Le “mafie liquide” e gli appelli della Dia
Alcuni giorni fa, come avviene ogni semestre, è stata pubblicata la relazione della seconda parte dell’anno 2022 da parte della Dia. Una fotografia dello stato delle mafie, italiane e non e in Italia e fuori dai confini nazionali, che dai primi anni Novanta a oggi ha conosciuto il progressivo incremento della propria analisi, passando da qualche decina di pagine dattiloscritte del 1993 alle attuali oltre cinquecento pagine.
Sarebbe interessante uno studio comparato di questi documenti, nell’arco di un trentennio, sia per valutare le metamorfosi del fenomeno mafioso, sia per riflettere sugli allarmi reiterati e persistenti presenti in quelle righe, a cui, come si è già fatto osservare su queste stesse pagine, il ceto dirigente nostrano pare aver accordato un ascolto quantomeno tiepido. Un solo esempio: ben prima che la mafia nigeriana mostrasse le sue pericolose e tentacolari mire su alcuni settori criminali, ossia ben prima che diventasse un fenomeno percepito dalla società come allarmante, la Dia aveva cominciato, seppur in maniera contenuta, a monitorare la presenza di quell’associazione criminale e ad abbozzarne le caratteristiche e le linee di sviluppo. Tuttavia, dall’inizio del Duemila a oggi, molti anni sono passati e acqua sotto i ponti, e nonostante ciò il clan africano pare essere sgusciato fuori all’improvviso.
Si rimarca, forse, con qualche puntigliosità rigida tale questione, perché la si ritiene parte integrante del problema. A chi giova un lavoro costante di integrazione di dati e di contenuti, quali quelli presenti nelle relazioni della Direzione investigativa antimafia, ora volti a sottolineare i reati in atto e ora, invece, attenti a precisare il potenziale sviluppo proiettivo dei comportamenti mafiosi, se quegli stessi dati paiono cadere nel vuoto come tanti riti e rituali, come tante ricorrenze vissute con burocratico disinteresse?
Nell’ultima relazione presentata dalla Dia – che si invita a leggere poiché consultabile in Rete – ciò che emerge, a livello generale, è l’istantanea che cerca, paradossalmente, di cristallizzare e fissare i caratteri di quella che Lia Sava, Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’Appello di Palermo, ha definito «mafia liquida» in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2023, preferendo il termine a «camaleonte resiliente», una mafia cioè che sa mimetizzarsi. Il concetto di mafia liquida non è nuovo, lo si trova a partire dal 2008 quando la Commissione parlamentare antimafia presieduta da Francesco Forgione lo utilizzò a proposito della ‘ndrangheta, in virtù della sua peculiare struttura organizzativa modulare e reticolare, che superava quella piramidale e verticistica della mafia siciliana, almeno sino all’attacco dei Corleonesi allo Stato.
Lia Sava definisce a modo proprio la mafia liquida: un’associazione «capace di passare attraverso i differenti stati della fisica. A volte è allo stato gassoso e la respiriamo in certi contesti ambigui, dove è difficile toccarla ma se ne avverte l’olezzo della compiacenza e dell’ammiccamento. A volte, è solida, fredda come il ghiaccio, taglia e ferisce, perché al bisogno è capace di uccidere ancora. Nel suo stato naturale è fluida, si insinua in ogni spazio lasciato libero dallo Stato e dall’etica ed abbiamo motivo di ritenere che questo spazio abbia dimensioni significative, nonostante i nostri immani sforzi e quelli delle Forze dell’Ordine».
Colpisce, nell’osservazione del procuratore di Palermo, soprattutto l’ultima parte, quella relativa allo stato fluido, liquido, appunto. E colpisce perché disegna una dialettica con la quale chi scrive concorda solo in parte – perché distribuisce con nettezza di confini le categorie dei buoni e dei cattivi e conferma le teorie espansionistiche delle mafie – ma che fa battere l’accento sugli sforzi immani della magistratura e su quelli delle forze dell’ordine, dalle quali ultime promana questa relazione, a fronte di una sostanziale assenza di altri agenti di contrasto. Gli estensori di questo documento non sono neutri, ovviamente, e la citazione non è scelta a caso, anche perché un ulteriore richiamo all’affidamento al solo aspetto repressivo, vano, della criminalità organizzata si trova qualche pagina più avanti. «Non è, quindi, pensabile poter sconfiggere una criminalità, vieppiù globale e sempre più inserita nel mondiale circuito finanziario, operando esclusivamente sul versante repressivo e delegando la lotta alle sole Forze dell’ordine ed alla Magistratura».
Il messaggio sembra chiaro. In un’analisi del fenomeno mafie che sottolinea la crescente capacità di infiltrazione delle consorterie criminali nell’economia globalizzata, garantita anche da «imprenditori senza scrupoli che non hanno la piena consapevolezza del calibro criminale dei soggetti con cui interagiscono» e da «settori inquinati della politica o esponenti infedeli della pubblica amministrazione», l’urgenza di un approccio alle mafie che non sia solo repressivo affiora frequentemente. Pare essere questo il mantra degli estensori del documento, che certamente non si fermano alla richiesta di un approccio che superi quello puramente repressivo, investendo anche in termini di riqualificazione dell’etica pubblica e individuale, ma che non mancano di sottolineare come la lotta alle mafie debba condursi su un duplice livello: la condivisione delle pratiche investigative a livello planetario e la formazione di gruppi di investigatori capaci di intercettare il nuovo ambito di interesse di Cosa nostra e compagni, ossia la Rete, e «la fattiva collaborazione tra tutte le istituzioni interessate perché la cultura mafiosa, talvolta definita anche come il “sentire mafioso”, persiste tuttora nell’immaginario popolare». Pare una frase poco comprensibile o, almeno, non immediatamente decrittabile dal lettore. Viene, però, spiegata subito dopo, quando gli autori della relazione precisano che «occorre quindi che il contributo del mondo della politica, della cultura e dell’informazione e, infine ma non per ultimo, del mondo del lavoro, liberi i cittadini dal bisogno di “protezione” per poter soddisfare i bisogni primari, nonché dal timore di dover sottostare a pressioni e intimidazioni».
Si è volutamente lasciato spazio alla lunga citazione per non perdere il timbro originario dell’appello della Dia. Le mafie richiedono un intervento culturale, in senso ampio, una ripulitura etica che disincrosti definitivamente l’immaginario collettivo dalla visione delle consorterie criminali quali istituti capaci di surrogare l’assistenza pubblica. E a quella culturale si aggiunge, quindi, la dimensione economica, ossia la libertà dal bisogno che, anche in altre parti del documento, viene evocata quale molla delle dinamiche di accreditamento dei boss presso i cittadini.
Gli autori di queste pagine non possono di sicuro essere accusati di simpatie marxiste e non esprimono una visione di sovvertimento dei capisaldi dello Stato e delle sue istituzioni. Ma è chiaro che l’enorme ricchezza delle associazioni mafiose rappresenta un cavallo di Troia formidabile per raggiungere il consenso presso una cittadinanza esposta alle dinamiche incontrollate di un mercato del lavoro fuori dal controllo della politica. La quale ultima è chiamata in causa continuamente, perché, se è vero che la Dia deve fotografare una situazione anche dinamica, in chiave investigativa e attraverso gli strumenti concettuali del mondo professionale che le appartiene, e non ha il compito di avanzare rivendicazioni ideologiche o politiche, è anche vero che la realtà appare non troppo distante da quella vergata su quelle pagine.
Quale realtà? Quella di un ceto politico accomodato sul mantra dell’individualismo e del successo personale, da conseguire a qualsiasi costo, quella di una realtà economica che non appare improntata a un progetto di ampio respiro, fondata su alcuni presupposti ancora presenti nella carta costituzionale, ad esempio quelli della solidarietà, della collaborazione, della dignità delle condizioni lavorative. Forse non del tutto consapevolmente, i redattori del documento qui presentato richiamano, fra le righe, quella lotta di tutti contro tutti che trova nell’espressione homo homini lupus (l’uomo è un lupo per l’uomo) del filosofo seicentesco Thomas Hobbes il suo miglior compendio. Agli occhi degli uomini della Dia è necessario che le coscienze collettive acquisiscano definitamente il senso dell’elevata pericolosità del modello mafioso, che non dovrebbe più apparire come «potenziale ed accattivante modello di comportamento», ma dovrebbe, invece, essere considerato nella sua «esclusiva radice di ormai primitiva sopraffazione di taluni sugli altri».
Gli investigatori della Dia non possono, per ragioni istituzionali, compiere il passo successivo, ma possono farlo i lettori che decidono di scorrere quell’analisi. Il passo successivo è quello che porta verso una critica serrata al progetto politico italiano. Liberare le persone dal bisogno e le coscienze dal «puzzo del compromesso morale» – è la relazione che cita Paolo Borsellino – è compito complesso, ma ineludibile del ceto dirigente, compito enorme, con i ritardi da recuperare rispetto ad altre storie nazionali meno inquinate da un certo deficit civico e con una storia mafiosa meno lunga e persistente. Ma non c’è alternativa. Senza un radicale rinnovamento dei presupposti morali su cui si fonda la vita associata nel nostro Paese, non è vi è speranza, il piccolo agognerà al modello ambizioso del grande, sullo scenario comunitario del “si salvi chi può”.
Si è scelto di non evidenziare i passaggi, per così dire, tecnici, ossia quelli inerenti le caratteristiche precipue del fenomeno mafioso, che trovano posto, come si è detto, in oltre cinquecento pagine fitte di riferimenti dettagliati alle caratteristiche delle consorterie criminali nei paesi di origine e in quelli di più o meno recente insediamento, italiani o stranieri che siano. Tale scelta origina dalla necessità di rimarcare come un documento proprio dello Stato non manchi, pur con tutto il garbo istituzionale, di muoversi sul piano critico nei confronti dello Stato stesso. Quando si dice Stato, si fa riferimento non solo al ceto politico, a quello che, un tempo, si definiva il Paese legale, ma anche alla società civile in tutte le sue componenti. Perché, se il bisogno è un potente fattore di subordinazione alle cosche, lo è anche l’ambizione, la speculazione, l’avidità.
La relazione della Dia dà l’impressione di un urlo accorato, «non ce la facciamo, non possiamo farcela, da soli», che lo scrivente ritiene non esagerato né enfatico. Volendolo leggere al di là dei contenuti investigativi, lo si percepisce – che questa sia o meno la realtà delle cose – come la richiesta di aiuto di una cittadella assediata o, se si preferisce, di persone che stanno tappando le falle di una diga con le dita. Quando i detrattori dei magistrati super-star lamentano l’esuberante esposizione mediatica di questi ultimi, provino a pensare a quanto sia difficile svuotare il mare con un cucchiaino.
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