Mafia, politica, società civile, informazione tra Italia e Germania: intervista a Petra Reski
Di mafia non si parla più, per dirla in breve. Non se ne parla; come sempre in Italia, ci sono alti e bassi, questo, in realtà, accade anche in Germania
Più di ogni altra cosa, se ne apprezza la franchezza, la mancanza di sotterfugi concettuali, l’assenza del latinorum. La conversazione in streaming con Petra Reski – nel pomeriggio di mercoledì 3 settembre 2025 – non è mai giocata sul piano implicito del discorso, che riguardi la mafia, argomento di cui si occupa da oltre trent’anni, o che la riguardi personalmente. Si è parlato di mafia, innanzitutto, ma, come sempre, il tema delle consorterie criminali si allarga, perché porta con sé l’ambito politico, quello dell’informazione, la sensibilità della società civile, il quadro internazionale in cui si collocano le mafie e dal quale traggono vitalità e una certa tetragona stabilità.
Petra Reski è una giornalista e scrittrice, nata nella Ruhr e dal 1991 stabilmente residente in Italia, a Venezia. Collabora con alcune testate giornalistiche tedesche, racconta, appunto, la mafia e lo fa, spesso, correlando le due sponde geografiche della sua esperienza umana, ossia l’Italia e la Germania. In questo senso, è un’osservatrice e un’analista importante, per il suo sguardo, per così dire, duplice, capace di comparare e cogliere similarità e differenze tra il Bel Paese e la vecchia locomotiva europea. Una di queste differenze, forse la più marcata, è la diversa percezione del fenomeno, in particolare a livello legislativo, considerato che la Germania non è dotata di strumenti adeguati, in tal senso, per una più efficace e continuativa azione di contrasto alle mafie. Inadeguatezza normativa che finisce per impacciare la stessa magistratura e rendere, per tanti aspetti, strozzato lo stesso lavoro giornalistico d’inchiesta. Ma non solo. Nella sua terra d’origine, quello della mafia è un tema lontano, percepito dall’opinione pubblica come esotico, quando non folcloristico o, addirittura, scherzoso. Lo dimostra il tentativo, da parte di un’associazione culturale di Monaco di Baviera – peraltro impegnata nel sociale e culturalmente non sprovveduta –, di dar vita a una serata di festa dal titolo “Mafia night”. Tentativo poi rientrato, anche per l’opposizione critica della più grande associazione culturale italiana di quella città.
Un fenomeno sottostimato, in Germania. Così è per il mondo politico, nei confronti del quale la mia interlocutrice è severa, legittimamente severa: il ceto dirigente tedesco non si domanda da dove provengano determinate iniezioni di denaro alla congiuntura economica nazionale, è sufficiente che giungano. Ma, se la politica si specchia nel proprio elettorato, non scorge, di fatto, particolari interessi nei confronti delle consorterie criminali. Dunque perché, si domanda ragionevolmente Petra Reski, far diventare un problema qualcosa che non è tale per gli elettori? Sarebbe politicamente poco conveniente.
Le mafie non fanno rumore, non ci sono attentati, delitti più o meno eccellenti e, anche quando ci sono – il pensiero corre inevitabilmente alla strage di Duisburg del 15 agosto 2007 –, non lasciano tracce particolarmente evidenti nella memoria a medio-lungo termine. Insomma, Cosa nostra e C. non fanno audience, il trono è saldamente nelle mani del tema dei migranti, dice, non senza una certa enfasi caustica, la giornalista. E qui il suo discorso sulla Germania può saldarsi, senza particolari differenze, a quello italiano. Perché, nel corso della conversazione, Petra Reski non manca di sottolineare le manchevolezze nostrane: dallo scarso appeal del tema mafioso presso la società civile a una certa, soda latitanza dalle agende del ceto politico del tema delle mafie e, ancora, a una stampa sempre più omologata e in mano a editori contigui ai centri di potere.
Qualcosa è cambiato, in Italia in misura maggiore che in Germania. Petra Reski è arrivata, per la prima volta nel nostro Paese, per fare un reportage sulla “Primavera di Palermo”, è arrivata nel clima euforico di una risposta alle mafie da parte di una città oltraggiata dalle lenzuola sporche di sangue. È arrivata in un contesto internazionale ancora più frizzante, a ridosso della caduta del muro di Berlino, che tanto aveva lasciato sperare a molti. Ma negli anni a venire, anni nei quali si è stabilita a Venezia, la penisola ha conosciuto, a suo giudizio, un’involuzione, un graduale degrado morale e politico. È l’Italia dei Berlusconi e del ceto dirigente a lui legato, ancora largamente presente, che pare aver abdicato al contrasto alle mafie e che pare aver, per così dire, educato gli italiani a un certo disprezzo morale per la legalità. Del resto, il Cavaliere ha finanziato, per decenni, la mafia: «tutto ciò ha insegnato molto agli italiani, purtroppo».
Dunque, perché fermarsi in Italia, se sul piano delle tematiche da lei largamente trattate in ambito professionale, non ci sono differenze così marcate con la Germania? Perché l’Italia vive una suggestiva ambivalenza, perché – risponde la mia ospite – è vero che c’è l’Italia dei Berlusconi e C., ma è anche vero che c’è un Paese – la “mia” Italia, la definisce – in cui vivono persone, più o meno note, che hanno fatto del contrasto alle mafie il loro impegno quotidiano, tenace, coraggioso, ostinato. I nomi sono presto fatti: Falcone, Borsellino – Paolo, ma anche il fratello Salvatore, tra le personalità più ammirate da Petra Reski – e Nino Di Matteo o una larga messe di altri magistrati, attivisti, giornalisti che ha incontrato in questi decenni e di cui parla, sempre con grande ammirazione, nei suoi lavori.
L’Italia contiene la mafia, ciò che l’ha prodotta e la sostiene, ma contiene anche i suoi anticorpi. Sul piano umano, con grande onestà intellettuale, la mia interlocutrice riconosce di aver perso gli “occhiali rosa” con i quali, a lungo, ha guardato alla sua terra d’origine, con sguardo, per così dire, benevolo, quello di chi vive lontano dai luoghi della sua infanzia. Una terra, quella tedesca, nella quale si è sentita sola in occasione di intimidazioni e minacce ricevute – come spiega nella versione integrale dell’intervista qui allegata –, a differenza del sostegno che ha ricevuto nel nostro, nel suo Paese, l’Italia.
Al termine dell’intervista, pare di aver dialogato con un’italiana dal forte accento tedesco o, meglio, con una donna e una professionista che ha accomodato una certa Italia nel proprio spazio mentale ed emotivo, l’ha fatta propria, miscelando disincanto e ironia, scetticismo e speranza, un forte senso etico con una più distesa predisposizione a guardare alle persone e agli accadimenti nella loro natura complessa e aggrovigliata, contraddittoria. Tutto ciò corredato da una conoscenza ampia e documentata delle vicende che hanno contraddistinto, sul piano della violenza mafiosa, gli ultimi decenni tra Palermo e Duisburg, citando il titolo di una sua importante pubblicazione.
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