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"Miracolo a Sant’Anna" di Spike Lee

Nel film i fatti di Sant’Anna sono una parte esigua, però le brevi sequenze dell’eccidio hanno l’agghiacciante ritmo della tragedia e dell’orrore.

di Antonio Carollo - mercoledì 15 ottobre 2008 - 4252 letture

Ho visto con ritardo “Miracolo a Sant’Anna” . Ad attenuare la mia curiosità hanno forse contribuito le contestazioni, le polemiche, le raffiche di interviste, l’eccessiva esposizione mediatica. Nel film i fatti di Sant’Anna sono una parte esigua, però le brevi sequenze dell’eccidio hanno l’agghiacciante ritmo della tragedia e dell’orrore. L’autore del libro e della sceneggiatura , James McBride, (per quest’ultima insieme a Francesco Bruni) e il regista, Spike Lee, appaiono lontani da uno specifico interesse per le repressioni dei tedeschi e per i fatti delle Resistenza in Versilia. Essi sono poco più che lo sfondo della storia. L’attenzione di Lee è centrata sulla inedita condizione dei neri nell’esercito americano, sull’esperimento di una divisione, la Buffalo Soldiers, formata da afroamericani comandati da ufficiali bianchi, sulle reazioni ed interazioni di sapore razziale nel microcosmo di una unità militare in un contesto (1944) in cui l’apartheid tra bianchi e neri era la regola. Siamo, insomma, nel solco dell’altro film di Lee, “Malcom X”, in cui la denuncia antirazzista assume i colori dell’esplosiva personalità di quel leader nero assassinato. Riesce Lee a tradurre in solida narrazione cinematografica una tesi così impegnativa? Di solito si dice che l’impegno è nemico dell’arte. Non sempre è vero. La genialità di un autore può superare molti ostacoli. Il film ha un inizio sfolgorante. Le scene dell’uccisione di un cliente al banco di un venditore di francobolli e le prime indagini in cui si inserisce un giovane cronista hanno la sicurezza, il realismo e il ritmo del miglior cinema americano. Il flash back che segue al clamore mediatico del ritrovamento nella stanza dell’assassino della testa di una statua trafugata a Firenze durante l’ultima guerra, del valore di diversi milioni di dollari, mantiene la stessa intensità stilistica e resa emotiva. L’avanzare dei soldati neri nella boscaglia vicino al fiume Serchio, la loro vulnerabilità, la consapevolezza del pericolo estremo, la paura e il panico stampati nel volto e nelle parole deliranti di qualcuno dei commilitoni, e poi lo scontro, le deflagrazioni, la crudezza delle immagini di corpi martoriati e mutilati, sono cinema della migliore fattura, anche se gli antecedenti non mancano, a partire da “Salvate il soldato Ryan” di Steven Spielberg. Poi il film comincia a perdere in brillantezza, credibilità, rigore. Si allenta il filo narrativo. Il flash back della scena del barista razzista è pesantemente di maniera . Il melodramma del bambino e del gigante buono (Benigni docet), imposto palesemente dal botteghino, fa cadere il film in una patetica e mielosa inverosimiglianza, anche se l’interpretazione del personaggio Sam Train da parte di Omar Benson Miller è senz’altro eccellente. Matteo Sciabordi, il piccolo interprete di Angelo, se la cava abbastanza, considerando la valenza favolistica e magica della sua parte, che certamente non gli facilita il compito. La lunghe sequenze dei quattro soldati di colore intrappolati nel paesino delle Alpi Apuane, al di là delle linee nemiche, non riescono a rendere il senso, la limpidezza, la misura, la profondità, il passo delle cose che veramente accadono: se ne ricava una vaga sensazione di artificiosità. La tesi antirazzista affiora solo nei densi scambi verbali tra i quattro soldati protagonisti e nei diverbi con l’ufficiale bianco, senza sostanziarsi in un racconto o in una rappresentazione. Aggiungiamo l’improbabile e inconsistente figura della sposa vogliosa che, tra l’altro, si denuda alla vista di uno dei soldati, come se fosse in un elegante appartamento della Fifth Avenue della New York di oggi, il posticcio riaggancio della storia di guerra alla cronaca dell’omicidio commesso dall’unico sopravvissuto, compresa la pretesa magia dell’incontro di quest’ultimo con Angelo, tornato in vita. Forse gli sceneggiatori hanno goduto di troppa libertà nel trasferire (con abbondanza ) materiali dal libro al film. La mano di Lee si nota, oltre che sulle parti eccellenti del film già segnalate, nella sicura scelta delle ambientazioni, nelle riprese dell’antico borgo, delle campagne e dei paesaggi montani, nella direzione degli attori da cui trae il meglio delle loro risorse, nel realismo delle scene di guerra. E’ magistrale il colpo d’occhio, dalla cima di una montagna , sulla colonna dei tedeschi in marcia verso Sant’Anna . Gli attori sono sempre all’altezza delle situazioni. Oltre a Omar Benson Miller si distingue Pierfrancesco Savino nella parte di un capo partigiano, tormentato e inquieto. Un film con luci e ombre, una sceneggiatura straripante, qualche banalità convenzionale in più, lunghi tratti di grande cinema.


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