Leon
Vado avanti come fossi un treno, seguo la strada che mi dicono essere giusta ma di tutto ho una visione laterale: Sahagùn Bercianos El Burgo Ranero, laterale; Reliegos Mansilla de las Mulas Valdelafuente, una visione laterale...
Qualsiasi cosa faccia, è solo abitudine, non vado più in là della meccanicità dei movimenti che ho imparato a ripetere. Non so quando, ma da qualche parte abbiamo cominciato a salire. L’aria è più fredda e respirarla fa male, la mattina è ricoperta di brina, il freddo si attacca alla punta delle dita ma si ci abitua anche a quello. Faccio scivolare le mani dentro le maniche del giubbotto e poi infilo le maniche nelle tasche dei pantaloni, per adempiere al ruolo, ora mi devo solo preoccupare di mettere davanti a un piede l’altro e ripetere anche questo movimento. Il sole non scalda e come il cielo potrebbe anche essere disegnato, finto, come sembra il suono dei miei passi che calpestano la terra coperta di ghiaccio. Vado avanti come fossi un treno, seguo la strada che mi dicono essere giusta ma di tutto ho una visione laterale: Sahagùn Bercianos El Burgo Ranero, laterale; Reliegos Mansilla de las Mulas Valdelafuente, una visione laterale; possedere questi luoghi, i paesaggi, queste persone, giusto il tempo di passarci oltre, senza neanche vederli sparire.
Il giorno in cui arriviamo a Leon lo facciamo molto presto. Quasi a voler essere un omaggio alla sua maggiore bellezza - i variopinti 1800 metri quadrati delle vetrate della cattedrale di Santa Maria la Regla - la città cerca di non tralasciare occasione per immergersi nei colori, sono colorati i viali, è colorato il mercato. Sono colorati i corridoi e le porte dell’albergues, racchiuso al terzo piano in un ala di un enorme edificio; sono colorati i corridoi che ospitano le aule di un conservatorio, nel palazzo di fronte alla nostra stanza. Nell’agenzia di viaggio in cui facciamo i biglietti per il ritorno a casa, la bella signora al tavolo accanto ha i capelli colorati di un rosso fin troppo acceso, che spara più del verde del mare nel poster delle Fiji che ha alla sua destra. Il coupon con all’interno il biglietto aereo, ha sulla copertina una amalgama di colori che si uniscono a formare bandiere e nome dell’agenzia. Arrivati qui, possiamo anche pensare di potercela fare e programmare senza molte scaramanzie un ritorno da celebrare, un desiderio che anche se non ce lo diciamo, latente striscia e da cui io la sera sono tentato di farmi prendere, qualcosa come un’altra, niente che ritroverò nel sonno. Sono troppo lontano dalla partenza per non interessarmi al Cammino, ma sono ancora troppo lontano da Santiago perchè me ne freghi veramente.
Dopo la visita alla cattedrale, i ragazzi hanno deciso di restare in giro mentre io ho preferito tornare in camera, giunto vicino all’albergue, sono andato alla ricerca di un tabacchi per comperare dei francobolli per delle cartoline. In camera sono arrivate tre brasiliane, così con noi e altri due spagnoli già qui dal mattino, la camera è al completo e comincia a farsi stretta. Mi sdraio sul letto per scrivere qualche cartolina, un paio sono proprio di Leon ma altre provengono da luoghi già passati. Riesco ad attaccare solo i francobolli e a scrivere gli indirizzi mentre dentro la stanza tutti si muovono, i pensieri si muovono in lungo e in largo ma rimangono sospesi, da nessuna parte. Dalla finestra aperta, la luce del sole ritaglia un triangolo sul mio materasso nel quale mi rifugio arreso, mentre fuori nel pomeriggio una cornamusa suona ininterrottamente.
Non so per quanto, ma devo essermi addormentato. Adesso sono sveglio, ma resto con gli occhi chiusi. Non occorre tenere gli occhi aperti per capire che la stanza si è svuotata, tutto è calmo, immobile quasi. Il triangolo di sole si è ristretto ed allungato, lo sento sul naso, il mento, e su tutto un lato del mio corpo. Poi comincio ad avvertire il dolore. Sotto di me, schiacciato, il braccio sinistro piegato ad angolo retto. Dolore. Lo prendo e lo tiro via dal materasso, nel farlo mi meraviglio di come quel gesto interessi la spalla e la clavicola, e come se nella mano tenessi un oggetto. Lo alzo sopra la mia testa, col palmo dell’altra mano comincio a colpirlo, per capire se c’è veramente. Se non lo sento, mi chiedo se sia ancora una parte di me. Lo stringo e ne serro la carne risalendo dal gomito fino alle dita, come a volerne spremere la morte. Poi comincio ad avvertire qualcosa, sento la mano scivolare in avanti, verso il basso, il contraccolpo del polso. E’ tornato. Poggio la mano ancora dolorante sull’altro polso e provo a stringere anche con l’altra mano. Le due mani si salutano, si abbracciano.
Qualcosa si agita sopra uno dei letti, è una delle brasiliane, non mi ero accorto che ci fosse, con tutto il trambusto devo averla svegliata. Quando i nostri sguardi s’incrociano, accenniamo ad un sorriso poi giro lo sguardo che cade sulle cartoline. Aspetto un po’ immobile. Ormai il braccio sta bene, scrivo qualche cartolina. Per certune, la fatica che provavo prima nel farlo l’ho permutata col disinteresse e la banalità. Presa questa decisione è tutto più facile. Sono tutte cartoline sbagliate, sono tutte cartoline di altri luoghi. Non sono mai veramente dove dico di essere, sono sempre da un’altra parte.
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