Matteo Messina Denaro, il "criminale onesto"
È giusto scrivere su questo personaggio, autore di omicidi, associato mafioso, estortore, terrorista? Qualsiasi decisione si prenda, ci sarà sempre una critica pronta a schierarsi per una o per l’altra scelta.
Si è spento alle due del mattino di lunedì 25 settembre, Matteo Messina Denaro. Si è spento dopo un mese di ricovero presso l’ospedale de L’Aquila, malato terminale di un tumore al colon, circa nove mesi dopo la sua cattura presso una struttura sanitaria siciliana e trent’anni di latitanza in pubblico.
Anche lui, come il padre, morto di morte naturale, come quel don Ciccio che Saverio Lodato ricorda, in un editoriale intenso su “Antimafia Duemila”, «apparecchiato e vestito a festa all’ombra degli ulivi, perché tutti sapessero che “don” Ciccio era stato raggiunto solo dalla mano di Dio, altro che dalla mano dello Stato».
L’aureola criminale che lo ha circondato impedisce celebrazioni intrise di nostalgia o di rimpianti, di retorica che imbelletta una vita ad altissimo regime mafioso, l’uomo detentore di segreti importanti, tragici e coinvolto in alcune delle più drammatiche pagine della nostra storia nazionale dei primi anni Novanta, dagli omicidi di Falcone e Borsellino alle stragi milanesi, fiorentine e romane del ’93.
Se n’è andato in silenzio, non quel silenzio a cui si aspira nel momento finale di un’esistenza. Se n’è andato nel silenzio mafioso dei segreti rimasti tali, preceduto dal clamore mediatico della sua cattura, salutata come un ulteriore colpo vincente dello Stato contro Cosa nostra. Forse lo è stato un colpo vincente, certamente ha ricordato che esiste ancora una mafia, che si nasconde con qualche reticenza, che ancora si attende di capire cosa accadde in questo Paese trent’anni fa e più ancora, perché Matteo Messina Denaro è un anello della catena, per quanto importante, che segue e precede un sistema criminale tutt’altro che scomparso.
È sempre difficile ragionare su una morte e raccontare una vita, per quanto si tratti, in questo caso, della scomparsa di un uomo che né i valori religiosi né un’etica laica potrebbero assolvere per quanto ha intrapreso e scelto di fare nella sua umana avventura. Un uomo che, nel febbraio di questo stesso anno e poco dopo la cattura, aveva dialogato con i magistrati palermitani, dando vita a un interrogatorio – disponibile in Rete – che il mafioso aveva affrontato cercando di ripulire l’immagine pubblica pesantemente incrostata dalle cronache che lo riguardavano. Presso gli uffici della Dda palermitana, davanti al procuratore Maurizio De Lucia e al procuratore aggiunto Paolo Guido, oltre a due ufficiali del Ros, Matteo Messina Denaro aveva risposto per circa un’ora e mezza alle domande dei suoi interlocutori, rifiutando qualsiasi addebito nei suoi confronti. «Lei è uomo d’onore?», «no, io mi sento uomo d’onore nel senso di altri non come mafioso», «non ha mai avuto a che fare con Cosa Nostra?», «non lo so magari ci facevo qualche affare e non sapevo che era Cosa Nostra», e così via, sino all’autodefinizione di «criminale onesto», l’ossimoro, come lo definisce un magistrato, ricevendo in risposta «la gelida fiamma», esempio scolastico di quella figura retorica di significato che il boss dimostra di non aver dimenticato.
E, sopra ogni cosa, in quel dialogo giudiziario, il boss di Castelvetrano respinge l’accusa di essere il mandante dell’omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo, non rifiutando, di fatto, quella di averne ordinato il sequestro. Bisogna dare a Cesare quel che è di Cesare, afferma ancora l’indagato, e il cerchio diventa quadrato, la riprovazione pubblica va limata, per far sì che la coscienza intima e l’immagine pubblica possano andare a braccetto, per far sì che si trovi un equilibrio accettabile tra la sua reale esperienza di vita - «una vita molto avventurosa […] molto movimentata» - e la rappresentazione più pacata e meno drammatica da fornire al pubblico.
Matteo Messina Denaro sapeva di dover morire, più volte lo si è detto nei mesi scorsi. Questa, a detta di molti commentatori, è stata la ragione principe alla base della sua cattura, ossia l’ineluttabilità della sua fine e la relativa inutilità del perdurare della sua latitanza: «senza la malattia non mi prendevate», commenta egli stesso davanti ai magistrati. È rimasto fedele a sé stesso, fedele alla linea già seguita da altri mafiosi di rilievo, incardinati sul valore a cui si sono ispirati per larga parte della loro vita, il silenzio degli uomini d’onore. Lo si era già detto su queste stesse pagine, si era già ipotizzato che il latitante appena catturato non avesse alcun interesse a parlare, neanche per scaricarsi la coscienza e non lo ha fatto, se non per scolorire le ombre più cupe.
Se n’è andato un uomo verso il quale è difficile provare sentimenti di pietà o umana compassione, almeno in chi non gode il privilegio di un animo così alto da leggere al di là delle cose terrene, da vedere la luce dove ci sono pesanti oscurità. Il suo destino ulteriore riguarda lui, la sua eredità riguarda noi, i suoi silenzi riguardano tutti, i suoi atti da mafioso prestigioso non restano circoscritti alla sua singola esperienza, perché non svaniscono con lui, restano. Perché, per quanto alta e importante nel pantheon mafioso, quella di Messina Denaro rimane una voce singola, e la mafia è un coro, come ogni fenomeno storico, in cui nessun direttore è in grado di elevare sinfonie senza un’orchestra. Non mangiava ricotta e cicoria come Provenzano, il boss appena scomparso, e conosceva l’ossimoro, il criminale onesto, ma come i suoi illustri predecessori – e come sapranno i suoi successori – sapeva di non essere solo, sapeva che non sarebbe terminato nulla con lui.
Rivolgendosi al procuratore De Lucia, durante l’interrogatorio, l’ex latitante dice: «ma una domanda così, che lascia il tempo che trova: ma cosa è cambiato secondo lei?» – ossia dopo il suo arresto, si intende – «c’è una corruzione fuori, c’è una corruzione fuori indecente».
Qualcosa di vero, Matteo Messina Denaro l’ha detta. Poco, a uso e consumo della compiaciuta idea di sé stesso durante il colloquio con i magistrati, ma se qualcuno la corruzione l’ha conosciuta, incontrata, sollecitata, annusata quello è lui. Peccato non abbia sentito il bisogno di tradurla in resoconto giudiziario e in narrazione utile per i futuri studiosi dei nostri tempi. Porta, ovunque sia, i segreti di un paese intero; a lui brinderà, e al suo marmoreo silenzio, chi ha temuto, anche solo per un attimo, che il criminale deviasse fuori dai binari dell’ossimoro per approdare a un’onestà d’animo capace di tradursi in confessione. L’Innominato, torturato dai sensi di colpa e dagli scrupoli e convertito al bene dopo un’esistenza malvagia, resta lontano dalla cultura dei Messina Denaro, resta sulla carta, dov’è nato, sulle pagine manzoniane. Dove risiede la fiducia dei non violenti, a cui serve almeno un luogo di compensazione dalle asperità della realtà.
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