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Milano. Brucia bambino rom di 13 anni. Per la sindaca è colpa dell’abusivismo

Violente dichiarazioni degli esponenti della destra. Si continuano a fare sgomberi e non accoglienza. Anni fa era bruciato un altro bambino di 13 anni. Sui muri una scritta: "Bruciate ancora rumeni di merda!

di Adriano Todaro - mercoledì 17 marzo 2010 - 3062 letture

Aveva 13 anni. E’ morto, bruciato. E’ successo nell’opulenta Milano, alla periferia ovest, in un pezzetto di area verde di via Caio Mario, lungo via Novara, una lunghissima arteria che congiunge Milano con la periferia. Era un bambino, ma era un rom. E allora la sua morte pesa meno, la si dimentica in fretta, tanto fra poco ci sarà un altro sgombero abusivo, qualcun altro morirà. I rom d’altronde, sono abituati. Abituati a vivere fra i topi e la sporcizia, abituati a rubare, abituati ad ubriacarsi, abituati a chiedere l’elemosina, abituati a vivere sotto i ponti delle autostrade. I luoghi comuni abbondano e ormai, a raccontarli, non c’è neppure un minimo senso di vergogna, solo assuefazione come se, morire bruciato a 13 anni, fosse una cosa “normale”. Nei campi di annientamento nazisti i rom venivano bruciati – assieme ai comunisti, gay, testimoni di Geova, antifascisti in genere – nei forni crematori. Oggi, a 70 anni di distanza dai quei terribili eventi, non si mettono più nei forni, ci pensano loro stessi a bruciare.

Enea, questo il nome del bambino bruciato, viveva in una baracchetta abusiva. Attorno alle 3 di notte di venerdì 12 marzo, scoppia un incendio sembra per un carico eccessivo della stufetta. Il padre, 46 anni, grida di uscire tutti, si prende quello che si può. Si salvano i genitori di Enea due fratellini, la sorella di 21 anni, un altro fratello di 19. Lui non fa in tempo. E’ avvolto dalle fiamme e muore bruciato.

In queste settimane a Milano fa molto freddo. Pochi giorni or sono ha nevicato per l’ennesima volta. Nelle baracche di fortuna ci si scalda come si può. Non ci sono servizi, non ci sono bocchettoni per l’acqua. Non c’è nulla. Solo la baracca costruita dopo che le famiglie rom sono state sgomberati da altri campi. L’insediamento era composto da 25 baracche; i componenti, tutti romeni. Molti arrivavano dal campo di via Triboniano. Vicino a questo abusivo insediamento c’è un campo autorizzato, uno dei 12 di Milano.

I romeni di via Caio Mario, invece, non erano autorizzati. Erano stati sgomberati da altre parti e si erano spostati lì. Ora ci sarà l’ennesimo sgombero effettuato non dalla Polizia di stato, ma dalla Polizia locale agli ordini del vice sindaco Riccardo De Corato. Per l’ennesima volta i romeni prenderanno le loro povere cose e si sposteranno a qualche chilometro ad attendere qualche altra tragedia annunciata, qualche morte, qualche aggressione. Nel campo c’è preoccupazione perché spostarsi significa, spesso, perdere il poco lavoro che sono riusciti a trovare. Afferma un operaio romeno edile: “Sette mesi fa eravamo insediati dietro il carcere Beccaria, in zona Bisceglie. Poi il campo è stato sgomberato ed è finito qui, dove sono state ricostruite le baracche. Alcuni di noi vengono anche da Triboniano – racconta – dove sono stati allontanati, non so perché. So però che lì quattro bambini andavano a scuola e ora qui no”.

Già i bambini. La scuola, l’integrazione, l’accoglienza. Tutte cose finite, che hanno termine con gli sgomberi, con l’esibizione dei muscoli comunali. E non saranno certo le proteste di alcune insegnanti che cambieranno la situazione. I rom danno fastidio e se ne debbono andare. Dove? Nessuno lo indica e loro si spostano e, pazientemente, costruiscono nuove baracche con materiale raccogliticcio, cartone, lamiera, pezzi di legno. Non possono lavarsi perché non c’è acqua ed allora fanno chilometri e chilometri alla ricerca di una fontanella. Non ci sono servizi igienici ed allora si va nei campi, accucciati come animali a fare i propri bisogni corporali.

Siamo nel 2010, siamo nella capitale economica. A poca distanza dai campi, nuove costruzioni ardite, cemento e vetro, Ligresti e soci. Certo, nessuno ama quei campi. Ma qual è l’alternativa? C’è qualche amministratore avveduto che può indicarla? E invece no. Sottolinea don Roberto Davanzo, direttore della Caritas ambrosiana, che “C’è un’amarezza infinita rispetto alle radici di questo dramma: il degrado della vita umana, causato dai continui sgomberi. Perché se già la vita nelle baracche è subumana, dover ricominciare da capo indebolisce la condizione di vivibilità di queste persone”.

E gli altri, gli amministratori comunali cosa dicono di questa morte? Il prode Riccardo tace, ma non crediamo per vergogna perché tutto sommato la vergogna è sentimento nobile. Parla invece, a sproposito, la sindaca suor Letizia Moratti. Si dice dispiaciuta (ma va!) “Per una tragedia che è sempre quella della morte di un ragazzino”, ma aggiunge che “purtroppo queste situazioni di abusivismo portano anche a questo. Proseguiremo con grande rigore nella lotta ala clandestinità e a ricercare percorsi di integrazione”. Chissà se a suor Letizia scappava da ridere mentre pronunciava queste frasi senza senso. La colpa, dunque, è dell’abusivismo e non, come afferma l’Opera Nomadi “il prezzo che si paga a fronte di una totale assenza delle politiche di accoglienza”. La Lega rincara la dose e per l’assessore alla Sicurezza della Provincia, Stefano Bolognini, non ci può essere nessun tipo di integrazione con queste persone. “Ho visitato il campo abusivo di via Novara – racconta ai giornalisti – e, oltre al degrado, si vedono auto di un certo livello. O questi nomadi sono arrivati con molto denaro oppure rubano”.

Per finire la carrellata sui politici, la dichiarazione di Carlo Fidanza del Partito dell’Amore, quello di Silvio: “Soltanto con gli sgomberi si possono evitare situazioni di degrado e le tragedie che ne scaturiscono”. C’è da domandarsi chi le suggerisce certe battute.

E’ con queste dichiarazioni, indubitabilmente violente, che si alimenta il brodo di coltura in cui nasce la protesta dei ceti più ricchi nei confronti dell’auspicata e mai pienamente realizzata politica solidaristica, le pulsioni localistiche della segregazione, dell’esclusione. E così passa nella testa di coloro che ricchi non sono che il pericolo per loro non sono gli speculatori, chi non paga le tasse, quelli che prendono soldi dallo Stato e licenziano gli operai, quelle che speculano sulle aree fabbricabili e sulla salute di tutti noi. No, il pericolo sono “gli altri“, romeni o con la pelle nera. Ecco, allora, che ci si rinchiude nel proprio ghetto, davanti alla Tv o negli ipermercati. E così nasce la xenofobia, la voglia di essere “padroni a casa nostra” e non ci si accorge che i padroni, quelli veri, hanno già disposto tutto a tavolino.

La vita, comunque, a Milano prosegue con un’esangue campagna elettorale che vedrà capitolare il Penati del centrosinistra uno che sui rom è certamente più vicino a Formigoni che a don Davanzo. Anch’io, come il rappresentante della Lega, sono preoccupato per persone senza arte ne parte che girano con fuoristrada e “auto di un certo livello”, non pagano le tasse e si sono piazzati in qualche partito governativo: “O questi sono arrivati con molto denaro oppure rubano”.

Ricordo che qualche anno fa, nel settembre 2008, era bruciato un altro ragazzo, anch’esso di 13 anni, in una fabbrica abbandonata di Sesto San Giovanni, ai confini con Milano. Dopo pochi giorni, sui muri anneriti della fabbrica si poteva leggere questa scritta: “Bruciate ancora rumeni di merda”.

E, infatti, ne è bruciato un altro e pochi se ne sono accorti.


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