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La soluzione di Edgardo

di Victor Kusak - domenica 4 agosto 2019 - 1502 letture

Dovete sapere che il mio amico Edgardo ero uno davvero strano. Non sono mai riuscito a capire se era uno molto intelligente o decisamente uno fuori di testa. Non era pericoloso, almeno non per gli chi gli stava attorno - e almeno questa era già una gran cosa. Però strano lo era. Ci sono quelli che nascono normali, quelli che nascono pericolosi, e quelli che nascono strani. Edgardo il mio amico era uno di quelli strani. Una volta s’era messo in testa di effettuare un esperimento sociologico. Nel quartiere della città in cui vivevamo nessuno di noi portava più cappelli. Era una cosa che non si faceva più da un paio di generazioni. Ora la moda era portare i berretti con la visiera, come si vedeva dai film americani che si vedevano in televisione. Oppure le berritte come ci si immaginava portassero alcuni antenati delle nostre terre in antico. Chi voleva stare al passo con i tempi si uniformava con i berretti con la visiera; chi voleva rivendica una appartenenza nel passato si metteva la berritta; i più non si mettevano nulla. Edgardo s’era messo il cappello, quello a falde dei primi del Novecento. “Vedrai”, mi aveva detto: “Per imitazione, vedendomi con questo cappello, molti torneranno a usare il cappello”. E mi diceva che con la luce forte delle nostre terre avere il cappello di quel tipo, oltre a proteggere dall’aria umida e dai piccoli sbrizzi serviva a riparare gli occhi dalla luce. E infatti lui non portava occhiali scuri quando si metteva il cappello. Dunque il cappello aveva notevoli vantaggi quotidiani. Non mi sembra che furono in molti a imitarlo in quella nuova moda. Per cui lui rimase strano.

E dopo un po’ di tempo smise di portare il cappello.

Perché lui non faceva le cose strane per sempre. Passava da una cosa strana all’altra, semplicemente. E la cosa strana successiva faceva dimenticare quella precedente, e così via.

L’altro giorno lo incontro per strada. Cioè vedo una strana figura che cammina, una specie di pupazzetto goffo a metà tra quello della Michelin e quello del film, lo Stay Puft Marshmallow Man di Ghostbuster.

Stay_Puft_Marshmallow_Man

Non faccio in tempo a dire: “Ma che cazz*”, che riconosco Edgardo. Lo chiamo, grido per farmi sentire. Lui si volta. È proprio lui.

“Dove vai conciato così!”, gli chiedo.

E lui mi spiega.

Ha appena scoperto il Segreto-di-tutto-quanto. Proprio così, dice. “Cosa sarebbe questo ‘Segreto-di-tutto-quanto’”, gli chiedo, sicuro di sentire qualcosa di strano. E difatti.

Me lo spiega, e io lo sto a sentire. Dice un sacco di cose complicate. Gran parte di quello che ha detto non l’ho capito, un’altra parte l’ho dimenticato, il resto non sono sicuro neppure che abbia un senso. Quello che sono riuscito a capire è questo. C’è questa cosa, dice, che lui chiama il Tutto. In questo Tutto nulla si crea e nulla si distrugge. Però tutto passa, fluisce, va da una parte all’altra, non sta mai fermo un attimo. In questo Tutto ci sono gli universi, che sono infiniti. Ogni universo nasce da quello che noi pensiamo sia un “big bang” mentre in realtà è solo un buco.

“Ho intuito tutto quanto guardando lo scarico del bagno”, mi disse, orgoglioso di sé.

Insomma, alla base c’è il buco nero. Tutto quello che finisce nel buco nero - la materia e l’energia di un universo -, forma in realtà un altro universo. Ogni universo contiene un’infinità di buchi neri, che producono un’infinità di universi e così via.

“Sì, ma a che serve tutto questo?”, gli chiesi.

Lui disse che faceva parte dell’astuzia del Tutto. Era il Tutto che in questo modo aveva creato Dio, e questo Dio era diventato Tutto. Io non capivo. Lui mi spiegò: nell’infinita combinazione e ricombinazione di materia, spazio, tempo eccetera, nel passaggio continuo da un universo all’altro come il liquido da un bicchiere all’altro, nelle infinite situazioni e combinazioni possibili, erano nate forme intelligenti di tutti i tipi nella casualità assoluta della ricombinazione. Le forme intelligenti aveva cercato di trovare il modo di resistere, a durare prima all’interno di un singolo universo, poi nel passaggio da un universo all’altro e così via. Naturalmente esistevano infiniti universi in cui si formavano infinite forme intelligenti, e infiniti universi in cui si formavano altre forme di vita o non se ne formavano affatto. In ogni caso c’erano quelle che riuscivano a trovare il modo di trasmettere se stesse attraverso il sistema degli scarichi universali e infiniti. Attraverso i buchi neri. Finché, nella casualità e nella determinazione infinita, queste forme diventavano esse stesso Dio. Ed esistevano Dèi che si univano in maniera infinita al Dio iniziale, e Dèi infiniti che differivano in maniera infinita gli uni dagli altri che si aggiungevano agli Dèi iniziali - in maniera infinita.

“Per questo Dio è uno ed è infinito allo stesso tempo”, mi disse. E io pensavo a quella storiella che raccontavano a scuola del gatto che esisteva e non esisteva nello stesso tempo, e mi venne da ridacchiare.

“Scusa ma adesso ho fretta ti debbo salutare”, mi disse. E io:

“Hai fretta? Ma dove vai conciato così?”.

“Vado a prendere un’astronave. Mi introduco nel buco nero che abbiamo al centro della nostra galassia e vado a trovare Dio”. Sembrava convinto di quello che diceva. Gli feci cenno con la mano e lui si avviò per una strada laterale.

Poco dopo si avvicinarono a me tre persone un po’ strane. Avevano il viso verdognolo e puzzavano di pesce. Mi dissero:

“Per caso ha visto uno vestito da astronauta? Ha visto dove andava?”. Avevano un accento straniero, non erano sicuramente delle nostre parti. Io, stupito, gli indicai una direzione a caso, e quelli andarono nella direzione che gli avevo indicata. Sparirono. Due secondi dopo ho visto nel cielo una strana luce lampeggiare per pochi secondi e sparire.

Io il mio amico Edgardo, quello strano, non l’ho più visto. Se lo vedete, mi raccomando, mandategli i miei più strani saluti.



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