Migranti, cosa dicono leggi e convenzioni (citate anche da Piantedosi)
Fulvio Vassallo, già docente di diritto d’asilo, spiega che i migranti a bordo delle navi attraccate a Catania sono sotto giurisdizione italiana, e perché siano respinti o espulsi servono provvedimenti individuali. Quanto alle organizzazioni, "numerosi provvedimenti della magistratura italiana hanno già stabilito che il soccorso in mare in acque internazionali è adempimento di un dovere imposto dalla legge e non può rappresentare un fatto penalmente perseguibile"
L’Italia può negare lo sbarco a una parte dei naufraghi presenti sulle navi delle Ong straniere attualmente in acque italiane o approdate nei nostri porti? E’ questa e solo questa la domanda che vede su fronti opposti il governo Meloni e le organizzazioni non governative impegnate in attività di soccorso nel Mediterraneo. Se battono bandiera straniera, la direttiva interministeriale firmata dai ministri Piantedosi, Salvini e Crosetto pretende di far sbarcare solo le persone vulnerabili, minori e donne incinte in particolare, e di lasciare gli altri a bordo perché riprendano il mare nei tempi stabiliti. Una soluzione alla quale i comandanti si oppongono, decisi a restare in porto finché ogni migrante non sarà sbarcato. Da quale parte sta il diritto e le norme che regolano il soccorso in mare, lo abbiamo chiesto a Fulvio Vassallo Paleologo, studioso della materia e già docente di diritto d’Asilo e status costituzionale dello straniero all’Università di Palermo.
Quali regole definiscono gli obblighi del nostro Stato in tema di ricerca e soccorso in mare?
Nel 2004 l’Italia, come gli altri Stati membri dell’Imo (International maritime organization), ha adottato emendamenti alla Convenzione SAR (Search And Rescue, ricerca e soccorso ndr), che impongono ai paesi aderenti di coordinarsi e cooperare perché i comandanti delle navi siano sollevati dall’obbligo di assistenza delle persone salvate nel minor tempo possibile e con la minore deviazione dal loro percorso. In particolare, c’è il dovere di sbarcare i naufraghi in un porto sicuro nel tempo più breve ragionevolmente possibile. Quasi paradossalmente, l’emendamento 167/78 della risoluzione Imo è citato in premessa alla stessa direttiva che i ministri hanno appena firmato.
C’è chi sostiene che la normativa citata riguardi le sole navi commerciali, non le Ong che opererebbero invece un’attività di soccorsi sistematica.
Sono distinzioni che al momento non si possono fare, perché non c’è fondamento normativo né internazionale né nazionale per distinguere tra il soccorso di navi commerciali che si imbattono o vengono dirette verso naufraghi e quello effettuato dalle Ong. Del resto il punto non è il diritto del comandante della nave, commerciale o civile che sia, ma il diritto delle persone ad essere soccorse, assistite e condotte il prima possibile in un luogo sicuro.
Altri richiamano la Convenzione di Montego Bay del 1982, che considera pregiudizievole per uno Stato il passaggio di una nave impegnata nel carico o scarico di persone in violazione delle leggi di immigrazione vigenti. Insomma, il risultato dei soccorsi delle Ong come completamento dei traffici degli scafisti.
L’argomento è vecchio in quanto già smentito dai numerosi provvedimenti dei tribunali e della Corte di Cassazione secondo i quali il soccorso in mare in acque internazionali è adempimento di un dovere imposto dalle leggi e dalle Convenzioni internazionali e non rappresenta un fatto penalmente perseguibile. Molti ricorderanno il pm Carmelo Zuccaro di Catania, e le sue indagini durate due anni senza pervenire a nulla di penalmente rilevante.
Ancora, le Ong puntano tutte verso le acque e i porti italiani. Quasi un automatismo, no?
Corte di Cassazione e tribunali hanno ormai stabilito che la Libia non può essere considerata paese sicuro, tanto che nella sentenza sul rimorchiatore Asso Ventotto i giudici di Napoli hanno condannato il comandante per aver sbarcato i naufraghi in Libia. Grazie a processi e sentenze sappiamo che i cosiddetti “soccorsi in autonomia” non esistono, che le Ong documentano tutto e avvertono subito ogni autorità competente per la zona SAR in cui si trovano. Ma sappiamo anche che la Libia non interviene quasi mai, soprattutto se la segnalazione viene da una Ong.
Però c’è anche Malta, no?
Malta non ha aderito ai già citati emendamenti del 2004 alle Convenzioni internazionali, che impongono a uno Stato titolare di una zona SAR di garantire anche il porto di sbarco sicuro. E quindi ha gioco facile a negare ogni responsabilità. Poi non va dimenticato che Malta ha 500 mila abitanti e un centro di accoglienza da 300 posti. Chi è in grado di salvare vite in mare è l’Italia, e infatti con l’operazione di salvataggio Mare Nostrum operavamo soccorsi anche nella zona SAR maltese.
Che succede adesso che le navi sono in acque territoriali italiane, anzi, attraccate nel porto di Catania?
A differenza di altri casi passati come quello della comandante Rakete, non c’è stato divieto d’ingresso in acque territoriali. Anzi, l’ingresso è stato richiesto dallo Stato italiano: un atto dovuto visto che si trovavano già al limite dei nostri confini marittimi con a bordo minori e impedirne l’ingresso avrebbe comportato anche la violazione di norme nazionali. Dal momento dell’ingresso l’Italia esercita su queste persone la sua giurisdizione, e questo vale anche per chi rimane a bordo della nave attraccata in porto, indipendentemente dalla sua bandiera.
Questo cosa significa?
Se le persone sono sottoposte alla nostra giurisdizione, il loro eventuale allontanamento dal territorio non può che avvenire attraverso provvedimenti individuali. In modo motivato, la persona può anche essere accompagnata alla frontiera perché torni al suo paese d’origine se tra quelli considerati sicuri. Ma il respingimento e l’espulsione vanno attuati rispetto al singolo individuo, al quale la normativa riconosce il diritto di fare ricorso come quello di chiedere asilo. L’intenzione della direttiva interministeriale del governo Meloni di operare sbarchi selettivi sulla sola base di accertamenti medici è privo di basi legali. E imporre agli altri di riprendere il mare può configurare l’accusa di respingimento collettivo, illecito internazionale per il quale l’Italia è già stata condannata in passato.
Non abbiamo citato l’Europa.
Una premessa: solo l’11 per cento degli sbarchi riguarda le Ong, il restante 89 per cento sono approdi autonomi o attività di soccorso della nostra Marina. Mentre parliamo, a sud di Siracusa la guardia costiera italiana sta recuperando 600 persone che sbarcheranno sul suolo italiano. Ciò detto, pensare di ricattare l’Unione europea dicendo che da oggi vogliamo valutare quanto accade non come eventi SAR ma come episodi di immigrazione illegale rischia di isolarci. Il problema sarebbe modificare il regolamento di Dublino dove stabilisce che l’accoglienza va fatta dal paese di primo approdo. Ma purtroppo Dublino non si è mai modificato e così il codice delle frontiere Schengen che impone formalità ben precise. Lo stesso sistema di relocation finora ha funzionato poco e male. Ma restano queste le cose su cui intervenire a livello politico. Se giochiamo a barare rischiamo di non avere credito per chiedere modifiche delle norme europee e internazionali.
Fonte: Il Fatto Quotidiano.
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