Michael The Air

Il 17 febbraio ha compiuto 55 anni. Dedicata a tutti gli appassionati che non hanno il coraggio di staccare il suo poster dal muro.
Quando ci si avvicinò al mondo della pallacanestro negli anni ’80, si trascinavano le rivalità delle simpatie per le blasonate squadre italiane che si contendevano il palcoscenico nazionale e qualcuna anche quello europeo. Chi si appoggiava alle glorie di Varese, chi alle V nere di Bologna, chi all’1-3-1 dell’Olimpia Milano. Nel mezzo, l’ammirazione generale per Antonello Riva, il più grande cecchino italiano di sempre, con la sua Cantù. Ogni tanto una sorpresa si frapponeva tra le corazzate delle grandi città e vedere Caserta diventare Campione d’Italia, accendeva le speranze di piccole realtà che, negli anni a venire, avrebbero occupato l’attenzione degli addetti ai lavori.
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In Sicilia, praticare basket, specialmente se vivevi in provincia, era un’impresa. Strutture inesistenti, spesso all’interno di palestre all’aperto delle scuole locali, non sempre accessibili dall’esterno al di fuori dell’orario scolastico. La fantasia veniva incontro a questa fame di basket. Cortiletti rionali con canestri improvvisati, inventati sul momento sfruttando il fustino di cartone del detersivo per lavatrice, che le madri cedevano ai figli.
Il pallone era unico. Quello che veniva utilizzato per il calcio, la pallavolo, a volte anche per il rugby in spiaggia. Perfetto nella sua misura per quel canestro improvvisato. La magia di tutto questo fu rovinata da Dan Peterson. Le prime immagini della Nba americana, il suo commento impastato da slang e "mamma, butta la pasta", ci portarono in casa atleti volanti, slam dunk, tiri da tre punti, ai quali non eravamo abituati.
La mano calda di Larry Bird, gli assist fantasma di Magic Johnson, il gancio cielo di Kareem Abdul Jabbar. E poi Isiah Thomas, folletto mezzo indios, Julius Erving che sembrava avesse davvero le ali nei suoi terzi tempi che staccavano da oltre la linea dei tre punti. Se ne potrebbero nominare a centinaia. Furono la spinta che consentì a molti di scavalcare quelle barriere di ferro, poste impunemente attorno ai campi di pallacanestro delle scuole.
Poi arrivò lui, a sconvolgere ulteriormente il sogno americano, appeso al muro della propria stanza. Se è vero che Larry Bird ebbe a dire di lui che, sicuramente, non appartenesse a questa terra, ma che a questa terra fosse stato dato in prestito per rendere il basket lo sport più amato negli States, almeno in quegli anni.
Chi non ha avuto una canottiera, magari taroccata, del mitico 23 su sfondo rosso dei Chicago Bulls? Michael Jordan è il basket. Paragoni che non smetteranno mai di essere messi sui parquet di tutto il mondo, provano a confrontarlo con miti del passato e del presente. Parole perse nel vento, lo stesso che lo ha sempre sollevato e trascinato fino alla retina da deflorare con la sua immensa eleganza.
Basterebbe ammettere che Mister Air è stato unico, inimitabile, geniale. E’ un discorso che vale per molti altri sport. Le solite gare all’eccellenza di tutti i tempi che vogliono Maradona meglio di Pelé, Federer più forte di Connors, Mohammed Alì più carismatico di Monzon. Quella stupida febbre di competitività applicata allo sport, che riesce ancora a mettere da parte l’essenza di praticarlo o seguirlo, con le sue differenze, le sue eccellenze, i suoi limiti. Le sue magiche creatività.
Noi rimaniamo con i piedi per terra, non potendo veleggiare sulle altitudini che Michael Jordan ci ha abituati ad ammirare nella sua lunga carriera. Vogliamo soltanto aggiungere una precisazione che, secondo noi, alla fine è la vera differenza tra le generazioni di campioni. E’ la correttezza e il rispetto per il mondo sportivo che ha accompagnato una buona parte della vita di questi extraterrestri. Un particolare che ci fa preferire un fuoriclasse rispetto ad un altro. Quello che ci auguriamo possa ritornare di moda come metro di valutazione per le prossime generazioni di sportivi.
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