Le altre verità di Mario Mori e di Giuseppe De Donno

Nell’ottica di Mori e De Donno, sono i magistrati ad aver sbagliato il tiro, fiaccando lo slancio investigativo dei Ros e ostracizzando filoni d’inchiesta di grande rilievo.
Mettersi al centro della storia italiana degli ultimi decenni del Novecento e provare a vedere e ad ascoltare quanto accadde – diciamo dall’omicidio Moro alle stragi del ’92-’93 – è davvero un esercizio complicato. Sul palcoscenico e sotto lo sguardo severo e silenzioso della pregiudiziale anticomunista, passeggiano e agiscono, stando ad alcuni analisti, servizi segreti e massoneria, mafie ed eversione neo-fascista, terrorismo rosso e Cia, ognuno con interessi propri, che talvolta convergono e, a volte, divergono, ma tutte hanno una cosa ben chiara in mente: sicilianamente parlando, “fare scarmazzo”. Fare baccano, disordine, caos, ingenerare timore, terrore nell’opinione pubblica, indebolire la democrazia, ostacolare il processo di attuazione della Costituzione, resettare le conquiste degli anni Settanta, per poi provvedere a costituire una novella Repubblica più placidamente accomodata su equilibri cari alle forze conservatrici o reazionarie e graditi agli amici atlantisti.
Altri commentatori, negano il quadro appena prospettato. Praticano, fra le altre, la tecnica della minimizzazione o, ancora meglio, della cancellazione di possibili legami fra gli attori su indicati: nessun intreccio tra mafia e politica, i servizi segreti non hanno conosciuto deviazioni e men che meno sono stati allettati da relazioni con le mafie, nessuna mano unitaria, nessun potere occulto, ogni omicidio eccellente è auto-conclusivo, non c’entra nulla con altre morti precedenti o successive, Moro e Impastato – morti lo stesso giorno, il 9 maggio del 1978 – sono separati dalla geografia e dai rispettivi uccisori (i brigatisti e i mafiosi), Pio La Torre e dalla Chiesa, separati da alcuni mesi nella morte, sono episodi slegati e non parliamo di coinvolgimenti extra-mafiosi nelle morti di Falcone e Borsellino, meno che mai nelle stragi del 1993.
In tal senso, se lasciassimo parlare uno che la Sicilia la conosceva, Vito Ciancimino, se lasciassimo parlare il suo “memoriale”, scritto tra il 1985-86 (quando era in soggiorno obbligato a Rotello, in provincia di Campobasso) e il 2002, anno della sua morte, se lo ascoltassimo, troveremmo, appunto, conferma di come si possa raccontare la nostra storia nazionale con accenti profondamente diversi da quelli utilizzati dai suoi detrattori o avversari politici. Nel testo che titola “Le mafie”, l’ex sindaco e assessore di Palermo, autore del “sacco” della città e che Buscetta, citando Pippo Calò, disse essere «nelle mani di Totò Riina», dona una memoria di quegli anni, una memoria chiaramente e strenaumente difensiva. Tra le oltre duecento pagine, tra le tante vicende puntualizzate, vi è quella di Pio La Torre. Un nemico politico, certo, ma con il quale ebbe sul piano personale «rapporti molto limitati e improntati sempre a grande cordialità», tanto che La Torre, a suo dire, gli chiese un “favore”, ossia che lui, Ciancimino, raccomandasse un suo parente.
Così racconta Ciancimino, preparando, con un primo velenoso screditamento del suo interlocutore, la strada a una riflessione sulla morte del dirigente comunista. Perché intento del narratore è precisare quali furono le cause della morte di La Torre, ben distanti, ragiona, da quelle immaginate dai magistrati. Perché la mafia avrebbe dovuto uccidere il segretario regionale comunista per via della sua opposizione dell’installazione dei missili a Comiso? Intanto, l’opposizione in sé era inutile, riflette Ciancimino, inutile perché già decisa dal governo e, soprattutto, perché era sterile: «non sfuggiva a nessuno neppure ai gonzi che le sterili manifestazioni di La Torre, peraltro poco seguite, sarebbero rimaste come rimasero “vox clamantis in deserto”, detto in latino, mentre detto in italiano, non importava un cazzo a nessuno. Eppure simili idiozie trovano ingresso in un processo».
Lasciando da parte il commento menzognero sullo scarso seguito dell’azione di La Torre in merito a Comiso, appare interessante come il memorialista proceda sino alla questione dell’elaborazione di quella legge – Rognoni-La Torre – che sarà approvata dopo la morte del generale dalla Chiesa, nel settembre 1982, e che poneva fine al silenzio dello Stato sul reato di associazione per delinquere di stampo mafioso, oltre che orientarsi verso i patrimoni economici dei mafiosi. Qui, Ciancimino opera, a suo dire, un brillante capovolgimento logico delle ipotesi giudiziarie. «Noi siamo convinti che proprio questa legge – da sola – vale ad escludere ogni responsabilità della mafia nell’omicidio di Pio La Torre». Perché? Per l’ovvia ragione in base alla quale, riflette il causidico Ciancimino, solo un imbecille poteva pensare che «l’uccisione di La Torre avrebbe potuto bloccare la legge da lui presentata. […] Non è molto più logico pensare che, anzi, l’efferato assassinio di La Torre avrebbe finito proprio per accelerare l’iter parlamentare della legge»?
Logico. E, con eguale maliziosa e velenosa ironia, l’arguto narratore prosegue osservando come i mafiosi, «proprio perché erano interessati a questa legge che li avrebbe spogliati dei loro patrimoni, cosa fanno? Semplice. Il 3 settembre dello stesso anno 1982 ammazzano il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e raggiungono l’obiettivo prefissato». Quindi? Quindi, tanto La Torre quanto dalla Chiesa non furono uccisi dalla mafia, che nessun interesse aveva per un politico, nella versione del memorialista, senza grosso seguito e per un prefetto «già liquidato» o, peggio, per affrettare una legge che «le sta facendo il culo quanto piazza San Pietro», ma da chi avrebbe tratto vantaggi dalla legge anti-mafia, da chi avrebbe potuto utilizzarla come clava contro i propri avversari politici. Non lo scrive questo, Ciancimino, ma non è difficile uscire dall’implicito. I comunisti.
Ci si ferma qui con le considerazioni di Ciancimino, nei confronti delle quali, almeno da parte di chi scrive, le riserve sono più che infinite. Che il memorialista assolva l’associazione mafiosa della quale, secondo una sentenza definitiva del 1992, ha fatto parte, non stupisce nessuno. Ciò che pare interessante e più attuale è che quel memoriale sia stato tirato in ballo, con diverse intenzioni, da due uomini dello Stato, due alti ufficiali dell’Arma, Mario Mori e Giuseppe De Donno. Qualche giorno fa, la notizia è stata riportata su “Il Fatto quotidiano” da Davide Mattiello, deputato PD, presidente di Articolo21 Piemonte, già membro e poi consulente della Commissione parlamentare antimafia. L’editorialista faceva riferimento all’audizione presso questa Commissione dei due ufficiali in quiescenza, il 16 aprile scorso, nel corso della quale Mori e De Donno avrebbero raccontato la loro verità su quegli anni, in particolare sulla strage di via D’Amelio, da loro ricondotta al rapporto mafia-appalti, e sulla magistratura palermitana del tempo, inadeguata al compito di indagare su quel periodo nero e, in parte, «collusa con il sistema mafia-appalti».
Nel corso dell’audizione, i due ufficiali in quiescenza dei Ros avrebbero in più occasioni richiamato il memoriale di Ciancimino, precisando che, pur non da prendersi per oro colato, avrebbe potuto costituire un buono spunto investigativo per ragionare, appunto, sulla stagione stragista. Spunto, di fatto, rigettato da Violante (al tempo, presidente della Commissione parlamentare antimafia), da Caselli e da quanti, colpevolmente, non avrebbero fatto tesoro delle riflessioni del memorialista. In sostanza, secondo Mattiello, Mori e De Donno, coinvolti nel processo sulla “trattativa” proprio per i loro abboccamenti con Vito Ciancimino, avrebbero usato quest’ultimo per vendicarsi della magistratura palermitana. L’autore dell’articolo ipotizza che, partendo dalle considerazioni di Ciancimino sull’uccisione di La Torre e dalla Chiesa, si potrebbe giungere, oltre le intenzioni dei due ufficiali dell’Arma, a un inedito «colpo di scena […]: la strage di via d’Amelio? Decisa da chi voleva il 41bis contenuto nel DL 306, che stava languendo in Parlamento rischiando di decadere, senza conversione. Chi? Ai posti l’ardua sentenza».
Lo si è detto all’inizio, il quadro è oscurato, la lettura e rilettura di quanto avvenuto in quei decenni è complicata dalle voci, dai cori opposti. Non si sa se prenderà forma l’ipotesi di Mattiello, è certo, però, che Mori e De Donno hanno fornito la loro verità, non solo in Commissione antimafia. Nel corso del 2024, i due ufficiali hanno pubblicato un volume: “L’altra verità. Giovanni Falcone, Vito Ciancimino e la lotta alla «vera mafia» che non si è ancora combattuta” (edizioni Piemme). Volume presentato, tre mesi fa, nella Sala Koch del Senato, alla presenza, fra gli altri, di Maurizio Gasparri, organizzatore dell’incontro, e di Michele Santoro e Antonio Ingroia, oltre che ovviamente dei due autori (la registrazione video dell’incontro è reperibile in Rete su radioradicale.it: https://www.radioradicale.it/scheda/751533/presentazione-del-libro-di-mario-mori-e-giuseppe-de-donno-laltra-verita-giovanni)
Si tralascia l’analisi di questo dibattito, se non per sottolinearne una delle chiavi di lettura. Il presidente della Fondazione “Italia Protagonista” – di cui Gasparri è presidente onorario –, Renato Manzini, introducendo il volume, dice che resta dubbioso quando sente parlare di trattativa Stato-mafia: «ma scusate, ma con Buscetta e con Spatuzza, non è stata fatta una trattativa, non gli sono stati fatti dei riconoscimenti perché questi si sono pentiti? Lo Stato non fa delle trattative quotidianamente, ma che sono finalizzate alla salvaguardia dello Stato»? Domanda interessante, che tralascia, però, di sottolineare come Buscetta e Spatuzza si siano “pentiti”, a differenza di Ciancimino e degli altri protagonisti mafiosi della cosiddetta trattativa. Il che marca un distinguo tutt’altro che irrilevante, ma che, evidentemente, agli occhi di chi vuole strappare le stragi degli anni Novanta e gli omicidi del decennio precedente dall’alveo del filone mafia-politica (senza contare altri addentellati), pare utile per correggere una prospettiva inaccettabile. La ricerca di nuovi equilibri politici da parte delle mafie, dopo il crollo del muro di Berlino e lo sfrangiamento del ceto dirigente italiano dei primi anni Novanta, la morte di Lima, Falcone, Borsellino, e poi le stragi di Milano, Roma, Firenze non sarebbero da intendersi in una prospettiva unitaria, ma come episodi a sé stanti, singole vicende, magari legate al pur importante filone mafia-appalti, come reclamano Mori e De Donno, riferendosi a via d’Amelio. Un filone abbandonato troppo presto e incautamente dai magistrati, rei ancora – è De Donno a suggerirlo durante la presentazione del libro in Senato – di non aver saggiamente coccolato Ciancimino per trarre adeguato profitto dalla sua conoscenza del mondo mafioso.
Insomma, nell’ottica di Mori e De Donno, sono i magistrati ad aver sbagliato il tiro, fiaccando lo slancio investigativo dei Ros e ostracizzando filoni d’inchiesta di grande rilievo. Ovviamente, si polverizza in tal modo la tesi di fondo di una parte della magistratura, del mondo politico, dei giornalisti di inchiesta e di altri analisti del fenomeno in base alla quale le stragi sarebbero di natura essenzialmente politica, volte a operare un cambiamento nel Paese, ormai languendo la prima Repubblica ed essendo venuti meno, in termini fiduciari per i mafiosi, i referenti tradizionali di Cosa nostra, ossia gli interlocutori democristiani.
Quanto all’uccisione di Pio La Torre, così come narrata dal memorialista Ciancimino, chi scrive ha posto la domanda a Vito Lo Monaco, presidente emerito del Centro studi “Pio La Torre”, amico e collaboratore del dirigente comunista assassinato nel 1982. Dunque, sono stati i comunisti a volere la morte di Pio La Torre, dott. Lo Monaco? La sua risposta: «è un classico del depistaggio nei delitti di mafia – questioni di fimmina o sciarra interna. Rocco Chinnici, da me interpellato sulla pista interna, che per correttezza lui aveva esplorato, mi ha confermato la sua falsità e la sua strumentalità. La mafia, come il terrorismo, fu la mano armata di chi non voleva i comunisti nell’area di governo. Si spiegano così gli assassini di Moro, Mattarella, Reina. Nell’assassinio di Pio fu sospettata, ma non indagata, anche la presenza dei servizi segreti italiani, americani e sovietici per il “no” ai missili Cruise e SS20. Che col governo di centro-destra vengano riproposte queste tesi non sorprende».
No, non sorprende. Del resto, non sorprende quasi più nulla nella lunga tragedia politica della nostra storia repubblicana, abituati come siamo ad attendere una qualche verità, anche senza la quale un dato appare piuttosto indiscutibile: siamo rimasti un Paese dal parziale sviluppo dei principi liberal-democratici e dei diritti sociali riconosciuti dalla nostra Costituzione. A soffocare la piena attuazione di questi principi e di questi diritti, le mafie hanno largamente concorso in coabitazione con altri poteri. E la lunga storia delle consorterie criminali testimonia, a giudizio di chi scrive, che quella coabitazione ha funzionato e funziona tuttora.
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