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Ma a ki minkia servi stò Sud?

(Ma a cosa serve questo Sud?)

di Sergej - martedì 23 luglio 2019 - 1881 letture

Torna nel Sud il potere delle aggregazioni feudali attorno alle famiglie. È un processo in atto negli ultimi trent’anni. La sconfitta della borghesia soprattutto in Calabria e Sicilia è evidente. L’ultimo tentativo della modernizzazione borghese era stato lo Stato industriale, che ha lasciato i cadaveri dei petrolchimici come prova della battaglia persa. Il M5S si pone nella faglia di frattura costituito dall’intercapedine sociale della non-classe borghese: i ragazzi e le ragazze formati dalle scuole per fornire manodopera qualificata per lo Stato industriale, ma che non trovano lo sbocco occupazionale per cui sono stati creati, per cui rimangono nel limbo: sono i precari generazionali. La scuola continua infatti ad operare come opificio, fabbrica di una cultura borghese che però non ha più sbocchi sociali. I precari non possono diventare borghesi, non possono entrare nel mondo del lavoro (che li muterebbe e maturerebbe definitivamente, facendoli prendere coscienza - il precariato rimane una non-classe priva di coscienza sociale) o al massimo possono avere esperienza solo del non-lavoro precario, cioè di una stortura del lavoro. Il crimine perpetuato su questa generazione da parte delle classi al potere è gravissimo, e ha effetti generazionali su tutta la struttura sociale, sulla tenuta della struttura nel medio e lungo tempo. La struttura sociale prevalente: feudale, sottoproletariato, precari. Con il sottoproletariato che funge da massa di voto, pagata dai padroni di turno (Berlusconi, Lega ecc_), di qui il flussi elettorali che nel Sud sono particolari. Con i precari che finora non hanno votato, e che hanno votato per la prima volta M5S in cui si sono identificati, e che costituiscono nel Sud lo “zoccolo duro”. Se a prossime elezioni non voteranno M5S perché delusi, non voteranno proprio. Nessun altro partito è in grado di recuperarli, né alcun altro partito è interessato a recuperarli dato che comunque non votando non sono oggetto di contesa.

Lo Stato unitario italiano ha registrato alcuni successi e alcune sconfitte, nel processo di modernizzazione e di fuoriuscita dal sottosviluppo delle diverse aree del Paese. Fermo restando che si è trattato di una cosa dinamica, storica, con alti e bassi ovunque. Possiamo registrare com’era la situazione nel 1871 e com’è la situazione oggi.

Premesso che il livello generale, civile e di sviluppo oggi è incommensurabilmente maggiore che all’epoca.

Ci sono regioni che sono rimaste indietro: Sicilia, Calabria, Sardegna. Basilicata, Puglia, Abruzzo: insomma, tutto il Sud. Ma alcune regioni che erano depresse all’epoca ora sono sviluppate (provvisoriamente): parte del Piemonte (Cuneo) e della Lombardia (Bergamo), e tutto il Nord-Est. Il Lazio è problematico, ma sicuramente a un livello inimmaginabile nel 1871. Grossi progressi cono nella ridistribuzione in Toscana e Emilia Romagna, nelle Marche ecc_.

Il Nord-Est si è sviluppato connettendo quella zona con le regioni limitrofe (Germania, Slovacchia e Croazia). Ciò ha indebolito il legame di quella zona con il potere centrale di Roma a cui pure deve lo sviluppo; ci si sente attratti verso quelli che sono i nostri interessi, così il Nord Est pensa di essere attratto dal mondo tedesco.

Il Sud non ha trovato nei paesi dell’Africa, e nei Paesi del Vicino Oriente, e Turchia, quegli sbocchi che avrebbero potuto dare un equivalente di sviluppo. Tra Italia e questi Paesi si è instaurato un Muro altrettanto escludente di quello che è esistito con la “cortina” e verso i Paesi dell’Est Europa. Non a caso l’unica cosa che si è riusciti a sviluppare sono state alcune raffinerie, quando l’ENI nella sua fase iniziale (Mattei) aveva investito su questa possibilità di sviluppo. Uccido Mattei, tutta questa politica fu tagliata e con essa la possibilità stesso di uno sviluppo del Sud Italia. C’è stato un preciso volere al riguardo. La classe politica italiana, “scottata” dal caso Mattei ha preferito chiudere gli occhi su tutta la faccenda. Decapitato chi si occupava della cosa, non è stato trovato alcun sostituto e il progetto è stato semplicemente abbandonato.

Nel Sud si è sviluppata una classe feudale intermedia: intermediatrice tra la massa della popolazione e lo Stato. Questo notabilato ha approfittato dei flussi finanziari provenienti dallo Stato, dipendendo in gran parte da questi. Quando lo Stato ha rallentato o bloccato i flussi, è intervenuta la crisi finanziaria per questi ceti intermedi.

Si è proceduto a una riconversione agricola e zootecnica. Abbandonate definitivamente le cooperative e la mezzadria, si è cercato di eliminare progressivamente il sostrato di piccola proprietà contadina (coltivatori diretti) creati dal bisogno di consenso della DC fino alla metà degli anni Settanta; a favore di una media e vasta proprietà. L’intervento dello Stato è stato evidente nelle Cantine vitivinicole, che hanno fatto rinascere questo settore che era stato sdradicato dal 1880.

Il deficit dello sviluppo si è registrato nel campo della della redistribuzione del reddito e delle opere pubbliche strutturali.

L’evasione fiscale è stata utilizzata al posto della svalutazione competitiva, nella competizione internazionale tra Stati (che utilizzavano altri strumenti, quali i “paradisi fiscali” svizzeri, olandesi ecc_). La corruzione come mezzo di dominio da parte dei ceti intermedi, nel do ut des del sistema politico e amministrativo locale. Nel lungo periodo, accanto al fenomeno generale dopo il 1989 che ha visto l’attacco alla classe media borghese, questo ha accelerato il processo di pauperizzazione delle classi minoritarie e dominate, la restrizione del numero degli appartenenti ai ceti ricchi; la risposta difensiva di entrambe le due compagini, con il potenziamento della famiglia quale sistema di rifugio. Di qui i processi di feudalizzazione: con le famiglie dominanti sempre più potenti, e le famiglie dominate alla ricerca di forme di protezione e alleanza con le famiglie più potenti. Riappare il fenomeno dell’alleanza tra famiglie tramite il sistema dei matrimoni. I due livelli si mantengono separati: si sposano appartenenti delle famiglie dominanti con appartenenti a famiglie dominanti; e appartenenti a famiglie minoritarie con appartenenti a famiglia minoritarie. Sempre meno avvengono gli interscambi, l’ascensore sociale tramite matrimonio è sempre più bloccato.

Allo stesso modo mentre già da qualche decennio si "tramandono" le professioni (il figlio fa il medico se il padre è medico ecc_), la fascia inferiore sta cominciando a cercare una protezione e una forma di resistenza all’interno della famiglia, tornando ad adoperare i membri della propria famiglia nel lavoro "familiare" (che comincia così a diventare "tradizionale": ma si tratta di un lavoro di negozio o di ristorazione iniziato da una o al massimo due generazioni). Complice il "costo del lavoro", e il fatto che al di fuori del lavoro familiare non esiste altro lavoro. Se uno va in un ristorante e trova che il figlio del trattore lavora accanto al padre, si ha un moto di approvazione sociale: questa permanenza nel lavoro famigliare viene approvata socialmente. Solo tre decenni fa c’era la fuga dei figli dal mestiere dei padri.

I ceti borghesi interessati dai fenomeni di nuclearizzazione delle famiglie, hanno reagito cercando di mettere in salvo i propri figli, mandandoli a lavorare (lavori qualificati, dopo l’investimento universitario che ha significato un notevole esborso da parte della nucleo-famiglia; ma anche lavori non qualificati purché “fuori” “all’estero” “in salvo”) all’estero e svuotando ulteriormente in questo modo le città meridionali. Il “tradimento” della borghesia si inquadra nella sconfitta di questo ceto all’indomani del 1975. La borghesia scadente sostituisce sempre di più la borghesia di qualità nelle città, appunto in seguito a questo fenomeno (c’è a livello locale sempre bisogno di medici e avvocati, ma mentre la crema va all’estero, nelle città rimangono gli elementi più scadenti e meno capaci - a parte le dovute eccezioni). È un mutamento sociologico epocale, paragonabile a quanto avvenuto nell’Ottocento con il salasso di popolazione povera avvenuta con l’emigrazione, e poi con il ritorno dei pochi arricchiti con il fenomeno del “ritorno degli emigrati” e delle rimesse degli emigrati che furono egualmente importanti per lo sviluppo dell’Italia - forse anche più dello sviluppo “industriale” giolittiano, dato che sotto il Regno d’Italia non si aveva nozione alcuna di pianificazione economica e investimento nei territori svantaggiati (tranne eccezioni).

Noi sappiamo che non si ha sviluppo “una volta per tutte” come non si ha sottosviluppo “una volta per tutte”. Le cose, nel corso della storia, cambiano. Territori malati possono guarire. E i criteri stessi di “sviluppo” cambiano nel tempo. Un tempo si credeva che sviluppo fossero le industrie inquinanti, in nome di questo tipo di sviluppo si sono accettate le morti a Taranto, a Mestre, a Priolo, a Milazzo, a Gela e ovunque è stato impiantato un “polo” industriale. Le classi politiche che hanno avuto in testa quel tipo di “sviluppo” oggi verrebbero definite criminali. C’era una minoranza anche allora che paventava quanto sarebbe successo, ma è stata messa a tacere (gli “ambientalisti”). Questo anche per ricordare come in un dato periodo la struttura sociale e ideologica non è mai compatta né “unitaria”. Chi ha commesso crimini lo ha fatto sapendo benissimo di farlo, ma ne ha accettato le conseguenze: si riteneva che per costruire un’autostrada fossero accettabili i morti sul lavoro, e la cementificazione, bitumizzazione e l’inquinamento che tutto questo portava. “Qualche migliaio di morti per potermi sedere al Tavolo della Pace” (Mussolini, quando attaccò la Francia).

Chi ha scommesso sullo sviluppo del Nord, sapendo di dividere in due l’Italia - culturalmente, socialmente e politicamente - lo ha fatto scientemente. Per ignoranza: perché non sapeva cosa farne del Sud. È stato il problema delle classi politiche dominanti degli ultimi quarant’anni. Da quando si è deciso di smantellare l’industria di Stato, e contemporaneamente è stata fatta sparire la "questione meridionale" dall’orizzonte dell’elaborazione culturale e politica italiana.


Ps: Si è voluto mantenere volutamente ambiguo il titolo di questa nota. Il Sud come "servo" o l’ "utilità" del Sud (e per chi?).



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