Lia Sava: la mafia ancora esiste!
«La favoletta che la mafia è sconfitta è una favoletta che ci dobbiamo dimenticare».
È Lia Sava a parlare, Procuratore generale della Corte d’Appello di Palermo, nel corso della consegna di qualche giorno fa del Premio Kalsa 2024, nel Giardino dei giusti del capoluogo siciliano. I mafiosi non sono scomparsi – continua il magistrato –, esistono «e sono fortissimi, e hanno il loro bacino nella povera gente a cui non vengono (sic!) date risposte. E che magari trova risposte nell’offerta deviante del crimine organizzato».
Il meccanismo implacabile del bisogno pare essere ancora un volano fondamentale nel reclutamento della manovalanza da parte di una borghesia mafiosa viva e vegeta, secondo le osservazioni della Sava, così come viva e vegeta risulta la borghesia para-mafiosa. E per argomentare adeguatamente come funzioni tale meccanismo, la relatrice porta un esempio da manuale: in una delle scuole in cui era andata a parlare di legalità, un ragazzino ha obiettato: «lei parla bene, dottoressa, ma se mio padre è in carcere, se non ci aiuta il mafioso, mia madre va a prostituirsi e io non voglio che mia madre si prostituisca». La gente ha fame, «ci sono ragazzini che girano in mezzo ai rifiuti per mangiare», e la fame, checché se ne dica, è un bisogno.
La denuncia del procuratore palermitano è netta, inequivocabile, non risparmia i partiti politici, i cui leader dovrebbero «mantenere le promesse elettorali, soprattutto con riguardo ai quartieri più degradati», e non risparmia gli imprenditori, che hanno ribaltato gli antichi assetti relazionali. Se una volta, infatti, era il boss ad andare dall’impresario, oggi, spiega il magistrato, è l’imprenditore che va dal capomafia e dice «“Quanto ti devo per stare tranquillo?”», una sorta di costo di impresa. Questo è semplicemente agghiacciante». Né resta fuori dalla critica a tutto campo della Sava il resto della società civile, quelli che vanno in chiesa, ad esempio, ai quali ricorda che «non basta andare a messa la domenica e poi dimenticare che bisogna essere buoni cristiani».
E, ancora, nel corso del suo intervento, il magistrato ha osservato che se non ci fosse stato un solo don Puglisi e un solo Libero Grassi, che se altri preti e altri imprenditori avessero, rispettivamente, cercato di sottrarre dei bambini alla mafia e denunciato gli estorsori alle forze dell’ordine, forse la criminalità organizzata non avrebbe ucciso tutti i sacerdoti e tutti gli impresari coraggiosi e con un forte senso civico. Qui, sta il senso del variegato fuoco di fila del procuratore, esattamente in questo richiamo a una risposta comune, a una lotta condivisa contro gli appetiti mafiosi, «dobbiamo fare tutti insieme il salto etico».
In tal senso, dalle parole della Sava emerge una consapevolezza più volte ribadita su queste pagine: o quella contro il fenomeno della criminalità organizzata è una battaglia civile comune o è destinata al fallimento. «Non possiamo restare noi magistrati e le forze dell’ordine con il cerino in mano».
È questa la preoccupazione del magistrato di Palermo, la sensazione di essere in prima linea e di non essere adeguatamente supportati da un moto collettivo. Si tratta di una preoccupazione per tanti aspetti legittima, soprattutto per ciò che riguarda la percezione che delle mafie ha chi si muove all’interno del variegato mondo dell’antimafia. Di recente, al Festival dell’Unità di Reggio Emilia, don Ciotti ha ribadito come la capacità di rigenerarsi sia un tratto costitutivo e inossidabile delle mafie e ha spiegato che «non basta tagliare la mala erba in superficie, bisogna estirpare le radici». In soldoni, ha chiesto significative modifiche a livello culturale e un’azione incisiva sui giovani. Si parla di mafia da 170 anni, ha osservato il fondatore di Libera, segno che qualcosa nell’azione di contrasto al fenomeno non è andato bene, e le mafie proseguono imperterrite il loro cammino; i mafiosi «l’intelligenza artificiale hanno imparato ad usarla ed è già diventata intelligenza criminale».
Ha ragione la dott.ssa Sava, ci vorrebbe un salto etico. L’etica, però, va costruita, non è un prodotto reperibile nel mercato delle buone intenzioni, è un costo oneroso, richiede sacrifici e rinunce. Se si guarda al panorama generale, agli usi e costumi collettivi, appare difficile immaginare prossima una rivoluzione culturale in grado di portare questo Paese fuori dall’orbita del primato assoluto dell’interesse di parte, del profitto personale, del godimento esclusivo e intimo dei beni, dei servizi, delle risorse nazionali.
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