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La sedia da spostare

Giorgio Gaber sapeva leggere la società. E ce la descriveva, tra una melodia e un’ironia recitata. Attualissimo questo breve monologo (segnalato da Orazio Leotta), che ci aiuta a comprendere la politica italiana.

di Piero Buscemi - domenica 11 marzo 2012 - 4313 letture

Certi artisti li ricordi in momenti impensabili. Imponderabili. Imprevisti. Ti ritornano alla mente, quando meno te lo aspetti. Alcune volte ti vengono suggeriti, involontariamente, mentre si sta discutendo di tutt’altro. Proprio mentre cerchi una risposta logica, se la si può ancora trovare, a quelle scelte obbligate, obbligate dagli altri, che ricadono sulla vita di tutti, anche di chi, quelle soluzioni inevitabili e necessarie, non le condivide affatto.

Ed ecco che il Signor G ti risveglia da un torpore di confusione e disillusione, e torna a farti visita con un motivetto, che cantavi distrattamente, non ricordando la prima volta che lo hai ascoltato. O quella battuta, azzeccata, efficace, incalzante e veritiera, che hai utilizzato per rafforzare le tue congetture che, troppo spesso, scivolano dagli specchi di una realtà che non sai più spiegarti.

Giorgio Gaber ce l’ha raccontata la sua personale storia d’Italia. Una storia che è di tutti e che ci illudiamo di comprendere a fondo, dall’alto della nostra esperienza vissuta e da una arrogante pretesa di saperla giudicare. Lo andavamo ad ascoltare per cercare conferme. Per trovare un motivo che ci lasciasse, almeno questo, lo spazio per poterci ridere ancora.

Forse tornavamo a casa, al ritorno dei suoi spettacoli, con una dose maggiore di amarezza. Una risata a martellarci la testa e la consapevolezza di stringere tra le mani una verità scomoda, che l’artista si era solo limitato a raccontarci. E provavamo, inutilmente, ad occultarla quella verità. Tra le dita un suo cd, indecisi se ubriacarci ancora dai suoi monologhi.

E’ che, questa razza di artista ha la responsabilità di lasciarci un’eredità, forse neanche meritata. La stessa responsabilità che non abbiamo ancora il coraggio di prenderci, osservando un mondo che ci appartiene. Ascoltando, criticando, giudicando, ma anche condividendo chi ha preso la nostra vita e l’ha sciolta nel destino di una società, che non vuole più vedere cassaintegrati con le mani unte, sognatori a farsi sbattere giù da un traliccio dall’indifferenza di un altro politico, che continua a dirci che "lo fa per il nostro bene".

Che non vuole credere che oggi, dopo quasi un decennio dalla scomparsa di Gaber, niente è realmente cambiato. Quei volti, puliti, eccessivamente educati, a volte in lacrime, appartengono agli stessi politici che li hanno recentemente preceduti, ma sono anche uguali a quelli di una classe dirigente che il Signor G ha saputo ridicolizzare, senza distinzione, da destra a sinistra, consegnandoci l’eredità di provare a togliere quella comoda "sedia" dai loro flaccidi deretani. Perché il potere è un’invenzione della società e come tale, solo la società che può decidere di distruggerlo per sempre.


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