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Le origini di Daesh

Da dove viene e come si finanzia il gruppo terroristico che sta cambiando la geopolitica del Medio Oriente. (Un articolo di Christian Elia, corrispondente di Emergency)

di Redazione - giovedì 27 agosto 2015 - 3763 letture

Il 29 giugno 2014, nella moschea più grande di Mosul, Abu Bakr al-Baghdadi, autoproclamatosi califfo dei credenti, annuncia al mondo la nascita del Califfato islamico. L’organizzazione che è presente da tempo in Iraq, nota come Stato islamico dell’Iraq (Isi), in arabo Daesh, diventa stato, optando per il nome Is (Islamic State).

In quel momento diventa chiaro a livello globale che qualcosa di molto importante e pericolo accade in Medio Oriente. Per la prima volta le frontiere stabilite dopo la Prima Guerra mondiale, seguendo gli interessi delle grandi potenze occidentali, vengono cancellate. A cavallo tra Siria e Iraq si installa un’entità che ha mire espansioniste, miliziani addestrati e ben armati, che travolgono senza apparente opposizione gli eserciti regolari siriano e iracheno. Per capire questa storia, perrò, bisogna andare indietro nel tempo.

Nel 2006, dopo la morte di al-Zarqawi, il gruppo noto come al-Qaeda in Iraq è entrato in crisi. Già il vecchio leader accusava al-Qaeda di eccessivo pragmatismo e dopo la sua morte i rapporti tra i miliziani radicali in Iraq e l’organizzazione di Osama bin Laden e al-Zawahiri diventano sempre più flebili. I duri colpi inferti alle formazioni di insorti in Iraq dalle truppe Usa alleate alle tribù sunnite, alle quale era stato promesso un futuro di uguaglianza nel nuovo stato iracheno, fecero il resto. Come ha potuto una formazione allo sbando, con fondi sempre più esigui, con sempre meno effettivi combattenti, risorgere e giungere nel giro di quattro anni a controllare un territorio con una popolazione pari a quella dell’Austria? figu Daesh inizia la sua riscossa nel 2010. Ad aprile di quell’anno, viene nominato leader Abu Bakr al-Baghdadi. Le motivazioni della scelta sono spiegate in un documento di 31 pagine del quale è venuto in possesso il settimanale tedesco Der Spiegel alla fine del 2014. Il testo è il manuale operativo che Samir Abd Muhammed al-Khalifawi ha stilato e distribuito ai suoi fedelissimi. Chi è al-Khalifawi, meglio noto con lo pseudonimo di Haji Bakr? Si tratta di un ex colonnello dei servizi segreti dell’aeronautica militare di Saddam.

Nel 2003, quando la coalizione internazionale ha invaso l’Iraq, è stato tra le decine di migliaia di sunniti che in un attimo hanno perso salario, posto di lavoro e prestigio sociale. Covando un sentimento di vendetta per gli invasori, ma anche per i loro alleati: sciiti e curdi. Tutti quelli che hanno avuto a che fare con lui in passato, lo definiscono un fervente nazionalista, assolutamente ateo. Stesso profilo di Izzat Ibrahim al-Douri, il famoso "re di fiori" del mazzo di carte che gli Usa affibbiarono ai ricercati del vecchio regime in Iraq. Attorno a al-Douri, coordinati da Haji Bakr, si riunirono le figure di spicco dell’intellighenzia sunnita che aveva spadroneggiato in Iraq per 40 anni. Nel 2010, constatato che le promesse fatte dal governo di Baghdad al tempo della lotta contro al-Qaeda non si concretizzavano, hanno iniziato a lavorare alla rivincita sunnita.

L’occasione, nel 2011, è il caos che scoppia in Siria. Un paese dove, ai tempi dell’invasione internazionale dell’Iraq, i jihadisti avevano le loro retrovie sicure, perché il regime di Assad temeva della Coalizione e sosteneva la guerriglia contro gli Usa e i loro alleati. L’insurrezione contro Assad durante le cosidette primavere arabe ha creato quel vuoto di potere a cavallo tra le frontiere di Iraq e Siria (regione dell’Anbar) nel quale si è installato Haji Bakr per pianificare la rivincita. All’inizio, la coalizione di insorti contro Assad non li ha ostacolati. Il nemico comune fungeva da collante tra le milizie integraliste e quelle laiche e progressiste. Solo in queste ultime, progressivamente, sono state espropriate del controllo del territorio. Come? Il documento lo spiega bene. Bakr indica chiaramente ai suoi uomini che al-Baghdadi è stato scelto per dare una copertura "religiosa" a quello che è un mero piano di acquisizione di risorse, territorio e potere.

Le differenze religiose (contro i cristiani, gli sciiti e i curdi) vanno utilizzate per dividere le comunità. In ogni villaggio bisogna aprire uffici di associazioni che hanno una copertura caritatevole, ma che servono in realtà a una mappatura dei potentati locali, per individuare leader e famiglie influenti, spiarne i segreti e le debolezze, e ricattarle. Se oppongono resistenza, eliminarle. La leadership di Daesh, dunque, si è mossa sull’asse dell’odio interconfessionale, cavalcando il senso di impotenza e la frustrazione dei gruppi sunniti in Iraq e in Siria.

Fin dall’inizio, l’offensiva del giugno 2014 si è caratterizzata per una propaganda volta a sottolineare la rivincita sunnita, contro il regime di Assad (della confessione alawita, vicina all’Iran sciita) e contro gli sciiti che ormai governano a Baghdad. Questo gli è valso la fedeltà delle grandi tribù sunnite, come il clan Daym, che a suo tempo avevano creduto alle promesse Usa di un Iraq dove tutti avrebbero avuto pari dignità e che invece erano state abbandonate al loro destino da Baghdad. Per un’operazione del genere, però, oltre al marketing politico-religioso, serve una grande forza economica.

Un elemento chiave per capire fino in fondo la scalata al potere di Daesh è proprio quello economico. Molto, anche troppo, si è detto del controllo di almeno sette giacimenti nell’Iraq settentrionale da parte dei miliziani di Daesh. Questo è per certo un canale economico chiave, ma non strutturale, perché nel lungo periodo è insostenibile. Secondo uno studio della Rand Corporation, pubblicato dal New York Times, i proventi di Deash del 2014 sono così ripartiti: 20 milioni di dollari dai riscatti per i rapimenti di occidentali o di personalità locali appartenenti a famiglie agiate, oltre 500 milioni di dollari provenienti dagli assalti alle banche delle città conquistate, oltre 600 milioni di dollari dalle "tasse" e dalle estorsioni alle comunità locali e solo - si fa per dire - 100 milioni di dollari dal contrabbando del petrolio. La gestione dei pozzi, infatti, è onerosa e impegnativa, essendo questi ultimi anche obiettivi facili da colpire per i raid aerei della coalizione internazionale. Le entrate, quindi, debbono essere diversificate.

Una rete fondamentale per le casse di Daesh è quella della cosidetta hawala, un sistema informale gestito da intermediari e corrieri che portano al gruppo le donazioni raccolte in giro per il mondo da associazioni e privati. Il denaro contante, con una serie di passaggi che si basano su un sistema di fiducia e di garanzia, percorrono come una staffetta il mondo, fino a giungere in Siria e in Iraq. Non tracciabili. L’Arabia Saudita resta il primo finanziatore, tuttavia mai è stata esercitata una reale pressione sul governo di Riyadh, che detiene le chiavi dell’approvvigionamento energetico dell’Occidente. Altro elemento chiave è quello del traffico di reperti archeologici. Gli assalti ai simboli culturali millenari della regione servono anche e soprattutto per aumentare il prezzo dei reperti che ineffabili mercanti d’arte occidentali sono pronti a pagare. Non ultimo è importante l’attacco sistematico a dighe e pozzi, perché in una regione assetata come la Mesopotamia il controllo dell’acqua garantisce potere.

A questa azione capillare di controllo delle comunità, Deash ha saputo fin dal principio affiancare una ficcante strategia di comunicazione globale. Le immagini terribili delle esecuzioni pubbliche servono a generare negli avversari (in primo luogo i militari iracheni) il terrore necessario a far si che spesso - come nel caso di Mosul - nonostante un numero predominante di uomini e mezzi, i soldati di Baghdad fuggano senza combattere, abbandonando armi e territori. Il "brand" ha iniziato a diffondersi, via web, in tutto il mondo. In Pakistan, in Afghanistan, in Libia e altrove, gruppi jjhadisti un tempo fedeli ad al-Qaeda hanno aderito a Daesh, rendendo la sua immagine sempre più forte. Sul terreno, invece, Daesh affianca al terrore una strategia di acquisizione del consenso molto sottile. Per anni le comunità ora controllate dai miliziani integralisti si sono sentite insicure, abbandonate da uno stato centrale iracheno che non si curava del benessere della popolazione.

Daesh, a coloro che obbediscono senza fiatare e pubblicamente rispettano i precetti religiosi, garantisce istruzione, acqua potabile, energia elettrica, pane. E sicurezza. La strategia adottata per il momento dagli Stati Uniti e dall’Europa si muove in due direzioni: sostengono ai combattenti curdi (armi, per lo più) e bombardamenti aerei che non impegnino truppe di terra. Un approccio che non garantisce nessun risultato pratico. Mentre colpire indiscriminatamente dall’alto aumenta il costo in termini di vite di civili (come spiega bene il giornalista Patrick Cockburn), aumentano le file di coloro che si uniscono a Deash animati da spirito di vendetta. Inondare di armi il teatro bellico si è già rivelato un grave errore. Già nel 2007, un report del Pentagono ammetteva che di 13 mila armi leggere consegnate all’esercito iracheno ne risultavano "disperse" 12 mila. Oggi sappiamo dove sono finite.


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