La poesia della settimana: Henry Miller

Lo scrittore americano esule volontario a Parigi, contro qualsiasi falso perbenismo, preconfezionato.

di Piero Buscemi - martedì 25 marzo 2014 - 3844 letture

Primavera Nera

E ora prendo commiato da voi
 e dalla vostra sacra cittadella.
 Vado a sedermi sulla cima di una montagna
 ad aspettare altri diecimila anni
 che vi facciate largo tra la luce.

Vorrei solo che questa sera
 attenuaste le luci, abbassaste gli altoparlanti.
 Stasera vorrei meditare
 un po’ in pace e tranquillità.

Per un po’ vorrei dimenticare
 che v’accalcate intorno
 al vostro favo da quattro soldi.

Domani potrete completare
 la distruzione del vostro mondo.
 Domani potrete cantare in paradiso
 sopra le rovine fumanti
 delle vostre città terrene.

Stasera però vorrei
 pensare ad un uomo,
 a un individuo solo,
 a un uomo senza nome né paese,
 un uomo che io rispetto
 e che non ha niente in comune con voi:
 me stesso.

Stasera vorrò meditare
 su ciò che io sono.

Quando si ha tra le mani un libro di Henry Miller, parlare di letteratura risulta alquanto riduttivo. Perché Miller non è stato semplicemente uno scrittore. Il fine comunicativo che la scrittura ha sempre rappresentato, in Miller assume valenza di testimonianza e giudizio del proprio tempo. Consapevolmente e volutamente, lo scrittore è salito sul pulpito della storia a elucubrare la sua personale sentenza sull’uomo e sulla sua follia distruttiva. Con stizza e con una nota di rammarico, le generazioni successive di lettori e di pseudo-critici letterari hanno dovuto fare i conti con le sue parole. Finendo spesso per dargli ragione.

Gli anni dei suoi esordi letterari furono quelli, che più di altri, non consentirono particolari distacchi di neutralità. Scrivere nel decennio 1935-1945 obbligava ad una presa di posizione, davanti allo sfacelo e al desiderio famelico di conquista di Hitler, che invase il mondo. Miller andò ben oltre quel sommario giudizio da tribunale, che provò a pulire le coscienze dopo lo sbarco degli alleati in Europa. La complicità, nascosta e travestita da democrazia, che regnava incontrastata già ai suoi tempi, in un’America dove le stelle della sua bandiera erano i sogni insanguinati delle guerre del passato e dell’imminente futuro, e le strisce rappresentavano le innumerevoli strade che l’ipocrisia statunitense non avrebbe fatto mai unire, tutto questo costituì il testamento onirico che lo scrittore ha voluto consegnare ai posteri, attraverso i suoi libri.

Un giudizio così crudo, estremo, fin troppo vicino alla realtà, disorientò i suoi contemporanei, perché sputare contro il Thanksgiving Day negli Stati Uniti è una bestemmia. Che lo abbia fatto un letterato americano, per la bigotta ipocrisia made in U.S.A., diventava inaccettabile. Eppure Henry Valentine Miller è stato quanto di più americano i suoi "compatrioti" potessero ambire. Nato a Manhattan il 26 dicembre 1891 da genitori immigrati di origine tedesca, ha costruito tutta la sua esistenza sul principio del "tutto contrario di tutto", al quale ci sentiamo di aggiungere "il niente in cambio di tutto".

Non sappiamo se quel primo viaggio a Parigi nel 1928 sia stato il vero motivo che lo abbia ricondotto nella capitale francese l’anno successivo, dove probabilmente ci sarebbe rimasto definitivamente, se l’armata nazista non avesse invaso la Polonia. Apparentemente, la sua, potrebbe sembrare una fuga da due matrimoni in poco più di trenta anni di vita, ma leggendo le opere letterarie scritte in Francia, Tropic of Cancer (1933), Black Spring (1936) e Tropic of Capricorn (1938), appare evidente il suo distacco dal paese che gli ha dato i natali, ma anche l’amarezza di un debito storico che, forse, non è stato mai saldato.

Sono questi tre libri, i più conosciuti al mondo della sua intera produzione letteraria, uniti da un unico "conato di vomito" contro un mondo che rinnegò durante tutta la sua vita che, ironia della sorte, lo abbandonerà solo il 7 giugno del 1980, a quasi 89 anni.


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