e reale, nella legalità? Qual è il valore del pentitismo? Gettare la chiave dei pentiti definitivamente, lasciarli chiusi per sempre o commisurare giustizia e rispetto per la collaborazione fornita? L’unica strada da non scegliere è quella degli spot a caldo. Ci si riferisce, ovviamente, agli spot politici, quelli scandalizzati, prevedibili, quelli a comando, quelli che l’opinione pubblica si aspetta. Enrica Letta ha sentito, parole sue, «un pugno nello stomaco», per Matteo Salvini «Brusca è una bestia che non può uscire dalla galera», a detta della Meloni «è un affronto per le vittime». Non variano le considerazioni se si allarga il quadro partitico e istituzionale. Non è irragionevole ciò che i nostri leader politici dichiarano. È ipocrita, innanzitutto. Solo una settimana fa, da queste pagine, si osservava, a proposito delle celebrazioni della strage di Capaci, che da anni le forze politiche nostrane sembrano occuparsi d’altro o, più precisamente, risultano aliene da qualsiasi sforzo concreto e continuativo di contrasto al fenomeno mafioso. Una pietra tombale è caduta sui grandi processi, lo si è detto, così come in un imbarazzante silenzio istituzionale è passato il problema della possibile abolizione dell’ergastolo ostativo, che garantirebbe la scarcerazione, sulla quale oggi si tuona, a chi non intende neanche provare a pentirsi. Così, mentre si mette mano in silenzio ad alcune delle intuizioni di Falcone e le si smonta, davanti alla scarcerazione, a norma di legge, di Brusca, ci si indigna con plastica duttilità, per compiacere un’opinione pubblica emotivamente sensibile. Dai social giunge la voce perentoria della ministra Carfagna: «mai più sconti di pena ai mafiosi, mai più indulgenza per chi si è macchiato di sangue innocente».
È un gioco propagandistico inaccettabile. Ha ragione il direttore di Antimafia Duemila, Giorgio Bongiovanni, quando, riferendosi ai politici e ai loro aggrovigliati contorcimenti ipocriti, li invita a legiferare sul sequestro dei beni, sull’ergastolo ostativo, sui pentiti e poi a spiegare al popolo italiano il senso del loro operato. E chiude lapidario: «fino ad allora l’unica loro possibilità è il silenzio». Con altro animo si devono accogliere le opinioni dei famigliari vittime dell’azione criminale di Brusca. Dalle parole di Salvatore Borsellino, a cui umanamente ripugna la scarcerazione del pentito, ma che ritiene necessario «accettare la legge anche quando è duro farlo», a quelle di Maria Falcone, addolorata e, insieme, convinta che la legge voluta dal fratello vada rispettata, si passa a quelle più dure e senza remissione dei peccati di altri famigliari. Il fratello del piccolo Giuseppe Di Matteo, Nicola, premette di essere abituato a rispettare la legge e, nonostante ciò, invita a non chiedergli di accettarla o condividerla, perché «il dolore è troppo grande». Mentre Tina Martinez, vedova di Antonio Montinaro, uno degli agenti morti a Capaci, afferma di sentirsi presa in giro dallo Stato, sconfortata, e ribadisce: «ho bisogno di uno Stato che ci tuteli non che liberi i criminali». A chi è stato toccato in modo così violento e irreversibile, così lancinante, non si può chiedere di attivare a comando l’asticella del perdono. È, questo, un sentimento personale, privato, intimo, complesso da maneggiare, una memoria che è arduo cancellare, una zavorra che tiene inchiodati a un istante che diventa una vita.
Nel dibattito pubblico, quelle opinioni, quelle dei famigliari delle vittime di mafia, devono centrare, devono essere parte integrante del discorso su Brusca e sull’atteggiamento da tenere nei confronti della violenza mafiosa ed extra-mafiosa. Il dolore personale è, in questo caso, un dolore pubblico e un tema pubblico. Lo è perché ad alleggerire la portata di quel graffio insostenibile dovrebbe essere lo Stato di diritto, il complesso delle norme che esistono per evitare che la vendetta personale prevalga sulla risposta della giustizia. Quel dolore è, insieme, privato e pubblico anche per un’altra ragione, più urticante: l’animale Brusca, ‘u verru, ha schiacciato un pulsante, certo. Da dove arriva, però, quella strage? Chi ha dietro? Quel dolore è pubblico perché esiste, è noto, il sospetto forte, anzi fortissimo, che Brusca sia solo uno degli attori di una tragedia i cui registi restano occulti. E poiché quei registi, in base a quel sospetto, potrebbero emanare da alcune frange dello Stato, anziché essere dei privati cittadini “cattivi”, ecco che quel dolore è pubblico, è un dolore della «res publica», è cosa pubblica, riguarda tutti. Ha a che vedere con le responsabilità di uomini delle istituzioni. Che è ben altra cosa.
Ora, pur nei contorcimenti di un pentimento discusso – tanto che, in principio, Brusca fu sospettato di essere un falso pentito – la qualità della collaborazione dell’ex capo mandamento di San Giuseppe Jato è stata ritenuta via via più precisa e rilevante in termini di riscontri sui fatti di mafia e sui rapporti illeciti di parti dello Stato con Cosa nostra. Dal riferimento alla trattativa al ruolo giocato dall’ex senatore Marcello Dell’Utri, Brusca ha innestato sul sapere giudiziario alcune verità importanti, forse non complete, come sostiene Salvatore Borsellino, ma certamente utili per una più ampia conoscenza dei fatti. Non a caso, la Procura nazionale antimafia ha osservato che «il contributo offerto da Brusca Giovanni nel corso degli anni è stato attivamente vagliato e ripetutamente ritenuto attendibile da diversi organi giurisdizionali, sia sotto il profilo della credibilità oggettiva del collaboratore, sia sotto il profilo della attendibilità oggettiva delle singole dichiarazioni». Al di là della questione morale del pentimento, che appartiene alla sfera privata, Brusca ha offerto prove reali di una collaborazione positiva con lo Stato. Se la collaborazione dei pentiti, auspicata non senza sottolineature critiche e guardinghe dallo stesso Falcone, la si ritiene inutile o da aggiornare, come sembra di leggere tra le righe e non solo degli spot politici, allora si scelga la strada che pare si stia per intraprendere, ossia quella che consentirà a chi non offre nessuna forma di collaborazione o un pur minimo pentimento la possibilità di uscire dalla galera con l’anima vergine, senza tacche di infamia per aver “cantato”, tradito.
Si può fare a meno dei pentiti, come chiede Salvini, per il quale la legge sui collaboratori di giustizia è figlia di un tempo passato? Forse. Sarebbe più lunga la strada del contrasto alle mafie e all’extra-mafia, ma non sarebbe impossibile da percorrere. Si potrebbe, allora, ritenere che il pentimento debba essere un percorso personale, non sollecitato da considerazioni opportunistiche: parlo e quindi mi riducono la pena. Se sciogli un bimbo nell’acido dopo averlo strangolato, non meriti rispetto, si potrebbe pensare, non meriti alcuno sconto. Se ti penti, ti penti intimamente, senza che ciò comporti delle riduzioni di pena. È una strada, certo. Non produrrebbe significative quantità di collaboratori di giustizia, ma eviterebbe l’amarezza suggerita dalla vicenda Brusca, dalla feroce disumanità di quest’uomo. Cancellerebbe, in realtà, qualsiasi ipotesi di possibilità rieducativa dell’individuo, qualsiasi ipotesi di mutamento della persona soggetto di reati, inchioderebbe per sempre un uomo al suo comportamento. Darebbe anche vita all’immagine di uno Stato rigoroso, forte, che non si piega e rivendica il ruolo di controllore dei comportamenti virtuosi e non.
Ma gli individui cambiano, a volte e forse non del tutto, ma cambiano. E gli Stati rigorosi, le «repubbliche dei Santi» del predicatore Calvino, suonano sempre un po’ sinistre, soprattutto se nessuno controlla i controllori. Chi scrive crede che il rapporto con i collaboratori di giustizia debba continuare. Con tutti i contrappesi, i bilancini, le cautele del caso, ma deve continuare. Per i risultati che ha prodotto e che potrebbe produrre in futuro, per l’enorme valore culturale e morale che ha una civiltà capace di condannare, pure in maniera dura, ma non di incrudelire o di vendicarsi. Quello italiano, pur in deficit civico perenne, dovrebbe essere uno Stato di diritto, non l’alambicco emotivo di una comunità disabituata atavicamente a guardare alla giustizia come a qualcosa di giusto e neanche il palcoscenico ipocrita di interessi corporativi. Si grida allo scandalo quando è stata fatta rispettare la legge, strano paradosso di un Paese dalla legalità a dir poco annebbiata. Il giurista Valerio Vancheri lo dice con chiarezza: «lo Stato ha vinto perché è stata applicata la legge e Brusca ha scontato per intero una pena certa e dura. Lo Stato ha vinto perché il boss ha collaborato e ha contribuito alla condanna di decine di altri mafiosi. Non ci deve essere spazio per la barbarie della vendetta, esaltando invece la funzione rieducativa della pena». Si dia una pena più lunga, se il problema è legato al fatto che il collaboratore di giustizia sconta un tempo breve, così si dice, in carcere. I 25 anni paiono pochi per un essere come Brusca? Gli si diano 40 anni. Bastano? È questo il computo da farsi?
Al dibattito pubblico il compito di definire quanti anni servano per ritenere assolto il debito di Brusca e di altri uomini nella sua condizione, quale proporzione trovare tra dichiarazioni utili alla giustizia e anni di pena da scontare. Al Parlamento spetterebbe, invece, quello di definire o, meglio, di ridefinire con chiarezza quale debba essere il rapporto dello Stato con i cosiddetti pentiti. Spetterebbe se fosse un organo legislativo capace di auto-giudicarsi, in grado di sradicare dalla società civile l’idea che la “casta” sia intoccabile, capace di rendere conto ai cittadini di essere esente da tentazioni inconfessabili di smantellamento dell’impalcatura normativa creata da quel Falcone tirato da tutte le parti, osannato nella forma e stropicciato nella sostanza. Il nostro Parlamento non ha quei requisiti. Eppure, è necessario intervenire, perché il caso Brusca va ben al di là dell’uomo macchiatosi di delitti indicibili. Investe la giustizia e la sua amministrazione, investe la politica e le sue responsabilità, investe la morale e i suoi grovigli, investe il problema della legalità e quello della plasticità o della rigidità dei comportamenti umani. L’atteggiamento da adottare nei confronti dei collaboratori di giustizia è uno dei segmenti attraverso i quali si giudica una civiltà, un paese, una comunità. Non può essere gestito a colpi di tweet e di scosse emotive dei tanti Tartufo che squarciano il silenzio nei riti da celebrare ogni anno, o in occasioni di notizie come quelle della scarcerazione di Giovanni Brusca, per ripiombare, poi, in un sonno politico catatonico.
Quale strada scegliere, dunque? Dica il Parlamento quale alternativa propone al pentitismo, quale strada intende imboccare per trovare un equilibrio tra fini (la sconfitta delle mafie) e mezzi (il pentitismo, appunto) o quali nuovi strumenti intende adottare per combattere questa guerra. Dica, soprattutto, se intende combatterla fino in fondo, perché può sorgere il sospetto che adoperarsi per scardinare l’istituto dei collaboratori di giustizia possa essere una manovra per mantenere inalterato il racconto meno compromettente per il Palazzo. Di fatto, è anche, se non soprattutto, dai pentiti che è arrivato un racconto alternativo della vicenda mafiosa nel nostro Paese, quello che mischia le carte dei buoni e dei cattivi, che immette sulla strada delle collusioni politiche e che intiepidisce la nostra fragile democrazia. Non a caso, il procuratore di Messina, Maurizio de Lucia, ha osservato, in relazione al caso Brusca, che «sono state proprio le collaborazioni di giustizia a consentire, non solo di identificare gli autori di alcuni dei più efferati fatti criminali della storia d’Italia, ma anche e forse soprattutto di indagare sui livelli di cointeressenze che Cosa nostra ha con i mondi dell’imprenditoria, delle professioni e della politica». Dica il Parlamento se si debba tenere lo stesso atteggiamento verso chi resta chiuso nel proprio silenzio privo di collaborazione e chi, invece, offre un aiuto utile per contrastare le organizzazioni criminali e il mondo grigio delle collusioni. In guerra si combatte come in guerra e quella contro la mafia e chi con essa delinque è una guerra. Ma la guerra è violenza organizzata, tragedia non priva di un suo ordine e di sue regole. Il rigore che si chiede abolendo sconti di pena si trasforma in rigidità quando non è più in grado di distinguere, quando diventa totalizzante, impedendo di valutare e di discriminare situazione da situazione.
Apra il Parlamento, se la parola democrazia non è diventata una scatola vuota, un dibattito nel Paese, coinvolga la società civile, non a colpi di spot, ma di riflessioni puntuali e informate. Si espongano i partiti, trovino il coraggio di dichiarare le rispettive posizioni, escano allo scoperto, facciano qualcosa per appassionarci a un confronto che vada al di là degli slogan. Convincano la platea elettorale e la cittadinanza che esiste ancora qualcosa di vivo nell’agone politico relativamente ai fatti di mafia, che esiste la volontà di non cercare convergenze opportunistiche, che non è vero che «cane non mangia cane», che le contrapposizioni pubbliche non hanno strette di mano ammiccanti dietro le quinte, a telecamere spente. Sotterrino pure i Brusca presenti e futuri in galera, solo se questo sarà l’esito di un confronto politico e civile degno di questo nome. In caso contrario, non chiedano agli italiani che hanno ancora voglia di vivere in un paese civile di credere che il gettare le chiavi delle loro celle risponde all’alto, supremo interesse della nazione. Altro sarebbe l’interesse della nazione, ad esempio, quello di sapere perché è morto Falcone, perché è morto Borsellino e con loro altri magistrati e giornalisti, perché è morto Umberto Mormile, chi ha ucciso Attilio Manca, perché è morto un collaboratore di giustizia prezioso come Luigi Ilardo prima che collaborasse. E l’elenco è breve. Muoia Brusca con tutti i filistei.
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