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La "trattativa" non costituisce reato

Non ci sono ancora le motivazioni della sentenza, che andranno depositati dalla Corte entro 90 giorni, ma, relativamente agli ex ufficiali del Ros, il verdetto della Corte d’appello palermitana li assolve «perché il fatto non costituisce reato».

di francoplat - giovedì 23 settembre 2021 - 2182 letture

Esultano gli avvocati difensori, esultano alcune frange politiche, perché la sentenza odierna della Corte d’Appello di Palermo, presieduta dal giudice Angelo Pellino, sulla “trattativa Stato-mafia” ribalta quella di primo grado. Assolti dall’accusa di minaccia a un Corpo politico dello Stato gli ex ufficiali del Ros Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno, assolto pure l’ex senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri. Prescritte, come già in primo grado, invece le accuse al pentito Giovanni Brusca e pena ridotta di un anno al boss Leoluca Bagarella; confermata la condanna del capomafia Nino Cinà.

Dunque, dopo tre anni e mezzo, una nuova sentenza dichiara infondate le pene, severe, comminate in primo grado agli imputati non mafiosi. All’epoca, i giudici avevano condannato a dodici anni di carcere Mori e Subranni e una pena della stessa entità era stata riservata a Dell’Utri e Cinà, il postino del “papello” di Riina; otto anni erano invece stati comminati a De Donno, ventotto a Bagarella. Non ci sono ancora le motivazioni della sentenza, che andranno depositati dalla Corte entro 90 giorni, ma, relativamente agli ex ufficiali del Ros, il verdetto della Corte d’appello palermitana li assolve «perché il fatto non costituisce reato». Ossia, un fatto c’è, aver trattato con i vertici di Cosa nostra, ma non sarebbe stato compiuto con dolo, con volontà o intenzioni ascrivibili a un reato. Che il fatto ci sia lo dimostra la condanna di Cinà, come si è detto il latore delle richieste d’ u curtu allo Stato per far cessare la stagione delle stragi, all’epoca dei governi Amato e Ciampi, tra il 1992 e il 1993. Quanto a Dell’Utri, sarebbe estraneo al ruolo di messaggero delle minacce stragiste al governo Berlusconi insediatosi nel 1994; lui non avrebbe «commesso il fatto». In questo caso, a giudizio della Corte d’appello, la minaccia sarebbe stata solo tentata e non sarebbe giunta all’esecutivo, laddove, invece, le richieste mafiose, gli anni precedenti, furono veicolate dai carabinieri ai governi allora in carica.

È difficile e azzardato commentare questa sentenza a caldo. Non ci sono elementi sufficienti per poter valutare la forza argomentativa dell’impianto giudiziario che ha condotto al ribaltamento della prospettiva del primo grado. Si possono annotare le prime, preventivabili grida di giubilo: gli avvocati difensori degli ex ufficiali del Ros, quelle del difensore di Dell’Utri, che parla di «una sentenza che ha ricostituito la correttezza del quadro probatorio», quelle di Matteo Salvini che vede nelle storture di questa vicenda la testimonianza più valida per muoversi nella direzione di una riforma della giustizia. Ed è preventivabile che altre grida di giubilo ci saranno e che la macchina del fango si muoverà contro chi, tra magistrati e commentatori a partire da Nino Di Matteo, aveva salutato come un fatto di civiltà e di parziale ripristino di una facciata democratica nel nostro Paese la sentenza di primo grado.

In un processo, come ha ricordato il presidente della Corte d’appello Pellini, non è certo in gioco la storia, non è lei a dover essere giudicata, così come ha aggiunto che «gli imputati non sono archetipi socio-criminologici, ma persone in carne e ossa». Ha ragione il giudice, ha perfettamente ragione. E chi scrive accoglie la prospettiva parziale e ristretta alla natura di un processo descritta da Pellino. Ma proprio perché un processo, in un senso o nell’altro, non giudica la storia, la vicenda della “trattativa” non può chiudersi, moralmente e culturalmente, su questa sentenza. Perché la sentenza è il punto di approdo e di interpretazione giuridica di fatti che, in questi venti anni, sono stati portati alla luce grazie al coraggio e al dovere civico di alcuni magistrati e di pochi studiosi e giornalisti che hanno scelto di continuare a cercare le verità sotto il tappeto. Sono fatti che hanno visto coinvolti esponenti importanti dello Stato, sono fatti che sono stati omessi, negati, dichiarati a mezza bocca.

Sono fatti che partono dalla “trattativa” e si allargano a inquietanti vicende di cronaca stragista del nostro Paese e alla morte sospetta di cittadini comuni (da Attilio Manca a Umberto Mormile, per citare due nomi fra gli altri). Eppure, da domani, il vessillo della giustizia ripristinata tornerà nelle manone larghe di quanti erano disturbati dal fatto di dormire i loro sonni in una repubblica monca, su cui aleggia da decenni il puzzo cadaverico della disonestà politico-istituzionale.


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