La vita e le regole
Un estratto da La vita e le regole di Stefano Rodotà, Feltrinelli
Un estratto da La vita e le regole di Stefano Rodotà, Feltrinelli
Dal cap. 9 La fine
[…] Il tema del morire si precisa e si scompone. Vivere e morire si avvicinano fino a sovrapporsi. Morire con dignità e morire bene non sono semplici formule descrittive, ma situazioni esistenziali sempre più declinate in termini di diritti della persona. Quando vennero pubblicate le foto di Pio XII morente, con il volto deformato da strumenti che ne prolungavano l’esistenza, si gridò allo scandalo non solo perché quelle foto erano state scattate e vendute dall’Archiatra pontificio violando ogni regola di deontologia professionale. Si vide in esse un attentato alla dignità del morente, che era proprio quel pontefice che, in un discorso del 1957 ai medici cattolici, aveva messo in guardia contro l’accanimento terapeutico. Quando si videro le immagini del maresciallo Tito e del generalissimo Franco che li rappresentavano neppure come morenti, ma come semplici appendici di macchine per la sopravvivenza, il senso di perdita della dignità fu ancora più netto. La sopravvivenza non aveva più nulla a che vedere con la vita. Era ormai parte di un nudo gioco di potere, che esigeva un mantenimento in vita del leader politico fino a quando non fossero stati risolti i conflitti intorno alla sua successione. La dignità del morire rimanda così a dinamiche sociali sempre più intricate, e rivela una ormai ineliminabile radice tecnologica. L’artificio accompagna il morire e, irresistibilmente, pone la questione del perché l’artificio, tenacemente difeso di fronte alla morte, dunque per mantenere la vita, viene poi respinto quando vuol rendere possibile la nascita, dunque il dare la vita. Qual è il criterio, il principio, che può reggere la distinzione? L’artificio accompagna la vita dell’umanità e il modo in cui questa ha guardato ai corpi delle persone, da sempre e sempre più intensamente presidiati da strumenti che consentivano l’esercizio stesso di funzioni essenziali, pregiudicate da incidenti o malattie e che protesi varie cercavano di recuperare. Le rivoluzioni scientifiche e tecnologiche degli ultimi tempi ne hanno dilatato la portata, con una intensità che ne ha modificato il significato e posto il problema dell’accettabilità etica, sociale, giuridica della tecnica. Quando si discute di fine della vita, allora, e ci si interroga intorno alla possibilità di intervenire sui tempi e i modi di essa, questo non accade perché una deriva culturale ha impoverito il significato dell’esistenza, ma perché la realtà ci impone di considerare e regolare situazioni che, ancora ieri, sarebbero state risolte dalla natura e dalle sue “leggi”. Questo non vuol dire, ovviamente, svalutare il significato delle innovazioni e non giovarsene fin quando è possibile. Significa, invece, non registrare passivamente il nuovo dato di realtà, quasi che il semplice fatto della sopravvivenza precluda ogni valutazione delle situazioni concrete. Una valutazione che, ormai, deve avere i suoi punti di riferimento nei principi di dignità, eguaglianza, autonomia, senza cedere alla tentazione di riferirsi soltanto a una nozione di vita ridotta alla sua misura biologica. Il punto d’avvio della lunga discussione di questi anni è stato rappresentato dal rifiuto dell’“accanimento terapeutico”, tuttavia considerato più come regola deontologica per il terapeuta che come espressione di un diritto della persona. Solo quando si è attribuita rilevanza alla volontà dell’interessato, escludendo ogni tipo di intervento non legittimato dal suo preventivo consenso libero e informato, quel riferimento per un verso ha trovato un più solido fondamento, dal momento che l’intera vicenda della cura, pure quella “accanita”, rientrava nella sua piena disponibilità; e, per un altro, ha perduto una parte del suo peso. Infatti, nel momento in cui si ritiene in generale legittimo qualsiasi rifiuto di cure, senza che per ciò sia richiesta alcuna specifica motivazione, il caso dell’accanimento terapeutico rappresenta solo una tra le tante situazioni in cui la persona può esigere il rispetto della dignità del vivere e del morire, pur mantenendo comunque il valore di un limite invalicabile nell’assenza o nella impossibilità di una decisione dell’interessato. Divenuto “regola della vita”, il consenso della persona consente una disponibilità di sé che copre l’intero arco dell’esistenza e diviene così anche la regola fondamentale del morire. Lo dicono con chiarezza norme contenute in testi diversi. Nell’articolo 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea si stabilisce che, “nell’ambito della medicina e della biologia”, dev’essere in particolare rispettato “il consenso libero e informato della persona interessata, secondo le modalità definite dalla legge”. Con altrettanta nettezza, e con maggiore specificazione, il tema è affrontato dalla Convenzione sui diritti dell’uomo e la biomedicina, che nell’articolo 5 pone la seguente “regola generale” (proprio così è intitolato l’articolo): “È possibile effettuare un intervento, nel campo sanitario, solo previo il consenso libero e consapevole della persona interessata la quale riceve, innanzitutto, una informazione adeguata sia rispetto al fine e alla natura dell’intervento che alle conseguenze e ai rischi. La persona interessata può, in ogni momento, ritirare liberamente il suo consenso”. E nell’articolo 9, sotto il titolo Desideri precedentemente espressi, si prevede che il consenso possa spiegare i suoi effetti anche per il futuro, per situazioni nelle quali l’interessato non si trovi nella condizione di manifestarlo validamente: “Verranno presi in considerazione i desideri precedentemente espressi, in relazione a un intervento medico, da un paziente che, al momento dell’intervento, non sia in grado di esprimere la propria volontà”. Questa linea è esplicitamente confermata da molti articoli del Codice di deontologia medica del 1999. Qui si ribadisce che “il medico non deve intraprendere attività diagnostica e/o terapeutica senza l’acquisizione del consenso informato del paziente” e, in caso di rifiuto, “deve desistere dai conseguenti atti diagnostici e/o curativi” (articolo 32); che “il medico deve astenersi dall’ostinazione in trattamenti da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per l’assistito e/o un miglioramento della qualità della vita” (articolo 14) e “in caso di malattie a prognosi sicuramente infausta o pervenute alla fase terminale, il medico deve limitare la sua opera all’assistenza morale e alla terapia atta a risparmiare inutile sofferenza” (articolo 37; e anche articolo 15); che “il medico, se il paziente non è in grado di esprimere la propria volontà in caso di grave pericolo di vita, non può non tenere conto delle eventuali manifestazioni di volontà precedentemente espresse dallo stesso” (articolo 34). Bastano queste indicazioni per avviare una scomposizione della vicenda del morire, e delle regole che l’accompagnano. Siamo di fronte a tendenze ormai univoche, che si sviluppano con variazioni e resistenze determinate dalla diversità dei contesti culturali, ma che vanno progressivamente consolidandosi in tutti gli ambienti. La prima tra queste regole, relativa al consenso informato, copre l’intera vita; permette il suo governo da parte dell’interessato; garantisce il diritto di uscita dalle terapie, con la revoca del consenso, con il rifiuto delle cure; fissa così anche i limiti di ogni possibile intervento esterno, a cominciare da quello del terapeuta. La disponibilità della vita trascina con sé la disponibilità del morire. La seconda regola introduce un principio di proporzionalità tra intervento medico, beneficio del paziente, qualità della vita. Il perimetro della disciplina si fa più ristretto, perché più mirato, ma anche in questo caso si tratta di una regola generale, applicabile a qualsiasi momento della vita. Fermo restando che anche quest’area rimane presidiata dalla volontà dell’interessato, non è comunque consentito un intervento medico eccessivo, ostinato, che, invece di alleviare la sofferenza, fa sì che il paziente ne rimanga prigioniero. L’inviolabile dignità della persona presidia così la qualità della vita. Che, a sua volta, può essere salvaguardata anche attraverso pratiche mediche come le cure palliative che, allontanando o alleviando il dolore, tuttavia possono abbreviare la durata della vita. Si istituisce così un rapporto tra tempo e qualità, tra tempo e dignità, dove la categoria della semplice durata, dunque del tempo puramente cronologico, cede di fronte a un’altra misura della vita. La terza regola proietta la decisione nel futuro. Si chiamino “direttive anticipate”, “desideri precedentemente espressi”, “testamenti biologici o di vita”, si tratta sempre di decisioni che regolano situazioni nelle quali la persona potrebbe trovarsi e che, nell’eventualità di non essere capace d’intendere e di volere e quindi di non poter esprimere un valido consenso, vuole comunque definire in maniera conforme alle proprie convinzioni, alle credenze, ai desideri. Sono, in genere, documenti semplici, con i quali si possono escludere specifiche terapie (come fanno, per la trasfusione di sangue, i Testimoni di Geova) o dare disposizioni generali di rifiuto di ogni inutile terapia di sopravvivenza e di accettazione delle terapie antidolore anche se procurano un accorciarsi della vita. Si tende ormai a stabilire che si debba trattare di documenti in qualche modo formalizzati, affidati a una forma scritta e le cui disposizioni sono sempre revocabili. Ma non si esclude la possibilità di desumere la volontà della persona anche da dichiarazioni o comportamenti tenuti in passato. Quali che siano le modalità, a ogni modo, non sembra opportuno attribuire al medico la facoltà di non seguire le indicazioni date dalla persona interessata. Da una parte, questa discrezionalità appare in contrasto con quanto stabilito dalla Convenzione sulla biomedicina e dallo stesso Codice di deontologia medica. Dall’altra, il rifiuto del medico dovrebbe essere motivato, aprirebbe la strada a contestazioni e così trasferirebbe sul giudice la decisione sulla vita. Queste regole del vivere e del morire, infatti, hanno la loro radice nel rispetto dell’autonomia della persona. Nascono come regole di libertà e, quindi, devono essere tenute al riparo dai rischi e dalle tentazioni di tornare ad attribuire a soggetti esterni il potere di impadronirsi del corpo e del suo destino, senza tuttavia precludere le possibilità di una benefica “alleanza terapeutica” tra medico e paziente. Vi è una coerenza, e una discendenza, di queste regole rispetto al radicarsi sempre più profondo della consapevolezza del diritto alla salute come diritto fondamentale della persona, secondo una linea espressa con nettezza dall’articolo 32 della Costituzione italiana. E, insieme a questa, il riconoscimento della salute non come semplice assenza di malattia, ma come stato di completo benessere fisico, psichico e sociale, secondo la definizione che ne dà l’Organizzazione mondiale della sanità. Un diritto che riguarda la persona in quanto tale, in qualsiasi momento della sua vita, dunque un elemento costitutivo della sua cittadinanza, tanto che il Codice di deontologia medica ha preso atto di questa situazione e, intelligentemente, ha intitolato il suo titolo III Rapporti con i cittadini. Si esce così dall’eccezionalità della condizione di malato o di paziente e si entra nella vita, di cui si deve poter mantenere il controllo fino ai confini dell’esistenza. […] [pp. 249-253]
http://castor.feltrinelli.it/FattiLibriInterna?id_fatto=7393
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