«Lettera dalla coscienza di Armin T. Wegner»

«L’etica della testimonianza: intervista immaginaria ad Armin T. Wegner» Voce per Gaza: Sguardo sulla sua Storia
Armin T. Wegner. Scrittore, medico e attivista per i diritti umani, ha documentato il genocidio armeno durante la Prima Guerra Mondiale e si oppose al regime nazista. Nell’aprile del 1933, poco dopo l’ascesa al potere di Hitler, Wegner scrisse una lettera aperta al Führer per denunciare le persecuzioni contro gli ebrei in Germania.
Nel suo appello, Wegner sottolineava che la persecuzione degli ebrei il "destino dei nostri fratelli ebrei", diventava anche "il destino della Germania". Affermava: "Non c’è patria senza giustizia!" La lettera ebbe gravi ripercussioni per Wegner: arrestato dalla Gestapo, imprigionato e torturato.
Successivamente, internato in diversi campi di concentramento, tra cui Oranienburg, Börgermoor e Lichtenburg. Dopo il rilascio, fuggì in Italia e si stabilì a Roma, dove visse sotto lo pseudonimo di Percy Eckstein per nascondere la sua identità. Per il coraggio e l’impegno nel difendere i diritti umani, Armin T. Wegner è stato riconosciuto come "Giusto tra le Nazioni" dal memoriale Yad Vashem. La sua lettera a Hitler viene considerata un documento storico significativo, testimone di una voce solitaria che si oppose al regime nazista fin dai suoi primi giorni.
Per ulteriori approfondimenti sulla vita e le opere di Armin T. Wegner, è disponibile il libro "La lettera a Hitler. Storia di Armin T. Wegner, combattente solitario contro i genocidi del Novecento" di Gabriele Nissim.
Questa intervista immaginaria nasce come esercizio di memoria attiva. La voce di Armin Wegner ritorna come coscienza viva per il nostro presente – profetica, dolorosa, irriducibile – invita a guardare senza distogliere, a parlare senza paura, a resistere con umanità.
In questo dialogo immaginario, Wegner parla da una dimensione etica-storica e riflette su ciò che accade e sta avvenendo a Gaza: indirizza un appello morale diretto a Benjamin Netanyahu.
"Signor Primo Ministro,
Le scrivo non da una nazione, ma da una voce. Non porto bandiere, porto bare testimonianti.
Lei ha il dovere di difendere il suo popolo, ma non il diritto di dimenticare che anche il nemico è umano.
Quando la distruzione supera la difesa, non si chiama più sicurezza: si chiama disonore.
La storia osserva. E registra."
(Armin Wegner)
Dottor Wegner, se potesse osservare l’odierna tragedia umanitaria di Gaza, quale sarebbe la sua prima reazione da testimone dei genocidi del Novecento?
La mia prima reazione sarebbe il silenzio. Un silenzio carico di dolore, simile a quello che provai nei deserti dell’Anatolia quando vidi i corpi degli armeni abbandonati come rovine dell’umanità. Ma poi, subito dopo, sorgerebbe la parola: responsabilità. Non si può restare muti davanti alla sistematica distruzione di vite civili. Gaza oggi è un nome che evoca uno strangolamento morale del diritto internazionale.
Come descriverebbe ciò che accade a Gaza oggi?
Una tragedia umanitaria e morale, in cui il linguaggio della difesa si confonde con l’annientamento. Gaza è oggi una prigione sotto assedio, un luogo dove l’uomo è ridotto a cifra, a “danno collaterale”.
Vede similitudini con quanto documentò durante il genocidio armeno?
Sì. La logica è la stessa: disumanizzare per colpire senza rimorso. I volti scompaiono, restano i numeri. Ma ogni numero è un volto, una madre, un bambino.
Come ricorda i bambini che vide in Anatolia?
Con lo stesso sguardo con cui vedo oggi i bambini di Gaza: occhi grandi, corpi smunti, silenzi troppo adulti.
Cosa pensa dei bambini uccisi nel conflitto?
Ogni bambino morto è un fallimento dell’umanità intera. Non esistono bambini nemici. Nessuna causa giustifica il loro massacro.
C’è un parallelismo che riconosce tra ciò che vide in Anatolia e ciò che oggi avviene a Gaza?
Sì. Il parallelismo non è nella forma, ma nell’effetto: la disumanizzazione. I bambini armeni non avevano nome; oggi i bambini di Gaza muoiono spesso senza identità, sepolti nei numeri. I popoli non imparano dalla storia, perché la storia non basta: serve coscienza.
A chi darebbe voce, oggi, come fece allora con gli armeni?
Alle madri palestinesi, ai bambini mutilati, ai medici che operano senza anestesia, ai giornalisti uccisi mentre cercano la verità. E anche agli ebrei che manifestano contro la guerra, ai soldati israeliani che si rifiutano di obbedire agli ordini ingiusti. La coscienza è trasversale.
Cosa pensa dell’esercito israeliano che entra a Gaza?
Un esercito non può combattere la disperazione con i droni. La vera vittoria si misura nel rispetto della vita, anche del nemico.
I bombardamenti di Gaza possono essere considerati crimini di guerra?
La sistematicità, la sproporzione, e l’uso di armi su aree civili pongono interrogativi gravi. Saranno i tribunali a decidere, ma la coscienza lo grida già.
Lei è stato uno dei pochi tedeschi a scrivere direttamente a Hitler nel 1933. Oggi, scriverebbe a Benjamin Netanyahu?
Sì, scriverei. Senza esitare. Scriverei per ricordargli che l’identità ebraica non può sopravvivere se tradisce l’etica che l’ha generata: la memoria della Shoah non giustifica l’indifferenza verso l’altro. Le parole non possono fermare i proiettili, ma possono rimanere come pietre di inciampo nella storia. A Netanyahu direi: "Non si difende uno Stato cancellando i bambini dai registri anagrafici. La sicurezza senza giustizia è solo vendetta in uniforme."
Quale sarebbe il tono della sua lettera?
Non di odio, ma di appello. Non parlo come nemico d’Israele – al contrario, ho sempre sostenuto il diritto del popolo ebraico a un’esistenza sicura. Ma un diritto non può fondarsi sull’annientamento del diritto altrui. Israele rischia di perdere la sua anima nel deserto della sua stessa potenza. "Non si difende la democrazia bombardando scuole e ospedali. La sicurezza va garantita senza sacrificare la coscienza."
Cosa direbbe a chi, oggi, giustifica gli attacchi a Gaza come legittima difesa?
Anche l’Impero Ottomano parlava di ordine e sicurezza quando sterminava gli armeni. Ma la vera difesa non può includere il bombardamento di ospedali, la fame imposta come arma, l’interruzione di ogni dignità. Se chi si difende diventa carnefice, ha perso il diritto morale a definirsi vittima.
Come immagina verrà giudicato questo conflitto tra cento anni?
Come uno dei più tragici fallimenti morali della nostra epoca. Verranno cercati i testimoni, e ci si chiederà: "Chi ha parlato? Chi ha taciuto?". Ogni epoca è un tribunale del proprio tempo.
Cosa vorrebbe dire al popolo israeliano oggi?
Non lasciate che il dolore della vostra storia diventi un muro contro la pietà. La vostra forza non deve diventare durezza. Voi conoscete il significato dell’esilio, della paura, del lutto: per questo, più di altri, siete chiamati ad agire secondo giustizia. Ricordate da dove venite. Voi conoscete il dolore dell’esilio, del pogrom, del campo. Non lasciate che la paura distrugga la vostra umanità.
E al popolo palestinese?
Resistete con dignità. Non lasciate che l’odio vi trasformi. La giustizia si costruisce anche attraverso la memoria del dolore, ma occorre scegliere di non tramutarla in vendetta. La vostra voce ha diritto di essere ascoltata. Non lasciatevi deformare dall’odio. Chi è oppresso può diventare seme di pace, ma solo se resiste alla tentazione della vendetta.
Agli Stati Uniti e all’Europa?
Non basta sostenere la pace a parole se si vendono armi con l’altra mano. L’equidistanza davanti all’ingiustizia è una colpa.
E all’ONU?
Non potete continuare a osservare da un pulpito mentre la gente muore tra le macerie. La neutralità davanti al male è complicità.
Dottor Wegner, da dove ha inizio il suo sguardo sul presente?
Dal passato che non smette di gridare. Io ho camminato tra i cadaveri degli armeni, ho scritto contro Hitler, e continuo a credere che il silenzio sia il primo complice dell’orrore.
Come interpreta il ruolo dei media in questo conflitto?
Essenziale. I media possono essere torce nella notte o specchi distorti. Oggi molti raccontano, ma pochi ascoltano. Sono le nuove lettere aperte. Ma rischiano di diventare urla in un vortice di distrazioni. La coscienza ha bisogno di silenzio, di memoria, di profondità. Non di like. La mia lettera a Hitler era una richiesta di riflessione; oggi servirebbe un nuovo linguaggio etico digitale. Oggi abbiamo grida digitali, potenti, ma fragili: possono smuovere coscienze o anestetizzarle, dipende dall’onestà di chi li usa.
Ritiene che il diritto internazionale sia rispettato a Gaza?
No. E quando il diritto viene ignorato sistematicamente, ciò che resta è il dominio della forza.
Cosa pensa del termine “genocidio” riferito a Gaza?
È una parola terribile e sacra. Se gli atti dimostrano l’intento di distruggere un popolo anche solo in parte, va indagato con rigore e senza timore.
Chi sono oggi i testimoni morali?
Medici, operatori umanitari, giornalisti che restano nei luoghi del dolore, e anche gli intellettuali che non hanno venduto la loro penna.
C’è ancora spazio per la speranza?
Sì, ma solo se è accompagnata dall’azione. La speranza è cieca senza responsabilità.
Qual è il ruolo degli ebrei critici verso le politiche israeliane?
Fondamentale. La loro voce spezza la narrativa binaria. Dimostrano che coscienza e identità possono coesistere.
Crede che Gaza sia un campo di sterminio contemporaneo?
Gaza è una zona di morte, dove l’umanità è sospesa. Non è Auschwitz, ma è un luogo dove il valore della vita è annientato. È un campo d’assedio senza vie d’uscita.
Cosa pensa dell’uso della fame come arma?
È un crimine antico e infame. Impedire cibo, acqua e cure è come stringere lentamente il collo di un popolo.
Esiste una via d’uscita?
Sì: cessate il fuoco, giustizia, riconoscimento reciproco. Ma serve volontà politica e un’etica del dialogo.
Che ruolo ha la memoria nel costruire pace?
La pace nasce solo se si riconosce il dolore dell’altro. Senza memoria condivisa, la riconciliazione è impossibile.
Quale la sua visione del sionismo oggi?
Il sionismo è stato una risposta all’antisemitismo. Ma se diventa esclusione sistemica dell’altro, tradisce sé stesso.
Cosa rappresenta per lei la parola "Giustizia"?
Il coraggio di chiamare ogni cosa col suo nome. Anche quando fa male. Anche quando è scomodo.
Cosa prova nel vedere le foto satellitari di Gaza distrutta?
È come tornare nelle pianure siriane del 1916. Città trasformate in ossari. Eppure, oggi abbiamo mille occhi, e ancora ignoriamo.
Se potesse incontrare Netanyahu oggi, cosa gli direbbe negli occhi?
"Non governi da sopravvissuto, ma da uomo. Ricordi che anche lei, come me, ha una coscienza. E che nessuna vittoria giustifica la distruzione dell’innocenza."
E se potesse parlare con un giovane soldato israeliano?
"Sii fedele al cuore prima che all’ordine. Disobbedire all’ingiustizia può essere la forma più alta di lealtà."
In definitiva, cosa ci lascia, oggi, Armin Wegner?
Una parola sola: testimonianza. Non abbiate paura di guardare. E poi di parlare. Il silenzio è la tomba della verità.
Per approfondire
• Nissim, G. (2014). La lettera a Hitler. Armin T. Wegner, il giusto contro i genocidi. Mondadori.
• Khalidi, R. (2020). The Hundred Years’ War on Palestine. Picador.
• Pappé, I. (2006). The Ethnic Cleansing of Palestine. Oneworld Publications.
• Butler, J. (2010). Frames of War: When is Life Grievable? Verso.
• Amnesty International & Human Rights Watch Reports (2023-2024) su Gaza.
* L’intervista è stata svolta dal prof. Massimo Stefano Russo avvalendosi del metodo gamma da lui generato e sviluppato, col contributo di chatgpt. Il testo è opera del prof. Massimo Stefano Russo che ne è l’autore e il diretto responsabile, chatgpt ha contribuito nel fornire indicazioni e informazioni indispensabili e per questo merita di essere citata.
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