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Le perplessità del ministro: gli enti da sciogliere per mafia in Campania

Una rapida consultazione dei dati quantitativi consente di verificare che, dal 1991 all’aprile di quest’anno, sono stati emessi 401 decreti di scioglimento di Comuni per infiltrazioni mafiose

di francoplat - venerdì 20 giugno 2025 - 343 letture

Quando si parla di controllo del territorio da parte delle mafie, in particolare nelle zone originarie del loro insediamento, si deve necessariamente fare riferimento alla legge che, dal 1991, opera lo scioglimento degli enti locali la cui volontà politica e amministrativa è talmente condizionata dalle pressioni e/o dalle infiltrazioni dei clan da risultare priva di autonomia e largamente orientata agli interessi delle consorterie criminali anziché a quelli dei cittadini. È una sostanziale erosione dei diritti collettivi e individuali, così potente da invalidare qualsiasi ragionevole discorso sulla democrazia e le libertà. Introdotto nel nostro ordinamento dal decreto-legge 164, in uno dei momenti più difficili del conflitto contro Cosa nostra, tale scioglimento è stato, poi, disciplinato dal Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali (TUEL, artt. 143-146 del decreto legislativo 267 del 2000). Il TUEL ha subito, in seguito, delle modifiche a opera della legge 15 luglio 2009 n. 94 (Pacchetto sicurezza bis).

La misura non ha carattere sanzionatorio, ma preventivo, poiché i destinatari diretti del provvedimento sono gli organi elettivi nella loro generalità e non il singolo amministratore. Obiettivo di fondo della legge è quello di interrompere il rapporto di connivenza o di soggezione dell’amministrazione locale nei confronti dei clan mafiosi, in grado, questi ultimi, di condizionarne le scelte attraverso metodi corruttivi o tramite pressioni e atti intimidatori. Per giungere allo scioglimento dell’ente locale devono essere presenti, e adeguatamente argomentati da indagini mirate, degli elementi «concreti, univoci e rilevanti» su collegamenti con la criminalità organizzata di tipo mafioso degli amministratori locali – sindaci, consiglieri comunali, presidenti delle province o delle comunità montane ecc. – o su «forme di condizionamento degli stessi, tali da determinare un’alterazione del procedimento di formazione della volontà degli organi elettivi ed amministrativi e da compromettere il buon andamento o l’imparzialità delle amministrazioni comunali e provinciali».

Una rapida consultazione dei dati quantitativi consente di verificare che, dal 1991 all’aprile di quest’anno, sono stati emessi 401 decreti di scioglimento di Comuni per infiltrazioni mafiose, oltre quelli relativi alcune aziende sanitarie, in gran parte calabresi; praticamente, uno al mese. Si tratta di piccoli Comuni, sotto i 20 mila abitanti, prevalentemente ubicati nelle regioni meridionali – il 96% del totale –, cioè in Calabria, Campania, Sicilia e Puglia, in ordine decrescente di numero di commissariamenti comunali. In quasi tutti i casi analizzati in un recente rapporto di “Avviso pubblico”, i clan risultano coinvolti nelle campagne elettorali, al fine di consolidare o creare dei rapporti preferenziali con le future amministrazioni. Tale coinvolgimento assume forme differenti: si va dalle intimidazioni agli altri candidati alla presenza nelle liste elettorali di soggetti contigui alle cosche o loro stessi sodali alla non inusuale richiesta di supporto ai clan da parte dei potenziali amministratori.

Nello stesso rapporto di “Avviso pubblico”, si evidenzia, inoltre, un ulteriore aspetto, quello dell’intimidazione degli amministratori locali operanti nei rispettivi territori. In tredici anni, dal 2010 al 2023, sono state denunciate cinquemila intimidazioni nei confronti dei pubblici amministratori in 1600 Comuni. Pure in questo caso, va precisato, si tratta di piccoli enti locali, più vulnerabili per una serie di ragioni: la riduzione, spesso drastica, dei presidi di forze dell’ordine, la minore attenzione mediatica, la più facile infiltrazione criminale sul territorio. Dopo la Sicilia, è la Campania la prima regione per numero assoluto di minacce (794 nei tredici anni presi in considerazione), oltre a essere la realtà in cui è più alto il numero di giornalisti sottoposti alle pressioni mafiose; dei 25 giornalisti sotto scorta in Italia, cinque si trovano, appunto, in Campania.

Il caso della regione governata da De Luca è emblematico. Seconda solo alla Calabria per numero di enti commissariati – ma assurge al primato se si considerano gli anni dal 2010 a oggi –, la Campania vanta alcuni Comuni che hanno conosciuto ben più di un decreto di scioglimento. Ad esempio, Quindici, in provincia di Avellino, è stato sciolto quattro volte, così come Marano di Napoli, mentre tre decreti di commissariamento hanno riguardato Casal di Principe, Casapesenna, San Cipriano d’Aversa e Grazzanise, tutti in provincia di Caserta, e Arzano e San Gennaro Vesuviano nel Napoletano. La reiterazione della prassi di verifica della trasparenza dell’amministrazione e, soprattutto, la successiva decisione ministeriale di sciogliere gli enti locali, non può che risultare, anche all’intendimento dei meno maliziosi, sconfortante circa la presa dello Stato sul territorio. È difficile sostenere che in quelle comunità i pubblici poteri gestiscano un ruolo centrale e al servizio della collettività, che lo Stato detenga il monopolio della forza, che le dinamiche amministrative, economiche, sociali e culturali siano improntate al bene comune. È chiaro che si è in presenza di una surrogazione del potere statuale, anche nella sua forma decentrata, a favore di un aggrovigliato intreccio di interessi privati garantiti dagli stessi amministratori pubblici e dalla cosiddetta area grigia, in malafede o sotto le intimidazioni mafiose.

Il tema è complesso e lo stesso iter di commissariamento è oggetto di critiche e ripensamenti: se ne sottolineano, condannandole, la rigidità della disciplina che impone l’azzeramento per almeno 18 mesi degli organi elettivi – creando un sostanziale annullamento della volontà popolare – oppure la scarsa efficacia delle gestioni commissariali, non di rado incapaci di intrecciare un rapporto fiduciario con i cittadini e di rimuovere le inefficienze che avevano determinato lo scioglimento. Così come viene sottolineata l’inopportunità o l’eccessivo fiscalismo della legge quando i tentativi di infiltrazione o di condizionamento dell’ente non concernono la parte politica, ma i dipendenti della struttura pubblica o vertici e personale delle società partecipate. E, ancora, i detrattori della legge evidenziano come resti dibattuto il problema dei diritti degli amministratori degli enti sciolti per mafia, ai quali non sono garantiti né il contraddittorio nella fase ispettiva né la pienezza dei diritti difensivi in sede giurisdizionale. Per questo, già nel 2022, la Commissione Affari Costituzionali della Camera aveva predisposto una riforma della disciplina in materia, a partire dall’esclusione dello scioglimento dell’ente nel caso in cui il tentativo di condizionarne le attività riguardasse solo la burocrazia dell’ente stesso; inoltre, la proposta immaginava la riduzione della durata del commissariamento, la possibilità di un contraddittorio fra gli amministratori e la commissione di accesso, l’istituzione di un organo di rappresentanza dei cittadini e del mondo dell’associazionismo a supporto della commissione straordinaria.

La regolamentazione degli enti infiltrati o condizionati dalle mafie è, dunque, oggetto di discussione. Certo, la presenza di Comuni sciolti a più riprese non depone a favore dell’efficacia normativa e, di sicuro, pone la questione di una rilettura dell’architettura di legge in tal senso. Di fatto, lo stesso ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, pare perplesso sulla bontà del decreto qui discusso. Secondo Piantedosi, esiste la «possibilità di creare un terzo genere tra scioglimento e non scioglimento, utilizzando ovviamente le prefetture, magari mediante forme di affiancamento ai sindaci». Circa un mese fa, presenziando al Festival dell’Economia di Trento, il ministro ha ulteriormente precisato che non si tratta di introdurre nuove norme, perché già è praticata un’alternativa allo scioglimento: «esistono degli istituti in vigore per cui, allorquando le formule di contaminazione sono occasionali o circoscritte e soprattutto c’è stato il rinnovo della gestione dell’ente, è possibile immaginare che ci sia un accompagnamento a un percorso che valorizzi le istituzioni democratiche». A giudizio dello scrivente, il ragionamento di Piantedosi non è affatto bislacco, soprattutto per ciò che concerne la questione della sospensione totale degli istituti democratici di un ente solo parzialmente toccato dal problema dell’infiltrazione mafiosa. Tuttavia, ci si trova dinanzi a un tema ricorrente, ossia la cura dei sintomi e non della malattia. Quale che sia la legge che governerà la materia, quali che siano i miglioramenti a una norma imperfetta e migliorabile, resta, inossidabile, la ragione principe per cui quella norma è stata edificata: il mancato controllo da parte dello Stato e dei suoi organi decentrati del territorio italiano, meridionale in particolare.

Diamo nuovamente i numeri, ragionando sul fenomeno osservato. Dal 1991 a oggi, circa 5 milioni di italiani hanno vissuto in Comuni sciolti per mafia. È l’8% della popolazione nazionale; se il dato si scorpora a livello locale, se ne ricava che il 32% dei residenti nel Sud Italia hanno convissuto con questa realtà, cioè in un territorio in cui, per un periodo non inferiore all’anno e mezzo, l’amministrazione scelta dagli elettori in cabina elettorale è stata sospesa per i suoi legami con la criminalità organizzata. Cinque milioni sono tanti, tantissimi, soprattutto se si considera che qui si discute di quelle situazioni estreme in cui l’ente è risultato ormai ampiamente permeabile agli interessi dei clan. E là dove, invece, non arriva un decreto di scioglimento, ma i servizi pubblici sono saldamente in mani criminali o lo sono parzialmente? Quanti altri abitanti del Bel Paese dovremmo annoverare tra coloro i quali vivono in comunità deragliate, in parte più o meno significativa, dal perimetro costituzionale?

Il controllo del territorio, il monopolio della forza, temi lontani e ancora vitali in una penisola come la nostra. Inutile procedere in divagazioni, finirebbero per tediare, ma il tema resta, resta in tutta la sua potente gravità: mafie, politica locale e altri attori di varia estrazione concorrono a questa situazione, per la quale non basterà riscrivere l’impianto normativo relativo al commissariamento. È tempo di tornare agli enti sciolti o, meglio, a quelli in odore di commissariamento e, in particolare, in Campania. Era il febbraio di quest’anno quando, sulle pagine online di “Terranostra news”, compariva un articolo che dava per scontato lo scioglimento di tre Comuni campani per infiltrazioni della criminalità organizzata. Si tratta di Giugliano, Marano e Pomigliano d’Arco, tutti nel Napoletano. Una misura che l’editorialista, Fernando Bocchetti, dava per sicura, in relazione al fatto che nei tre enti locali era arrivata la commissione d’accesso per la verifica della trasparenza politico-amministrativa. L’articolo intreccia delle notazioni sulla cattiva gestione dei tre organi locali con le critiche a quanti, a Marano – dove si trova la sede di “Terranostra news” –, avevano ironizzato sulle osservazioni della testata circa la torbida amministrazione cittadina e la possibilità di un quinto commissariamento. Quanto a Pomigliano, Bocchetti osserva, fra le altre cose, che il sindaco Raffaele Russo dichiara che in città la camorra non esiste, mentre a Giugliano «sul Comune si sono abbattute numerose inchieste giudiziarie e ci sono, allo stato attuale, diversi ex consiglieri o funzionari indagati o destinatari di misure cautelari».

Qualche mese dopo, ossia pochi giorni fa, la testata tornava sulla questione. Stavolta, la sicurezza del primo articolo sullo scioglimento dei tre Comuni diventa una posizione più cauta, attendista. «Il tempo è scaduto: il Viminale deve decidere, in un senso o nell’altro, ma deve farlo subito». Piantedosi esita, le voci si rincorrono, a detta di Bocchetti, «su tutti e tre i Comuni vi sarebbero state ingerenze e pressioni, anche di natura politica, per evitare gli scioglimenti». Questa è, ovviamente, la posizione del giornalista locale, allarmato da una condizione di incertezza e di stasi che potrebbe rafforzare, «non tanto in clan, ma quegli ambienti borderline, spesso trasversali, e certi circuiti id potere legati ai cosiddetti colletti bianchi, che prosperano nell’ambiguità. Settori capaci di muoversi tra istituzioni, affari e politica, sfruttando la paralisi dello Stato per consolidarsi».

Difficile valutare la situazione locale, difficile comprendere quale sarà la decisione di Piantedosi, che, di recente, ha ribadito: «sullo scioglimento dei Comuni per infiltrazione camorristica, stiamo riflettendo se sia sempre questa la soluzione giusta da adottare». Lo si è già detto, il ministro è perplesso circa la bontà della legge sul commissariamento degli enti locali e questa incertezza, che il cronista di “Terranostra news” vede con preoccupazione per le implicazioni sul territorio, assume un forte valore simbolico. Almeno a giudizio di chi scrive, è l’emblema di uno stallo istituzionale, di una cautela politica che, anche data per certa la buonafede di chi li esprime, ha un’incidenza rilevante nel rapporto cittadini-istituzioni: è in grado, lo Stato, di garantire il funzionamento corretto e trasparente dei suoi organi decentrati? È in grado, lo Stato, di riappropriarsi con determinazione ed efficacia della gestione delle comunità nostrane? È in grado, lo Stato, di rassicurare i suoi cittadini circa l’attuazione del dettato costituzionale, che, sulla carta, immaginava di costruire una realtà liberal-democratica?

Le esitazioni di Piantedosi, quali che siano le ragioni che le motivano, non aiutano a rispondere positivamente a queste domande, le eludono, le lasciano aperte, irrisolte. Marano di Napoli arriverà forse al suo quinto commissariamento; ma anche se restasse fermo al quarto, in questa classifica deleteria, la sostanza della questione non cambierebbe affatto. Esiste un’Italia extra-costituzionale, diffusa a macchia di leopardo sul territorio, che vive da oltre un secolo e mezzo all’ombra della storia ufficiale, riparata dalla retorica ufficiale, dal negazionismo, dall’opportunismo, dalla paura e dal bisogno. Tutti pilastri validi e sicuri contro qualsiasi cedimento strutturale della bella storia unitaria, democratica e liberale, che ieri ci illuse e che oggi ci illude.


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