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Mafie e Chiesa, donne e ‘ndrangheta: il prof. Ciconte al Liceo Cottini di Torino

Venerdì 12 maggio, al Liceo artistico torinese “Renato Cottini”, l’ultimo incontro del corso per docenti del Piemonte, “Mafie e dintorni”, ha visto quale protagonista e relatore il prof. Enzo Ciconte, collegato in streaming con i partecipanti all’iniziativa.

di francoplat - mercoledì 17 maggio 2023 - 1625 letture

Impegnato in politica tra il 1987 e il 1992, deputato nelle liste del PCI, consulente della Commissione parlamentare antimafia dal 1997 al 2010, l’accademico calabrese insegna Storia delle mafie presso il Collegio di merito Santa Caterina dell’Università di Pavia. È stato tra i primi a occuparsi di storia della ‘ndrangheta ed è esperto dei meccanismi di penetrazione delle mafie nel Nord Italia. Difficile sintetizzare la sua bibliografia, che comprende, fra gli altri, volumi quali Mafie del mio stivale. Storia delle organizzazioni criminali italiane e straniere nel nostro Paese (Manni, 2017) e i più recenti L’assedio. Storia della criminalità a Roma da Porta Pia a Mafia capitale (Carocci editore, 2021) e Carte, coltello picciolo e carosello. I grandi processi di fine Ottocento alla mala vita e le origini della criminalità organizzata (Manni, 2023). Insieme a Isaia Sales e a Francesco Forgione ha curato, inoltre, l’Atlante delle mafie, in due volumi per Rubbettino editore (2012, 2013).

Dinanzi agli insegnanti del corso, il professor Ciconte ha affrontato due diversi argomenti: da un lato, l’atteggiamento della Chiesa cattolica dinanzi alle mafie e, dall’altro, il ruolo della donna all’interno della ‘ndrangheta, suggestioni tematiche avanzate dagli stessi partecipanti all’incontro. La prima questione il relatore l’affronta scegliendo l’Unità d’Italia come ideale punto di partenza di un rapporto controverso e, come ha suggerito sin dall’inizio, caratterizzato da una lenta, graduale trasformazione. All’indomani dell’Unità d’Italia, ha precisato, la Chiesa cattolica si trova dinanzi due nemici ideologici: da un lato, il neonato Stato liberale, contro il quale Pio IX scaglia il non expedit e interdice ai cattolici la partecipazione alla vita politica di un regno usurpatore; solo i Patti Lateranensi del 1929 cuciranno lo strappo istituzionale. Dall’altro, un avversario ideologico altrettanto, se non più temibile, il socialismo – e la sua evoluzione comunista –, che resterà ben più a lungo, nella percezione del mondo cattolico e delle gerarchie vaticane, quale nemico da contenere e da osteggiare. Ciò almeno sino alla caduta del muro di Berlino, quando il comunismo sovietico implode, portando con sé il vecchio sistema dei partiti in Italia.

Ecco, a fronte di tali avversari, spiega Ciconte, altro è l’atteggiamento della Chiesa cattolica nei confronti della mafia. Quest’ultima non è un nemico ideologico. Non lo è, intanto, perché i mafiosi si presentano come cattolici, dotati di tutto l’armamentario, almeno esteriore, atto a rendere manifesta la loro fede: croci appese al petto, riti religiosi rispettati con certosina dovizia e con larga visibilità pubblica. Lo storico, su questo punto, manifesta il proprio scetticismo sulla fede convinta, sull’adesione piena dei membri dei clan al credo religioso. Si può conciliare, si domanda, la fede con la violenza che è parte integrante del vissuto mafioso? Domanda ineccepibile, alla quale segue una precisazione: gli uomini dei clan non chiedono perdono a Dio dopo aver ammazzato, ma prima. Non è un atto di contrizione, ma quasi un benestare divino a un atto osceno, una sorta di lasciapassare. In tal senso, l’accademico si sente di valutare come strumentale quell’adesione, come funzionale a un contesto che, in quell’Italia e in modo particolare in quell’Italia meridionale, impone di presentarsi con abiti cattolici.

A lungo, dunque, la Chiesa cattolica mantiene una sorta di convivenza non ostile con le organizzazioni mafiose che, dal canto loro, non mancano di finanziare le parrocchie, di perpetuare quella formale vicinanza al dettato religioso. Una convivenza garantita, inoltre, dallo stesso contesto sociale che vede il sacerdozio come sbocco inevitabile nelle famiglie meno agiate e la carriera ecclesiastica per quelle più abbienti. Si crea, così, un intreccio complesso, in cui la mentalità mafiosa entra negli abiti talari o, per meglio dire, la visione del mondo degli uomini di Chiesa non sente come inappropriata quella mentalità, non la sente distante, altera o, peggio, antagonista. Su questa convivenza non conflittuale, sul silenzio stesso degli uomini di Chiesa dinanzi alle mafie, sicuramente le consorterie criminali hanno fondato parte del loro consenso presso comunità nelle quali il peso del cattolicesimo e gli orientamenti dei prelati rappresentavano un importante punto di riferimento. Come altrimenti intendere la tradizione delle processioni religiose con tanto di inchino della statua devozionale non appena giunta sotto la dimora del boss locale? In un’occasione, negli anni Settanta in Sicilia, sul balcone si procede anche all’ideale passaggio di consegna tra il vecchio boss e il figlio, mentre l’icona devota attende paziente davanti a una comunità che non ignora affatto il significato simbolico di quel doppio passaggio, quello sotto l’abitazione del “padrino” e quello tra vecchia e nuova generazione di mafiosi.

Questo atteggiamento – che è insieme indifferente, pragmatico, connivente – è durato più o meno sino all’inizio degli anni ’80, suggerisce il relatore, ed è andato via via mutando, come si è già detto, con l’evolvere della situazione politica internazionale, il crollo del muro di Berlino, il dissolversi della tentazione socialista di imporre la propria visione del mondo. In questa cornice possono leggersi la condanna di don Riboldi contro la camorra, poi l’omelia del cardinale Pappalardo nel settembre 1982 al funerale del generale dalla Chiesa sulle inerzie di Roma mentre Palermo-Cartagine veniva distrutta. E, ancora, le voci autorevoli dei papi: il discorso nella Valle dei Templi, ad Agrigento, di papa Giovanni Paolo II, nel 1993 dopo le stragi dell’anno precedente, “mafiosi convertitevi”, e la più recente omelia di papa Francesco, a Cassano all’Ionio nel giugno 2014, quando il pontefice proferì apertamente la parola “scomunica” («i mafiosi sono scomunicati, non sono in comunione con Dio»). Quanto ai pontefici, Ciconte osserva che il discorso di Giovanni Paolo II resta interno al cattolicesimo, l’invito al pentimento ha avuto una scarsa efficacia, anche se simbolicamente importante; mentre più secche e perentorie paiono le frasi di papa Bergoglio, un invito a combattere le mafie, non solo un richiamo alla loro coscienza individuale.

Di fatto, negli ultimi decenni, qualcosa è cambiato, la Chiesa manifesta un comportamento meno ambiguo e ritroso, più coraggioso nella denuncia, anche se non sempre le prese di posizione dei vertici ecclesiastici trovano immediata rispondenza nella base sacerdotale. Quanto a quest’ultima, osserva ancora il relatore, sarebbe opportuno in sede di ricerca storiografica analizzare con certosina pazienza i casi individuali di preti locali che, prima di don Puglisi o don Diana, in anni più lontani hanno avuto la forza e la lucidità di opporsi alle mafie, dentro comunità in cui quella mafiosa non era una mentalità avversata o ritenuta indegna di un cattolico.

L’accademico calabrese passa, poi, ad analizzare il secondo punto all’ordine del giorno, ossia il ruolo della donna nella ‘ndrangheta. In termini generali, alla pari di quanto osservato per il rapporto tra Chiesa cattolica e mafie, Ciconte precisa fin dall’inizio che il ruolo della donna nel mondo ‘ndranghetista segue, di fatto, l’evoluzione della società e dei tempi. Una seconda precisazione analitica è quella relativa al fatto che i mafiosi «non hanno inventato nulla»: non sono tanto diversi da noi, non vivono nell’iperuranio, afferma il professore, mutuano atteggiamenti dal mondo in cui vivono, per quanto lo facciano adottando, poi, comportamenti che sfociano nell’illegalità. Nel mondo cattolico, l’ingresso del neonato è formalizzato dal battesimo, così come nella ‘ndrangheta l’ingresso del giovane nell’organizzazione avviene con un rito di affiliazione. Tutto ciò per dire che la totale assenza della donna nei codici mafiosi non suona innaturale o in controtendenza rispetto alla società e cita, a proposito, il regolamento che normava, in origine, l’abbigliamento da tenere nel Parlamento repubblicano, da cui era completamente assente qualsiasi riferimento al vestiario femminile.

La donna è esclusa dalla ‘ndrangheta alla pari di altre categorie, quali parenti o congiunti di appartenenti alle forze dell’ordine o al clero – perché riservavano il loro giuramento allo Stato o a Dio –, chi aveva “macchie d’onore”, gli omosessuali e via discorrendo. Ciò non significa che la donna non abbia avuto un ruolo centrale nelle strategie ‘ndranghetiste, precisa Ciconte, a partire da quel drammatico conflitto inter-famigliare che è la faida: lo scontro tra famiglie si chiudeva quando una delle due cosche perdeva l’ultimo maschio e non era più in grado di trasmettere il cognome; ma poteva anche chiudersi con un matrimonio, un rito di ricucitura dello strappo violento, in cui il sangue virginale della sposa faceva da contrappeso simbolico al sangue versato dai membri delle due fazioni.

Per quanto formalmente esclusa dalle riunioni mafiose, la donna di ‘ndrangheta ha sempre avuto un ruolo fondamentale, un peso domestico importante, a partire dal compito di trasmettere ai figli l’ideologia mafiosa, così come trasmetteva loro il dialetto, e di custodire l’onore famigliare. Il relatore si ferma un attimo su questo aspetto, sul potere reale della donna nella famiglia meridionale: la forza della donna è stata oscurata da una certa visione consolidata, ma non per questo corretta, osserva Ciconte, la donna non è mai stata totalmente subalterna, in famiglia ha sempre avuto un peso importante, centrale. In parte, la visione di una donna esclusa dal mondo mafioso è stata orientata e incanalata dagli stessi collaboratori di giustizia, le cui testimonianze hanno fornito un immaginario mafioso da cui era espunta la presenza femminile. Inoltre, a fornire altre lenti analitiche dentro il mondo ‘ndranghetista, ma non solo, è stato l’ingresso in magistratura delle donne, che cambiano l’approccio all’indagine della realtà criminale, portano altre istanze e scorgono aspetti sino ad allora ignorati. In tal senso, l’ospite del Cottini parla di evoluzione della presenza femminile, facendo cioè riferimento a quei mutamenti della società che hanno portato a una diversa sensibilità nei confronti della componente femminile, facendo emergere aspetti prima adombrati. Il caso di Ninetta Bagarella, moglie di Riina, è esemplare: gli è compagna nella latitanza, fa con lui quattro figli a cui lascia il cognome del marito; difficile pensare che fosse all’oscuro della condizione del marito, del suo ruolo apicale in Cosa nostra, della sua violenza omicida.

Le cose cambiano, appunto, e cambiano anche gli atteggiamenti delle donne. Oggi, per un uomo diventare collaboratore di giustizia è una scelta che comporta l’adesione della moglie, perché un percorso di quel tipo stravolge la vita di una famiglia. Se i collaboratori di giustizia di prima generazione non facevano mai cenno alle donne, i “pentiti” di seconda generazione non di rado dicono di voler salvare i figli da una vita pericolosa. E in questo non può non giocare un ruolo importante la madre di questi figli, in un contesto che, a differenza di qualche decennio fa, pone la prole in una posizione centrale, li colloca in una posizione rilevante, più importante di quanto non capitasse negli anni più addietro. Tuttavia, precisa Ciconte, l’atteggiamento delle donne ‘ndranghetiste non è sempre favorevole alla collaborazione. Perché? Perché un’ipotetica “donna Maria” dovrebbe dire al marito: «se parli con gli sbirri ti allontano dai figli»? Perché donna Maria, in paese, è rispettata, si sa che suo marito è in carcere, le si offrono credito e prestigio; ma se donna Maria diventa moglie di un pentito, ecco, allora in una nuova realtà, lontana dal luogo di origine, donna Maria perde il proprio status, la propria rispettabilità, i propri privilegi.

Il comportamento femminile nel mondo della ‘ndrangheta è, dunque, complesso e ambivalente. A fronte di donne coraggiose, che hanno avuto o hanno la forza di recidere i legami personali e famigliari con la mala vita locale, vi sono, infatti, donne che detengono un peso rilevante in seno alle consorterie criminali calabresi. Lo dice la stessa evoluzione delle mafie, il loro interramento e la loro più misurata violenza omicida, il loro statuto identitario di holding economiche a cui giova la sagacia economica delle donne. Attualmente, chiude l’accademico, le donne hanno una rilevante capacità direzionale, coerente con l’evolvere del peso femminile nella società italiana.

L’ospite del Cottini, una volta terminata la trattazione dei due temi, si presta alle domande dei docenti. I quesiti spaziano dal caso Orlandi ai rapporti delle mafie con la massoneria in Calabria, dall’antimafia sociale al peso criminale nella provincia torinese. Risponde a tutti, il prof. Ciconte, mettendo in evidenza una visione del mondo mafioso non cristallizzata e poco propensa ad accogliere certi stereotipi, ricca di suggestioni problematiche, di spunti di indagine, di curiosità intellettuale per un fenomeno che – almeno così pare allo scrivente di poter desumere dalle sue parole – è scorretto separare artificiosamente dal contesto, staccare da noi, collocare in una dimensione altera. Fuori dal mito e dentro la storia, la stessa storia nostra, alla quale i mafiosi partecipano in virtù della nostra stessa condiscendenza, acquiescenza, indifferenza, bisogno, oltre che per via della loro capacità d’urto. «Non sono la maggioranza», ripete il relatore a una docente che rimarca il dominio ‘ndranghetista su una realtà locale piemontese («hanno in mano Volpiano»). Non sono la maggioranza, sicuramente, ma percepire i mafiosi come tali è di per sé interessante: non solo indica la capacità mafiosa di influenzare le comunità, godendo di un credito minaccioso che moltiplica i loro poteri effettivi, ma comporta anche quell’atteggiamento in base al quale relegarli in una bolla allogena impedisce la comprensione di ciò che a loro ci accomuna. Se il corso del Cottini ha lasciato in mano qualcosa ai partecipanti è proprio l’idea che non si possa parlare di mafia senza parlare dei “dintorni” in cui prospera. Quei dintorni siamo anche noi.


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