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Mafia a Milano: la relazione Smuraglia 32 anni dopo

"A Milano la mafia non aveva portato solamente i propri capitali, ma aveva portato i propri metodi e le proprie persone"

di francoplat - mercoledì 2 ottobre 2024 - 430 letture

Riunitosi per la prima volta il 13 novembre 1990, il comitato antimafia guidato da Carlo Smuraglia depositò l’esito della sua analisi del fenomeno mafioso a Milano il 14 luglio 1992, circa due anni dopo l’inizio dei lavori. Di lì a pochi giorni, a Palermo sarebbe stato ucciso Paolo Borsellino, in un anno tragico per la nostra storia nazionale.

Era stato il comune milanese a decretare la nascita del Comitato di Iniziativa e di Vigilanza sulla correttezza degli atti amministrativi e sui fenomeni di infiltrazione di stampo mafioso e ad affidarlo alla guida di Carlo Smuraglia, avvocato e giurista, già membro del Csm, presidente onorario dell’Anpi e, in quel momento, consigliere comunale del Pci. Accanto a lui, furono chiamati altri consiglieri comunali, docenti universitari, ex magistrati e rappresentanti del mondo imprenditoriale e sindacale.

C’era, alle spalle di quel comitato, una storia locale che iniziava a mostrare le crepe del mito della capitale morale del Paese. Tra il 1989 e il 1990, ad esempio, il pubblico ministero Ilba Boccassini, insieme a Giovanni Falcone, aveva condotto l’inchiesta “Duomo Connection”, sulla penetrazione mafiosa a Milano, che aveva disvelato intrecci e complicità tra politici, funzionari del Comune e il rampollo di un boss siciliano. E, tuttavia, era ancora poco. Solo dopo il terremoto di Mani pulite, le indagini sulla mafia al Nord sarebbero diventate più fitte e accurate.

Il comitato antimafia del capoluogo lombardo lavorò assiduamente, con tenacia, muovendosi ben al di là del palazzo comunale e delle poche o scarse evidenze giudiziarie. Il gruppo guidato da Smuraglia fece parlare il territorio, dai consigli di zona ai rappresentanti dell’Azienda dei trasporti a chi si occupava della manutenzione delle case popolari. Come ricorda “Il Fatto quotidiano”, «quello che emerse fu una bestemmia in chiesa: in alcune periferie dell’allora capitale morale, città europea per eccellenza, la criminalità organizzata controllava il territorio». In una relazione del maggio 1991, il comitato precisava che, per proteggere il traffico o lo spaccio di droga, «vi erano aree riservate per la delinquenza organizzata e spesso quasi inaccessibili», così come si spiegava che, nella periferia, interi isolati erano preda di bande criminali, che le avevano trasformate in «fortilizi della delinquenza accessibili solo per coloro di cui si ritiene di consentire l’accesso».

Vivono tra noi, si potrebbe dire, ma non ce ne accorgiamo. A chi immaginava che, al tempo, Milano fosse una capitale ricca in cui si annidavano soltanto dei “colletti bianchi” pronti a riciclare il denaro sporco del traffico di droga, si palesò un’altra realtà, più urticante e complessa, più carica di insidie. Cosa confermata da un’altra relazione, stavolta del luglio 1991, nella quale il comitato invitava a dare maggior trasparenza ai settori più a rischio dell’organismo comunale: urbanistica, lavori pubblici, edilizia popolare e privata, economato e commercio.

Attraverso un meccanismo usuale in fatti mafia e corruzione, la bontà del lavoro di Smuraglia e colleghi fu attestata proprio dall’attacco frontale dell’allora sindaco di Milano, Paolo Pillitteri, che affermò con una certa ironica arroganza: «quella di Smuraglia è la scoperta dell’acqua calda». Poco tempo dopo, sarebbe stata Mani pulite a dimostrare che proprio nei settori indicati dal comitato allignava una quantità enorme di tangenti. Di fatto, proprio il clamoroso scoppio di Tangentopoli, fece sì che la relazione conclusiva del comitato non fosse discussa in consiglio comunale e che il tema fosse, in seguito, affidato a un assessorato.

Più adeguatamente, di recente, Lorenza Ghidini, direttrice di Radio Popolare, ha osservato che la relazione consegnata nel 1992 «fu messa dalla politica […] in un cassetto, anzi tacciata di portare accuse infamanti alla città». Lo ha detto in un’occasione importante, in qualità di moderatrice di un incontro tenutosi martedì 24 settembre presso la Sala Alessi di Palazzo Marino, durante il quale è stata finalmente presentata la storica relazione del comitato guidato da Smuraglia. 32 anni dopo. A ripubblicarla, all’interno della collana “Antimafia papers” – dedicata ai documenti storici della lotta ai clan – e con l’aiuto finanziario dell’accademia milanese, è stata WikiMafia, il cui direttore, il sociologo Pierpaolo Farina, era uno degli ospiti del pomeriggio, insieme, fra gli altri, alla Presidente del Consiglio Comunale, Elena Buscemi, promotrice dell’iniziativa, e Oliva Bonardi, docente ordinaria di diritto del lavoro all’Università degli studi di Milano e già allieva di Carlo Smuraglia.

Il video dell’incontro (reperibile qui) è estremamente interessante, anche se non è questa la sede per riproporlo nella sua interezza. Di fatto, dalle considerazioni dei vari relatori, emergono alcune questioni importanti: Elena Buscemi, ad esempio, sottolinea due peculiarità di quel lavoro, ossia il suo valore pionieristico in rapporto a ciò che sarebbe seguito e, soprattutto, una certa solitudine dei membri del comitato dinanzi a resistenze e indugi della stessa macchina comunale. Dal canto suo, il direttore di WikiMafia, ha osservato che il carattere straordinario di quella relazione è che «qui dentro ci leggiamo tutto quello di cui noi oggi continuiamo a discutere, dalla trasparenza dei capitali finanziari al controllo del territorio alle vicende legate all’ortomercato» o al riciclaggio. E ciò ben prima che venisse messo nero su bianco dalla magistratura, peraltro con un livello di analisi e di approfondimento di grande efficacia. Decenni prima delle risultanze giudiziarie, quindi, Smuraglia e il comitato avevano detto «le cose come stavano, ovvero che a Milano la mafia non aveva portato solamente i propri capitali, ma aveva portato i propri metodi e le proprie persone, che controllava il territorio e, soprattutto, che portava voti a pezzi della politica […] in cambio di appalti edilizi».

È sempre Farina a riprendere quanto già osservato a proposito degli intralci e degli ostacoli frapposti al lavoro di Smuraglia e colleghi: non fu destinata una sede ai lavori del comitato, che ebbe, quindi, sedute itineranti, fu impedito l’accesso agli atti relativi agli appalti pubblici, si scatenò il putiferio quando, durante una seduta, fu toccato il tasto dell’ortomercato. Ciò non impedì alla relazione di far colare lava incandescente sulla Milano del tempo, che non poteva accettare – è sempre Farina a parlare, citando Nando dalla Chiesa, al tempo in quel comitato – di pensare a «Milano come Palermo».

È stato compito, poi, della professoressa Bonardi ricostruire la complessa, sfaccettata e robusta figura di Carlo Smuraglia e il tributo al suo antico professore, in effetti, rende conto dell’importanza culturale di questo giurista, professore universitario, politico e, anni prima, partigiano, che portò nel comitato antimafia milanese un metodo di lavoro orientato, innanzitutto, all’ascolto. Da qui, dalla capacità, come si è detto, di andare incontro alla comunità, è nata quella relazione, così come, osserva la professoressa Bonardi, è nata dalla convinzione di Smuraglia che leggi, amministrazione pubblica e società civile dovessero muoversi insieme, in modo armonioso, al fine di rendere efficaci le potenzialità dell’impianto normativo. Soprattutto, il presidente del comitato milanese riteneva essenziale l’etica del dovere, il rispetto dei valori costituzionali, che nella Milano del tempo parevano già significativamente erosi.

Ultimo intervenuto al consesso è stato quello del consigliere comunale Rosario Pantaleo, in veste di presidente della Commissione antimafia del comune meneghino. Le sue considerazioni riprendono un elemento già emerso durante i precedenti interventi, ossia il fatto che la relazione Smuraglia sia stata elaborata in un contesto in cui il fermento mafioso era già in stadio avanzato, proveniva almeno dagli anni Settanta, e accumulava capitali con i sequestri di persona degli anni Ottanta, per poi incanalarsi nel traffico di droga. Si trattava di un fenomeno evidente il cui epilogo, spiega Pantaleo, è stato il crollo del ceto politico del Pirellone nel 2012, con la scoperta di innegabili cointeressenze tra politica locale e boss della ‘ndrangheta. Questo intreccio, il travaso degli interessi privati e mafiosi nella macchina comunale, era stato colto lucidamente da Smuraglia e dal comitato negli anni Novanta. Non a caso, la denominazione stessa dell’organismo parlava di vigilanza sulla correttezza degli atti amministrativi.

Ciò che risulta significativo delle considerazioni finali di Pantaleo è un richiamo all’oggi, una sua frase: «non si reputa il ceto politico abbastanza attento al tema». Ovviamente il tema delle mafie e dei loro intrecci con le classi dirigenti locali e nazionali. Pantaleo spiega questa frase facendo riferimento a una lettera inviata dalla commissione da lui presieduta ai sindaci del Milanese dopo che in due recenti casi cittadini – presso il centro sportivo Sant’Ambrogio e al mercato comunale Zara – erano emersi interessi ‘ndranghetistici. Nella lettera, si invitavano gli amministratori locali a riferire qualsiasi situazione potesse apparire anomala, sospetta, degna di interesse della commissione coadiuvata dal relatore. Bene, Pantaleo dice ai presenti che nessun amministratore locale ha risposto all’invito della sua commissione; zero. Attendismo del ceto politico, osserva il relatore, e, aggiunge, una certa dose di omertà da parte della società civile, che fa il paio con l’omertà che riscontrarono anche i componenti dell’allora comitato Smuraglia. Ma siamo a Milano?, si domanda retoricamente Pantaleo, lasciando intendere che grosse differenze, in tal senso, non esistono tra la città lombarda e quella siciliana.

Al di là del pomeriggio di presentazione del volume, resta l’analisi elaborata ormai trent’anni fa da un comitato capace di guardare, come ha detto qualcuno, perché sapeva cosa andare a cercare e capace di illuminare quanto ancora resta amaramente simile ad allora. Del resto, tra le righe dei vari interventi, è emerso un motivo guida, un filo rosso noto a chi si occupa di mafie e dintorni, ben sintetizzato da una un’affermazione dello stesso Smuraglia, semplice e diretta, inequivocabile e innegabile: «la mafia esiste solo se la si lascia esistere».


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