Mario Francese, la Sicilia e gli altri
Voi lo sapete quanti giornalisti sono stati uccisi in Italia dal secondo dopoguerra a oggi? Non lo sapete? Ve lo dico io: 17.
Questa è, in breve, la storia di un uomo, di un uomo morto per le sue idee. Ma è anche, in piccolo, la storia del giornalismo. Di un giornalismo di frontiera dove chi scrive può crepare per un sì o per un no. Dove il giornalista, quello che vuole fare davvero questo mestiere, con scrupolo, coscienza e onestà, è nemico di tutti e amico di nessuno. E’ guardato storto dai potenti e dai loro lecchini, è ostacolato da quelli che crede amici, è isolato dai colleghi di redazione, è cacciato via dai circoli perbene, dai salotti buoni, ma non trova conforto neanche tra la povera gente, tra quelli per i quali lotta, si impegna, si espone: per loro è solo uno che vuole fare carriera sulle loro disgrazie. E vai a fargli cambiare idea, se ci riesci. E’ uno, infine, che va bene solo dopo morto, quando si appropriano della sua memoria, delle sue battaglie, delle sue inchieste e lo glorificano. Ma quanto era bravo, ma quanto era buono, ma come denunciava bene, che coraggio aveva! Sempre dopo, però! Intanto è morto. Ammazzato, magari.
Voi lo sapete quanti giornalisti sono stati uccisi in Italia dal secondo dopoguerra a oggi? Non lo sapete? Ve lo dico io: 17. Walter Tobagi, Carlo Casalegno, Giancarlo Siani, Maria Grazia Cutuli, Ilaria Alpi, Enzo Baldoni e via discorrendo. E in Sicilia, quanti giornalisti sono stati uccisi? Contiamoli: Cosimo Cristina, Giovanni Spampinato, Mauro De Mauro, Pippo Fava, Beppe Alfano, Mauro Rostagno, Peppino Impastato e mio padre, Mario Francese. Quanti sono? Otto. Tutti giornalisti, tutti morti. Morti ammazzati, per la precisione. Tutta gente che scriveva. Scriveva soltanto. Non faceva altro. Ma, per loro scrivere significava vivere, capire, lottare, stare dalla parte giusta, contro potenti ed i prepotenti, i mafiosi e i loro compari. Semplicemente capire. E qui da noi capire è spesso la cosa peggiore che ti può capitare.
“Io ho un concetto etico del giornalismo. Ritengo infatti che in una società democratica e libera quale dovrebbe essere quella italiana, il giornalismo rappresenti la forza essenziale della società. Un giornalismo fatto di verità impedisce molte corruzioni, frena la violenza, la criminalità, accelera le opere pubbliche indispensabili, pretende il funzionamento dei servizi sociali, tiene continuamente all’erta le forze dell’ordine, sollecita la costante attenzione della giustizia, impone ai politici il buon governo. Se un giornale non è capace di questo, si fa carico anche di vite umane. Persone uccise in sparatorie che si sarebbero potute evitare se la pubblica verità avesse ricacciato indietro i criminali: ragazzi stroncati da overdose di droga che non sarebbe mai arrivata nelle loro mani se la pubblica verità avesse denunciato l’infame mercato, ammalati che non sarebbero periti se la pubblica verità avesse reso più tempestivo il loro ricovero. Un giornalista incapace – per vigliaccheria o per calcolo - della verità si porta sulla coscienza tutti i dolori umani che avrebbe potuto evitare, e le sofferenze, le sopraffazioni, le corruzioni, le violenze che non è stato capace di combattere. Il suo stesso fallimento!”
Queste non sono parole dell’uomo di cui voglio parlare, ma di un altro: di Giuseppe Fava, un altro giornalista ucciso per il suo impegno. E’ difficile trovarne di più attuali, oggi. Si potrebbe usare come esergo ad una storia del giornalismo libero in Italia.
L’uomo di cui voglio raccontare si chiamava Mario Francese. Era, come si suol dire, un siciliano d’Oriente, essendo nato a Siracusa, ma occidentale per adozione. Divenne giornalista professionista nel 1968. A 43 anni. Fino ad allora aveva collaborato con la Sicilia di Catania, poi con l’Ansa ed, infine, con il Giornale di Sicilia di Palermo. E qui avvenne la svolta della sua vita. Infatti, gli affidarono la cronaca giudiziaria. Che per lui diventò una sorta di droga. Vi si lanciò con tutta l’energia che aveva in corpo, e ne ha tanta… indubbiamente. Voleva scavare, capire, informarsi ed informare, non accontentarsi delle paludate pappine preriscaldate preparate dalle autorità, dai giudici, dalle agenzie di stampa di regime. E no, lui non era così. Lui, nelle cose, ci andava fino in fondo. Fino all’esasperazione se era necessario. Uno dei fatti più sconvolgenti che dovette raccontare fu la strage di Ciaculli del giugno 1963, quella che costò la vita a sette esponenti delle forze dell’ordine, inghiottiti dalla fiammata proditoria di un ordigno nascosto nel bagagliaio di una Giulietta.
Voi sapete dove viene stampato il Giornale di Sicilia? Esatto, a Palermo. E lì andò a lavorare nel 1968. In realtà, lui, a Palermo, ci stava da quando aveva 15 anni. Dopo i primi due anni di ginnasio a Siracusa, si era trasferito a Palermo, da certi zii che lì abitavano. Si era subito innamorato della città, del suo caos deflagrante, della sua aria mediterranea e sonnolente, dei suoi ritmi paludati, della sua saggezza cinica e meditabonda. C’era rimasto. Facendo il collaboratore di varie testate. Poi, nel ’68 la svolta. Il ’68! Un’epoca, un mondo. Un mondo che nasce e uno che crolla. E non solo in senso metaforico. Visto che il ’68 fu anche l’anno del Belice. Ma su questo torneremo.
Dunque, nel ’68 cominciò a lavorare stabilmente al Giornale di Sicilia. Il Giornale di Sicilia è un giornale di regime. Mai definizione è stata più azzeccata. Il primo numero del giornale, come ricorda Claudio Fava, risale al 1860. Garibaldi è alle porte, ma il giornale sta dalla parte dei Borboni. Garibaldi è solo un bandito, come banditi sono le camicie rosse, i liberali italiani, i repubblicani mazziniani. Mentre saggi e giusti sono il re e la Sua Augusta Famiglia – Viva il Re Borbone, che Dio ce lo conservi! Poi le cose cambiano. I Barboni scappano, inseguiti dal loro stesso fallimento e dalla miseria che hanno seminato, e il Giornale di Sicilia cambia velocemente casacca anche lui: Viva Garibaldi, Viva l’Italia unita, Viva Vittorio Emanuele II Re d’Italia! Da allora sempre in prima fila, sempre nelle mani della famiglia Ardizzone, sempre a difendere gli interessi dei potenti. Sempre.
Mario Francese fu il primo in molte cose. Fu il primo, ad esempio, a scrivere di un nuovo, feroce, boss in ascesa, Totò Riina. Fu il primo e l’unico a intervistarne la moglie, Ninetta Bagarella, nel 1972. Fu il primo a descrivere dettagliatamente la mappa delle famiglie mafiose di Palermo e dintorni. Dopo il primo grande processo di mafia, nel 1969, l’occasione per rifarsi fu offerta dal terremoto del Belice. Miliardi su miliardi stanziati da Roma per la ricostruzione su cui le famiglie mafiose non ebbero difficoltà a mettere le mani. Attorno a questi soldi si scatenò la lotta senza quartiere che insanguinò la Sicilia. E lui a scrivere di tutto questo. Intuì che dopo la strage di Ciaculli qualcosa era cambiato all’interno della vecchia struttura di Cosa Nostra. Qualcosa s’era rotto. Definitivamente. Come scrisse nel dossier del marzo 1979, la vecchia mafia si era modernizzata ed aveva ampliato e ramificato i propri interessi. Dal settore degli autotrasporti a quello del contrabbando di droga, sigarette, valuta, preziosi. Facevano viaggiare in mezzo mondo le casse di sigarette di contrabbando e la droga, il vino sofisticato nel porto di Palermo e i denari da ripulire che finanziavano attività apparentemente innocue o persino utili: agenzie turistiche, discoteche, ristoranti, saune, supermercati, grandi magazzini, ma anche la costruzione di strade, autostrade, palazzi di tribunali, banche, stadi, caserme, scuole, condomini, chiese. Sentite che cosa scriveva nel 1979: “Il contrabbando di droga, sigarette, valuta e preziosi è la principale attività che consente alla mafia di dominare la malavita dei quartieri imponendosi come fonte primaria di lavoro. Migliaia di disoccupati, di invalidi, di persone appena uscite dal carcere vivono infatti di contrabbando. Da non sottovalutare un aspetto sociale di fondamentale importanza: sono tutte persone distratte da reati più gravi come gli scippi, le rapine, i furti.” Fu anche il primo a parlare di commissione mafiosa e dei nuovi organigrammi delle famiglie.
Nel ’77 arrivarono alla redazione del Giornale di Sicilia il direttore Rizzi e il caporedattore Lucio Galluzzo. Due mosche bianche in un ambiente in cui i giornalisti vanno a cena coi mafiosi e fanno i galoppini per i politici dei clan. Francese conosceva tutti. O così credeva. Poi, gli capitava in mano una foto e scopriva che tizio o caio, che magari stava seduto davanti alla sua scrivania al giornale, la sera andava a cena con qualche boss mafioso, un Greco, un Riina, un Badalamenti. Attorno a lui, anzi a loro, ben presto si formò un’aria… come dire?... rarefatta. Il silenzio calava come un macigno ogni volta che si avvicinavano, li scrutavano guardinghi come si fa con i seminatori di discordie. Molti degli articoli che pubblicò in questo periodo sono dedicati al Belice, alla sua ricostruzione e soprattutto all’affare della diga Garcia. “Quando nell’inverno del 1968 la terra del Belice trema – scriveva mio padre – pochissime persone riescono a immaginare quali immense fortune saranno ricavate dalla disperazione del terremoto. Antichi paesini di pietra adagiati da secoli nella vallata del fiume Belice vengono distrutti per sempre. Ben altre sciagure sono all’orizzonte in quel fazzoletto di Sicilia dove fra le viscere della terra si levano i disperati lamenti dei sopravvissuti.” Non male, che ve ne pare? Il sisma aveva distrutto 21 comuni. Ma il peggio doveva ancora arrivare. Era scoppiata da lì a poco una guerra di mafia senza precedenti, cruenta, feroce, che insanguinò e violentò un intero territorio della Sicilia occidentale. Tutti sembravano impotenti. Anche perché tutti sembravano non capire. Voltavano la testa da un’altra parte, piegavano le schiene, camminavano carponi per non vedere, per non sentire. Mario Francese no. Lui, la sua battaglia, voleva combatterla. E combatterla fino in fondo. Prese le sue armi di ordinanza, le sole che conosceva e conservava, penna e block-notes, e andò nella valle del Belice. Voleva andare a vedere una cosina. Voleva andare a vedere con i propri occhi il posto dove sarebbe sorta la diga più grande del Sud, un invaso da 100 milioni di metri cubi che avrebbe dato acqua a tre province e undici comuni. Diga della Garcia, si chiamava. Ed ecco che, parlando e chiacchierando con i contadini, con la gente di quei posti, col barbiere e col salumiere, con il ragioniere e con il panettiere, scoprì il paradigma. Cioè la struttura portante, il ‘contesto’ direbbe Sciascia, che generava e faceva proliferare mafia e malaffare. Scoprì il meccanismo infernale che legava insieme politici, mafiosi, affaristi, impiegati, banche. Il tutto per metterla in culo alla povera gente. L’humus della corruzione. L’humus e il verminaio. Cos’era accaduto? Era presto detto. La Regione, grazie allo statuto speciale di cui dispone, varò una serie di leggi finalizzate a favorire la realizzazione dell’opera. Costo, coperto dall’Ente regionale e dalla Cassa per il Mezzogiorno: 350 miliardi di lire, una cifra esorbitante per l’epoca. Ma, direte voi, se serve, serve. No? E’ vero. Però, c’è un piccolo però. Le terre che vennero individuate per l’esproprio erano seminativi e latifondi incolti, appartenenti a grossi proprietari assenteisti, di quelli che non si erano mai occupati di farli fruttare, di dar lavoro, di sfruttarli in qualche modo. Però era gente ammanicata politicamente con quelli che sedevano a Palermo, tenevano saldi legami, diretti o indiretti, con altra gente poco raccomandabile e si onoravano della loro amicizia invitandoli nei loro salotti buoni, dove tra un drink e un cannolicchio, tra donne ingioiellate e camerieri in livrea, si fanno affari e si creano e modellano fortune politiche e strategie di governo. Tornando ai terreni, però c’è da dire che, fin qui, in fondo, non c’è nulla di eccezionale. Se questi terreni fossero stati espropriati in base a regole e cifre trasparenti e soprattutto in base a quello che effettivamente valevano (cioè poco o nulla, perché abbandonati o incolti), effettivamente non ci sarebbe stato nessun problema. Ma le cose ovviamente non andarono così. Le terre nel frattempo cambiarono velocemente padrone. Mio padre scoprì che i vecchi proprietari avevano venduto a prezzo di pascolo, cioè a circa 300 mila lire per ettaro, e adesso i nuovi proprietari – per volere della Regione – si trovavano indennizzati con circa 13 milioni per ettaro: quaranta volte di più! Mio padre mise tutto nero su bianco. Dal 4 al 21 settembre 1977 pubblicò in sei puntate la sua inchiesta sul Giornale di Sicilia. Il suo lavoro svelava la corruzione e gli sprechi dietro il meccanismo della decisione di costruire la diga e dietro la sua costruzione. “Noi non abbiamo occhi per piangere – gli dice la gente vittima del sisma - e qui costruiscono ‘na cosa che manco in America!” Ma Mario Francese, mio padre, faceva anche i nomi. Faceva i nomi di quelli che avevano rastrellato i terreni. E che si sarebbero rivelati i nuovi padroni della Sicilia: i ras delle esattorie Nino e Ignazio Salvo, ma anche Totò Riina, la primula rossa sanguinolenta e spregiudicata di Cosa Nostra. Raccontò tutto, Francese. Fu il primo a fare il nome di Riina, a parlare della scalata dei corleonesi, dei loro appalti, dei loro traffici, dei loro investimenti, dei loro complici, persino delle società inventate di sana pianta per l’occasione, come la ‘Ri.Sa’, dalle iniziali di Riina Salvatore.
Cosa Nostra non si fece attendere. Il primo ad essere colpito fu Lino Rizzi, il direttore del giornale. Gli fecero esplodere la macchina. La redazione restò freddina. Guardinga, poco partecipe. Anzi, per nulla partecipe. Dopo toccò al capocronista Lucio Galluzzo, chiamato al giornale proprio da Rizzi. Era stato proprio Galluzzo ad incaricare Francese di occuparsi della diga Garcia. A Galluzzo bruciarono la villa in campagna. Quando la notizia giunse in redazione, i colleghi si mostrarono quasi infastiditi. Pochi gli manifestano la benché minima solidarietà, molti gli fanno il vuoto attorno. Ma chi glielo fa, a lui? Che cosa s’è messo in testa, vuole drizzargliele lui le zampe al cane? I più tacciono, girano alla larga, fingono. Fingono di non sapere, fingono di farsi i fatti propri, fingono di essere uomini e invece sono solo mediocri pagliacci. Nulla di cui stupirsi, in fondo, se si scopre poi che l’editore del quotidiano frequenta alcuni boss come Michele Greco, Stefano Bontate, Tommaso Spataro… E questo mentre Francese tocca con mano la disperazione di tanti uomini e donne, la loro delusione, la loro lotta per la dignità e per la sopravvivenza in quell’arabesco in rilievo noto come valle del Belice. Descrive le loro speranze vane, le loro lacrime che si asciugano al sole ed al gelo, il disinteresse delle pubbliche istituzioni, le promesse ed i voti che fanno la fortuna di grassatori e sparvieri, parla della loro rabbia, della loro indignazione. E della loro solitudine. Mentre le baracche vengono a poco a poco sistemate e curate come se fossero le vere, definitive, case. Senza illusioni, con realismo e pragmatismo. E dopo quasi trent’anni, poco o nulla è cambiato. Neanche la diga s’è fatta, per la cronaca.
Dopo la sua morte, il giornale avrebbe pubblicato il suo dossier a puntate. Il 20 maggio 1979 verrà rivelata l’indagine che aveva condotto per l’omicidio del colonnello Giuseppe Russo. Un’altra vittima di quella maledetta diga, in fondo.
Il colonnello Russo aveva scoperto che la mafia aveva messo le mani sull’affare dell’invaso. Secondo il giornalista, l’interesse del militare per la storia della diga era venuto fuori per una storia di amicizia personale. Quelle storie di amicizie vere e disinteressate, tipiche di un mondo ancora romantico di intendere le relazioni umane che, a volte, caratterizzano gli animi siciliani. Infatti, il colonnello aveva un caro amico, Rosario Cascio, che aveva vinto legittimamente l’appalto per la realizzazione dell’opera. Però, con pressioni, minacce e violenze, Cascio fu costretto a mollare l’appalto. Russo intervenne per capire. Cominciò a indagare. E questo non piacque alle famiglie in ascesa, quelle che avevano il controllo del territorio e dei denari pubblici.
Il 20 agosto 1977, alle ore 21.30, il colonnello Russo uscì dalla sua casa estiva di Ficuzza, a pochi chilometri da Palermo. Uscì per fare due passi. Lui, la moglie, la signora Mercedes Berretti, e la piccola Benedetta avevano appena terminato di cenare. Avevano lasciato il capoluogo siciliano nel pomeriggio. Erano iniziate le loro vacanze, a Ficuzza. Vacanze semplici. Aria pura, pochissimo traffico, pochi svaghi e lunghe passeggiate nei boschi dei dintorni. La signora Mercedes decise di restare a casa a riordinare. Le donne, le mamme, sono fatte così, no? Prima riordinare, prima la casa. E, dopo caso mai, un po’ di divertimento. Inoltre, si sentiva stanca. Voleva andare a letto subito dopo. Il colonnello decise di andare in piazza, invece. Prima però passò a chiamare un amico che abitava poco lontano, l’insegnante Filippo Costa. In maglietta e calzoncini, sotto il cielo stellato, i due amici camminavano a cavallo di un distratto ciacolare, fiancheggiando il porticato della caserma della Forestale, diretti al bar del paese. Al bar entrò solo Russo. Fece una telefonata ed uscì. Costa attendeva fuori. Poi ripresero la passeggiata. Un testimone, Felice Crosta, disse di averli visti alle 22, che andavano verso la parte alta della piazza lungo il viale parallelo a quello principale. Qualcun altro, però, vide un’altra cosa: una ‘128’ verde che procedeva lentamente, come in cerca di qualcosa. Ad un certo punto, la macchina fece una svolta ad U e si arrestò davanti alla casa di Russo. Ormai i due amici erano vicini all’auto verde. Non se ne resero conto, probabilmente. Si fermarono un attimo. Russo tirò fuori una sigaretta ed i fiammiferi dal taschino della camicia, ma non ebbe neanche il tempo di accendere. Dalla 128 scesero tre o quattro uomini a viso scoperto. Lentamente, per non destare sospetti, si avviarono verso i due. Appena furono vicini, aprirono il fuoco con le calibro 38. I killer erano molto tesi. Tanto che uno, nel lanciarsi contro il colonnello per finirlo, gli cadde addosso. Si rialzò immediatamente e, come in preda a un raptus, gli sparò un colpo di fucile in testa. Fu il colpo di grazia. Poi passò all’amico. Mirò anche alla testa di quest’ultimo. Fece fuoco. E andarono via, lasciando sotto il corpo del colonnello Russo un paio di occhiali. Altre due vittime della diga Garcia.
Francese aveva scritto anche di questo. Cronaca, storia e motivi del duplice omicidio. Ma non ebbe il tempo di pubblicarlo. Da vivo, almeno.
La sera del 26 gennaio 1979 Mario Francese rincasava verso le 20 e 30. Scese dall’auto. Fece due passi verso il portone. Uno gli si avvicinò alle spalle. Sei colpi di P38. In testa. Quello fu il delitto che aprì la lunga sequela di sangue di Cosa Nostra. I cosiddetti ‘delitti eccellenti’ a ripetizione.
Dopo di lui toccò al primo politico, il segretario provinciale della Dc Michele Reina, la sera del 9 marzo 1979, a Boris Giuliano, il 21 luglio, a Cesare Terranova e Lenin Mancuso, il 25 settembre.
Il 6 gennaio 1980, poi, il Presidente della Regione Siciliana l’On. Pier Santi Mattarella uscì di casa e salì in auto insieme alla moglie e al figlio. Stavano andando a messa. Un killer si avvicinò al suo finestrino e gli scaricò addosso un intero caricatore 7,65. Cadde così uno dei simboli istituzionali della lotta alla mafia. Colui che aveva trovato un accordo con Pio La Torre, segretario regionale del PCI, per una strategia ferrea ed inflessibile volta a troncare i legami tra mafia e politica. In quel periodo stava cercando di ammodernare l’amministrazione regionale. Come già accaduto con l’assassinio di Reina, inizialmente venne considerato un attentato terroristico. Ma, il delitto verrà indicato da Tommaso Buscetta come delitto di mafia. Secondo il collaboratore di giustizia Francesco Marino Mannoia, Giulio Andreotti, oggi senatore a vita e omaggiato padre della patria, era a conoscenza del progetto mafioso di eliminare Mattarella, ma non avvertì né l’interessato né la magistratura, pur avendo partecipato ad almeno due incontri con capi mafiosi aventi ad oggetto proprio la soluzione del ‘problema politico Mattarella’, nonché del suo omicidio. La circostanza è stata riportata nella sentenza del giudizio di Appello del lungo processo allo stesso Andreotti confermata dalla Cassazione nel 2004. La stessa sentenza ha sancito che la presa di distanza di Andreotti dalle famiglie di Cosa Nostra fu dovuta proprio all’efferato delitto Mattarella, così come stabilì la sentenza della Corte d’Appello di Palermo del 2 maggio 2003. Nella conclusione si legge:
“Del resto, ad ultimativo conforto dell’assunto, basta considerare proprio la, assolutamente indicativa, vicenda che ruota attorno all’assassinio dell’on. Pier Santi Mattarella. Anche ammettendo la prospettata possibilità che l’imputato sia personalmente intervenuto allo scopo di evitare una soluzione cruenta della questione Mattarella, alla quale era certamente e nettamente contrario, appare alla Corte evidente che egli nell’occasione non si è mosso secondo logiche istituzionali, che potevano suggerirgli di respingere la minaccia alla incolumità del Presidente della Regione facendo in modo che intervenissero per tutelarlo gli organi a ciò preposti e, per altro verso, allontanandosi definitivamente dai mafiosi, anche denunciando a chi di dovere le loro identità ed i loro disegni: il predetto, invece, ha, sì, agito per assumere il controllo della situazione critica e preservare la incolumità dell’on. Mattarella, che non era certo un suo sodale, ma lo ha fatto dialogando con i mafiosi e palesando, pertanto, la volontà di conservare le amichevoli, pregresse e fruttuose relazioni con costoro, che, in quel contesto, non possono interpretarsi come meramente fittizie e strumentali. A seguito del tragico epilogo della vicenda, poi, Andreotti non si è limitato a prendere atto, sgomento, che le sue autorevoli indicazioni erano state inaspettatamente disattese dai mafiosi ed a allontanarsi senz’altro dagli stessi, ma è ‘sceso’ in Sicilia per chiedere al boss Stefano Bontate conto della scelta di sopprimere il Presidente della Regione: anche tale atteggiamento deve considerarsi incompatibile con una pregressa disponibilità soltanto strumentale e fittizia e, come già si è evidenziato, non può che leggersi come espressione dell’intento (fallito per le ragioni già esposte in altra parte della sentenza) di verificare, sia pure attraverso un duro chiarimento, la possibilità di recuperare il controllo sull’azione dei mafiosi riportandola entro i tradizionali canali di rispetto per la istituzione pubblica e di salvaguardare le buone relazioni con gli stessi, nel quadro della aspirazione alla continuità delle stesse.”
E poi, oggi, dicono che Andreotti è stato prosciolto e che con la mafia non ha nulla da spartire! Che l’hanno processato e fatto penare per nulla, un innocente!
Poi cadde colui che stava conducendo le indagini sulla morte di Boris Giuliano e ne aveva ereditato in parte anche le inchieste, il capitano Emanuele Basile, ucciso a Monreale la sera del 4 maggio 1980, mentre stava aspettando di assistere, assieme alla moglie, e con in braccio la figlioletta di due anni, ad uno spettacolo pirotecnico per la festa del Santissimo Crocefisso. Il posto di Basile venne preso da un altro capitano, Mario D’Aleo, romano. Anche lui verrà ucciso, il 13 Giugno 1983. Era ancora più giovane di Basile. Aveva solo 29 anni. Oggi, se qualcuno va a Monreale, magari per vedere la bellissima cattedrale normanna, faccia un salto alla Villa Comunale: ‘Villa Comunale Emanuele Basile e Mario D’Aleo’ si chiama.
Ma, come si sa, lo stillicidio non si fermò qui. Il 30 aprile del 1982 toccò al segretario regionale del PCI siciliano, Pio La Torre, ed al compagno di partito Rosario Di Salvo. Dopo quest’omicidio venne inviato Dalla Chiesa, in Sicilia. Prefetto con poteri eccezionali. Almeno sulla carta. Ci rimase 100 giorni. Il 3 settembre venne ucciso anche lui in un agguato in Via Carini. Con lui, caddero anche la moglie, Emanuela Setti Carraro, e l’agente di scorta Domenico Russo.
L’anno dopo, il 29 luglio dell’ ’83, la mafia uccise Rocco Chinnici, il primo che si era occupato dell’omicidio di Francese. Chinnici non era un giudice qualunque. Ex magistrato di Cassazione, era stato nominato consigliere istruttore del Tribunale di Palermo. Era un uomo attivissimo, che credeva nel valore della parola e della cultura per sconfiggere la mafia. Partecipava, quale relatore, a congressi e convegni giuridici e socio-culturali e lavorava assiduamente per coinvolgere voi, i giovani, nella lotta contro la mafia. Fu il primo magistrato a recarsi nelle scuole per parlare a studenti come voi della mafia e dei pericoli della droga. Amava ripetere che “parlare ai giovani, alla gente, raccontare chi sono e come si arricchiscono i mafiosi fa parte dei doveri di un giudice. Senza una nuova coscienza, noi, da soli, non ce la faremo mai.” In una delle sue ultime interviste, Chinnici disse che “la cosa peggiore che possa accadere è essere ucciso. Io non ho paura della morte e, anche se cammino con la scorta, so benissimo che possono colpirmi in ogni momento. Spero che, se dovesse accadere, non succeda nulla agli uomini della mia scorta. Per un Magistrato come me è normale considerarsi nel mirino delle cosche mafiose. Ma questo non impedisce né a me né agli altri giudici di continuare a lavorare.” Non passò troppo tempo da quando pronunciò queste parole. Quella mattina del 29 luglio del 1983 gli piazzarono una Fiat 127 imbottita di esplosivo sotto casa, in via Pipitone Federico. Era Palermo, ma sembrava Beirut. Morì all’età di cinquantotto anni. Ad azionare il detonatore, il killer mafioso Pino Greco. Con lui morirono il maresciallo dei carabinieri Mario Trapassi, l’appuntato Salvatore Bartolotta, componenti della scorta del magistrato, e il portiere dello stabile Stefano Li Sacchi.
Poi ne vennero altri. Pippo Fava, Beppe Montana e Ninni Cassarà, Rosario Livatino, Libero Grassi, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e le loro scorte, don Pino Puglisi, i morti di Firenze e quelli di Milano, Beppe Alfano… Insomma un cimitero.
Il fascicolo relativo alla morte di Mario Francese, invece, dopo più di dieci anni di dimenticatoio, venne riaperto. E grazie alle testimonianze di alcuni collaboratori di giustizia. Gli stessi che, a volte, dicono alcuni, non servono. Ad ogni modo, il 17 novembre 1998, finalmente, il Gip firmò nove ordini di custodia cautelare per Totò Riina, Pippo Calò, Bernardo Provenzano, Francesco Madonia, Bernardo Brusca, Antonino Geraci, Giuseppe Farinella, Michele Greco e Leoluca Bagarella. Erano stati accusati di essere gli organizzatori e gli esecutori del delitto. Nell’aprile del 2001, il processo, svoltosi con rito abbreviato, ha visto la condanna a 30 anni per Totò Riina, Francesco Madonia, Antonino Geraci, Giuseppe Farinella, Michele Greco e Leoluca Bagarella. Nel processo bis, con rito ordinario, l’altro imputato, Bernardo Provenzano, è stato condannato all’ergastolo.
I giudici della sentenza di primo grado evidenziarono che dagli articoli e dal dossier redatti dal giornalista emerge – leggo testualmente – “una straordinaria capacità di operare collegamenti tra i fatti di cronaca più significativi, di interpretarli con coraggiosa intelligenza, e di tracciare così una ricostruzione di eccezionale chiarezza e credibilità sulle linee evolutive di Cosa nostra, in una fase storica in cui oltre a emergere le penetranti e diffuse infiltrazioni mafiose nel mondo degli appalti e dell’economia, iniziava a delinearsi la strategia di attacco di Cosa nostra alle istituzioni. Una strategia eversiva che aveva fatto un salto di qualità proprio con l’eliminazione di una delle menti più lucide del giornalismo siciliano, di un professionista estraneo a qualsiasi condizionamento, privo di ogni compiacenza verso i gruppi di potere collusi con la mafia e capace di fornire all’opinione pubblica importanti strumenti di analisi dei mutamenti in atto all’interno di Cosa nostra.”
La sentenza di primo grado venne confermata nel dicembre del 2002, in appello. Anche in questo caso, i giudici non persero l’occasione di sottolineare le grandi qualità umane e professionali di Mario Francese e affermarono senza mezzi termini che “con la sua morte si apre la stagione dei delitti eccellenti”. E che non fu affatto casuale che fosse stato lui il primo di quel lungo rosario di sangue. Mario Francese era un protagonista – scrissero i giudici – se non il principale protagonista, della cronaca giudiziaria e del giornalismo d’inchiesta siciliano. Nei suoi articoli spesso anticipava gli inquirenti nell’individuare nuove piste investigative.” E rappresentava “un pericolo per la mafia emergente, proprio perché capace di svelarne il suo programma criminale, in un tempo ben lontano da quello in cui è stato successivamente possibile, grazie ai collaboratori di giustizia, conoscere la struttura e le regole di Cosa nostra.”
L’impianto accusatorio resse anche in Cassazione. Tre boss, tuttavia, sono stati assolti: Pippo Calò, Antonino Geraci e Giuseppe Farinella. Ma la sentenza, nel dicembre 2003, confermò i 30 anni di carcere anche per Totò Riina. Definitiva la pena a 30 anni pure per Leoluca Bagarella, Raffaele Ganci, Francesco Madonia e Michele Greco, che non avevano proposto ricorso davanti alla Suprema corte. Nel processo bis, confermato in appello l’ergastolo per Bernardo Provenzano.
Tutto a posto, allora? No. Perché Mario Francese non è ritornato in vita. Ed a noi, uno come lui manca terribilmente.
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