La natura dell’innaturale. Intervista a Lino Centi
Il 5 dicembre la presentazione a cura di Pina La Villa e di Luigi Pellegrino del libro di Lino Centi "Quindici anni per sempre" a Catania (Libreria Gramigna, ore 18:00). L’intervista a Centi fatta da Granfranco Franchi.
Dialogo con Lino Centi su scrittura & altri confini
Siamo in un giardino di Monteverde Vecchio, quartiere d’artisti. Il destino segna strane traiettorie: non devo neanche prendere la macchina per intervistare il mio ospite. Capita di rado. L’autunno è appena iniziato, il cielo promette una pioggia che non vuole scendere, il silenzio è spezzato da qualche cinguettio. Questo giardino di Roma è un altro mondo.
Lino Centi, artista di fama internazionale, fresco dell’esordio in narrativa con Quindici anni per sempre, mi accoglie con gentilezza sorridendo. Ci accomodiamo attorno ad un tavolo, si parla delle storie delle nostre famiglie, delle rispettive origini. Entrambi fumatori, un buon caffè per dare un ritmo ai pensieri. Un sussurro di latte e miele, e avanti.
“Non ho mai amato il toscano”- esordisce – “forse perché era la lingua, inespressiva ed impotente, della mia infanzia: una gabbia che tentavo costantemente di rompere. Valentin Rivera, in uno dei suoi frequenti quanto imprevedibili giudizi sull’agire sociale, mi ha una volta spiegato come ognuno sia in grado di rilevare volgarità e/o violenza nel taglio linguistico che pratica e che utilizza ogni giorno: che conosce nei suoi risvolti più reconditi e temibili. Non sono mai stato in grado d’usare l’inflessione toscana come una clava, e semmai ne ho subito la soave tortura: perché avrei dovuto amare quella parlata? Con un’eccezione… l’apprezzavo in Rossana Mannini, mia collega di Psicologia, scomparsa nel 1992. Era figlia – mi pare di ricordare – di un fiorentino e di un’austriaca. L’ibridazione aveva prodotto una toscanità particolarmente fluida ed elegante – quantunque assai pronunciata”.
G.F. Opera prima in narrativa… Prima in assoluto?
L.C. Ho composto in versi come tutti i liceali e, sempre durante il liceo, ho fatto alcune prove di scrittura - per lo più recensioni a mostre d’arte. Poi, dal 1974 ho redatto una rivista: “Téchne”. Era un curioso crogiuolo d’istanze e sensibilità diverse; ed al momento che ho iniziato ad occuparmene – un bocca-a-bocca durato tre o quattro anni - era già troppo tardi. La sua circolazione continuava ad essere dannatamente scarsa, nonostante il non minuscolo bacino di referenza: la Poesia Visiva Internazionale e il Gruppo 70. Ne era direttore, per auto-definizione irresponsabile, Eugenio Miccini da poco scomparso. In quanto editore e direttore di “Téchne”, aveva subìto una minuziosa perquisizione mattutina da parte della Digos, alla ricerca di tracce e “prove documentali” del Piano Insurrezionale della Città di Firenze, di cui la rivista aveva pubblicato la “sintesi operativa”: un insignificante e provocatorio collage in grado però di far uscire di testa alcuni segugi ed un magistrato particolarmente solerte. Miccini ne era pubblicamente costernato quanto privatamente lusingato.
Il mio amore per la scrittura è antico. Ho scritto su “Paragone”, “Quindici”,“ Uomini & Idee”, “Salvo Imprevisti”, “Il Bimestre”, “Iride”; poi su una serie di riviste legate all’architettura ed al design: “Domus”, “Progettare in più”, “Architettura & Arte”, “La Nuova Città”, “Paesaggio Urbano”, “Report/Bio” “Opere”. Sono stato per alcuni anni corrispondente da Firenze di “Flash Art”, “Segno”, “Lapis/Arte”…di sicuro ho dimenticato qualche sigla. Ho anche redatto “Ricerca Architettonica”, la rivista del mio vecchio dipartimento, nel corso degli anni Ottanta. Generalmente questo tipo di prodezze viene omesso nelle biografie e trascurato nell’interviste, tuttavia è un errore: non c’è osservatorio migliore di una redazione per accedere al Cuore di Tenebra del sorprendente caravanserraglio universitario.
Devo a motivi completamente diversi l’aver curato qualche pubblicazione partorita dai convegni del Centro Koenig o transitata nelle vicinanze dopo averne assunto la direzione. Per forza di cose il mio apprendistato con le lettere è stato segnato dalla saggistica, ovvero dalla microsaggistica: un genere che mi è particolarmente congeniale che ha aspetti in comune con l’aforisma e che può sconfinare nel pamphlet. Un saggio cui tengo specialmente ancor oggi, nasce dalla trascrizione di una conferenza nell’Istituto di Studi Filosofici (Napoli / 1984), poi pubblicata su “A.E.I.U.O.” da Bruno Corà qualche anno più tardi: Arte e Pratiche dello Spazio e del Tempo. Devo aggiungere che sul numero 11/13 di “Téchne” ho dato alle stampe una modesta spigolatura di poesie – Städtebilder - di cui ho ripescato un frammento inserito a pag. 105 in questo mio esordio. Eccolo:
"Avresti dovuto conoscermi a 12 anni / non ti sarei parso neanche bello tanto lo ero".
G.F. Genesi e ideazione del romanzo.
L.C. Il fuoco si è acceso nella notte del vernissage di The Heavenly City: una mia mostra a Colombo, nello Sri Lanka, inaugurata in pompa magna dall’ambasciatore italiano, com’è la prassi in contesti esotico-estremi. Carlo Andrenelli, romano, architetto e coordinatore del tutto, abitava insieme alla compagna - Cécile Demain - a Rajagiriya: una zona piuttosto lontana dal centro della capitale in una sontuosa dimora tenuta in un prodigioso nitore da un Cingalese ed un Tamil. Al piano terra un grande salone faceva da elemento distributore; mentre al primo piano un patio con veduta su spettacolare giardino lambito da un ganga (fiume), immetteva ad un’infilata di camere. Quel corso d’acqua - di cui scorgevo un ritaglio appena alzavo la testa dal guanciale - in giornate ed ore diverse cambiava colore e forma come un mutante.
Dall’altra riva, la notte, arrivavano - frequenti ed improvvisi - i rumori inquieti della giungla: sì, le grida degli animali che si scannavano. Il caldo era particolarmente colloso anche quando il ventilatore ricalato dal soffitto impazziva sul max. Contento ma esausto, dopo essermi rigirato a lungo in un altissimo letto cingalese “a prova di serpente”, non mi sono addormentato che all’alba. Nel mentre l’infanzia mi scorreva in testa come in un trip psichedelico, il racconto era nato nelle sue linee essenziali. E’ cominciato allora un delicato, anche doloroso, costante, talora sfibrante, lavoro di scavo. Aggiungo che avevo conservato – come in attesa d’un qualche possibile esito – una sterminata quanto incasinata documentazione: foto, diari, lettere, appunti, temi in classe, abbozzi adolescenziali di testi simili a nidi di serpi, persino minuscoli oggetti.
La gestione del testo è stata sofferta ed annosa. Me lo sono trascinato ogni estate in casa di Pep Fontanals a Barcellona, ed a Parigi chez Marie e Jeanne Martinovitch, talvolta nell’appartamento con viste da sballo di Gilles Marron (l’edificio d’angolo fra rue Malher e Rue Pavé, 4° piano), o ancora più spesso a Villa Gabriel da Ezra Nahmad, artista-fotografo di eccezionale bravura.
In breve: scrivere e/o riscrivere quel testo era divenuto un qualcosa di terribilmente impegnativo. Un’ossessione che aveva la precedenza su quasi tutto. Persino sul mio lavoro d’artista. Ho infatti allentato i rapporti con la Galleria Maeght di Barcellona, anello non trascurabile del circuito d’arte contemporanea più esteso (e longevo) d’Europa, per dedicarmi alla mia nuova ed incerta passione. Ho continuato a dipingere, ma ho sospeso ogni impegno mondano. La mostra nell’Art Center Chulalongkorn di Bangkok - a cavallo fra il 2006 ed il 2007 - ha coinciso con le ultime correzioni ed ha segnato la fine di un viaggio fra le macerie dell’infanzia . Un trip nella lontananza interiore. Nel frattempo - per anni - ero partito da Firenze in compagnia del computer infilato in uno speciale e ricercato zainetto imbottito. Ricordo di avervi lavorato con particolare, febbrile, lena in una suite di Città del Messico, in calle Amberes. In un primo tempo mi ero accampato in casa di Eduardo Nuñes, un amico scultore & pittore che abitava a Los Olivos: un sorvegliato recinto per ricchi ai confini con l’improbabile come a Mexico Ciudad se ne incontra a dozzine. Tuttavia, nonostante la generosa disponibilità del mio ospite, devo ammettere che mi ero sentito un po’ un prigioniero… Invece nelle Suite Amberes ero perfettamente a mio agio - anche se mi svegliavo insolitamente presto. Pressoché all’alba. Quando abitualmente m’addormento. In quell’infinito altipiano fra vulcani spenti ed accesi a tremila e passa metri d’altezza la natura fa acrobazie ed i bioritmi risultano alterati.
G.F. Qualche notizia sulla Città Celeste, The Heavenly City e sulla 706 Gallery
L.C. La galleria di Dominic Sansoni è situata al numero 706 della Galle Road: la strada che va da Colombo a Galle, seconda città di Sri Lanka, dove la colonizzazione portoghese ha lasciato fortificazioni d’incontrovertibile bellezza. Nonostante l’italianissimo cognome, il mio gallerista non parla una parola d’italiano. Un suo trisavolo arrivò – mi pare da Livorno - a Sri Lanka nel 1600; quanto a Dominic non penso sia mai stato in Italia. E’ invece il più ricercato fotografo di Colombo.
La 706 Gallery non è l’unico spazio per l’arte contemporanea di Colombo. Un secondo luogo a statuto pubblico - il Lionel Wendt Centre in Guiford Crescent - non è lontanissimo. Naturalmente, alla 706 Gallery, esponevo i miei 10 x 10 (centimetri). Vi è stato un discreto interesse fra i collezionisti cingalesi, cosi come fra i non pochi occidentali presenti a Sri Lanka. Poiché Il “Sunday Observer” aveva dedicato le due pagine centrali del giornale all’esposizione: nel corso degli spostamenti nord/sud sono stato più volte riconosciuto per la foto che vi campeggiava.
Come forse sai, dagli anni Ottanta, lavoro su questo formato un po’ demenziale ma che corrisponde alla mia idea d’arte plastica: il 10 x 10 (centimetri). Forse, all’inizio, ha rappresentato anche una reazione al gigantismo fin-de-millénaire ed alla bancarotta della Transavanguardia. Basta attraversare l’installazione di Mimmo Paladino nell’Ara Pacis, per capire dove le-poche-idee-e-confuse possono condurre e l’approssimazione di una pubblica amministrazione arrivare…
La mostra nella galleria di Dominic Sansoni – intitolata La città celeste non tanto in omaggio alla teologia cristiana, quanto al più significativo storico dell’Urbanistica di tutti i tempi [ Lewis Mumford 1895-1990], non era l’unico motivo che mi conduceva a Sri Lanka. Carlo Andrenelli aveva progettato, facendo leva su tecnologie innovative e su un’idea originale di centro commerciale, quello che era - e probabilmente rimane - l’edificio più rappresentativo dell’isola: l’ M & M Centre. In vista del vernissage un mio 10 x 10 sarebbe divenuto un pavimento di 4 x 4 metri situato al piano terra in zona ascensori. Si chiama Green Matrix; ed è contrassegnato dal codice CMLXIX / 1999 impresso, di seguito al mio nome, nella cornice in acciaio - satinato o lucido a seconda delle campiture - che lo isola dal pavimento restante in marmo Carrara.
G.F. A Sri Lanka…
L.C. Scarrozzato da uno degli autisti di Carlo Andrenelli – il taciturno ma elegante Gunamasiri - ho trascorso a Sri Lanka oltre un mese d’irricercata castità. Trovavo spesso belli ed affascinanti i Cingalesi, così compìti nel loro dignitoso candore: tuttavia era un impenetrabile universo parallelo quello che ogni giorno osservavo. Sicché, nel corso delle mie trasferte - fra Kandy, Sigiriya, Anuradhapura e Unawatuna -, ho cercato d’apprendere un certo numero di parole e qualche frase banale. Gunamasiri era decisamente sorpreso di questa mia inclinazione a conoscere la sua lingua…
Chi ha viaggiato in paesi tanto più disgraziati del nostro sa quanto sia problematico rapportarsi agli altri. Il colore della pelle, la protervia involontaria, la ricchezza presunta, creano una barriera invisibile ma percettibilissima. Ti senti estraneo e ti tieni a distanza. E tutto ciò - immagino - mi abbia riportato all’infanzia. Alla fanciullezza di un bambino venuto al mondo nel corso di un matrimonio convenzionale in un polveroso dopo guerra condito di odi e rancori di vinti e di vincitori. Quando il babbo ha perso il lavoro, mia madre ha provato per anni a tamponare - per quel che le era possibile - le falle di una famiglia in via di dissoluzione…
G.F. Lino Centi e la casualità…
LC. L’hasard c’est moi – potrei dire attingendo alla celebre ammissione di Gustave Flaubert. Il caso ha segnato passaggi decisivi della mia vita. E’ stato un dato portante ed importante. Ti faccio un esempio. In un luglio arroventato, ero andato ad iscrivermi a Lettere & Filosofia; ed anche sopportato alcune ore di coda nell’atrio del rettorato. Solo che ho sbagliato fila. Quando madido di sudore, patendo i 30 e più gradi di un piano gremito di studenti sono arrivato al vetro della segreteria ed ho letto “Architettura”, mi sono immatricolato. Senza ripensamenti. Lo rifarei ancora!
Il mio lavoro plastico, in larga parte, è costruito su una casualità inseguita. Che so… mi si rovescia il calamaio, viene fuori una macchia…trovo interessante quella forma…ci lavoro sopra. Ma è una “casualità” che concerne anche la titolazione dei miei lavori. Come li titolo? Li lascio attaccati nello studio per settimane, anche mesi, talvolta anni, finché un suggeritore interiore non li designa. Bernard Comment - un brillante ginevrino allievo di Starobinski e Roland Barthes, lui stesso scrittore di successo - ha descritto il processo in un modo sofisticato ed insieme realistico in un articolo pubblicato su “Ligheia”. Devo ammettere che, una volta letto il pezzo, per qualche istante mi sono davvero sentito eccessivamente trasparente!
G.F. Qual è stato il calamaio di Quindici Anni per Sempre?
L.C. C’è stato un momento in cui – forse per il rispetto che mi ero guadagnato sul campo e la relativa tranquillità economica nella quale vivevo – la mia storia personale mi ha forse fatto meno paura. L’indigenza secerne infatti una sorta di vergognario: una zona ottusa ed urticante parente stretta dell’indicibile. Le aggressioni – anche se solo verbali - subite nell’infanzia alimentano il medesimo piccolo inferno. Di solito sfiorano soltanto le coscienze. Se compiute dai genitori - ossia da persone “amiche” per antonomasia - se ne ha scarsa consapevolezza. Ti rodono dentro e basta. Per l’identica aggrovigliata deriva gli stupri in famiglia raramente affiorano. Se mai riuscirò a mettere insieme tutti gli atti d’ostilità che ho subito da parte del clan familiare, ci scriverò un altro paio di capolavori!
G.F. Punti di riferimento letterari?
L.C. Ho amato molto un’infinità d’autori…hai scritto che raramente ho citato italiani, ma permettimi di non essere d’accordo. C’è comunque uno scrittore - Tony Duvert - l’ultimo “maledetto” di una tradizione francese che si fa iniziare con Rimbaud, che esibisce uno stupefacente periodare e temi inconsueti. Quando morì Jonathan è un tale atto d’accusa verso la società familistica che non c’è da stupirsi che Wikipedia italiana abbia omesso ogni informazione su di lui. Ogni singolo o gruppo partecipa all’immaginario delle proprie possibilità: in Italia tutto ciò che ruota intorno alla famiglia può essere trattato a condizione d’impiegare un linguaggio edificante.
Quando, alcuni mesi più tardi, ho comprato alcuni suoi testi in francese alla libreria “Le mots à la bouche” di Parigi, ho intuito l’incubo che Giancarlo Pavanello & Compagni (i traduttori della Rosa) dovevano aver attraversato. Tradurre un pugno di creatività letteraria al cianuro non è un passatempo! [Tony Duvert è da poco morto all’età di 63 anni a Thoré-la-Rochette].
Mi ritengo un lettore infaticabile. Prima d’essere uno scrittore esordiente, sono stato – sono - un grande lettore. D’altronde scrittura e pittura mi hanno da sempre curato… sì, sono state entrambe qualcosa di estremamente curativo. Se non avessi la possibilità di dipingere e scrivere… sarei un caso psichiatrico. O forse mi sarei davvero suicidato.
Ho letto di tutto, ma in particolare i classici francesi, Maupassant, Flaubert, Proust. Trovo straordinario l’incipit di All’ombra delle fanciulle in fiore: la divaricazione, fantasticata dal protagonista, fra le prime luci di un’alba salvifica o l’ultimo passaggio del cameriere che annuncia la notte fonda…in quella forbice mi sono un po’ perso. Non posso fare a meno di provare un brivido… Infatti la notte non dormo; ed è raro che mi addormenti prima dell’alba. Emanuele Milanini - il giovane designer che mi ospita in questa casa di Roma - ha osservato come in Quindici anni per sempre “i paesaggi assomiglino a descrizioni d’interni”. E forse è proprio così!
Agli autori citati aggiungerei Margherite Yourcenar. La lettura di Memorie d’Adriano è avvenuta subito dopo la morte del mio compagno – nel 1992; ed era stato Matteo a regalarmelo in occasione di un compleanno. Ne sono rimasto stregato. Ed in seguito ho pressoché divorato l’intera opera: una costruzione grandiosa, che fa leva sull’inesauribile archivio d’eventi di un arcano nord-ovest; e che ha aspetti in comune con l’altrettanto imponente lavoro di Michel Foucault in filosofia.
G.F. Centi i Macchiaioli e Federigo Tozzi…
L.C. Sono stati un momento speciale per le arti plastiche, i Macchiaioli. Quando vivevo a Londra, sul finire degli anni Sessanta, mi è capitato di vedere nella vetrina della libreria Dilon’s - e ci giurerei anche a casa di Carlo Dionisotti - The Picture European in Tuscany di Emilio Cecchi. Giorgio Fattori e Telemaco Signorini sono artisti di razza cui è capitato la disavventura di nascere “in periferia”, nondimeno dipingono con grande talento ed espressività. Si sta però parlando di una Toscana scomparsa. Estinta. Neanche mi sento vicino a Federigo Tozzi, quantunque sia rimasto lusingato dal tuo accostamento al mio racconto in Lankelot. Quando ho letto Tre croci, credo d’essermi piuttosto annoiato: proprio com’era accaduto con Manzoni ed altri “classici” del made in Italy. Gli indifferenti di Alberto Moravia, così come Sciascia e Calvino, invece, hanno rappresentato ognuno un piccolo indimenticabile avvenimento. Il concilio d’Egitto è uno dei libri più divertenti della nostra letteratura. Il comico è più impervio del tragico. Un prodigio che – spero – qua e là lieviti anche nel mio testo.
G.F. Lara-Vinca Masini è una critica d’Arte Contemporanea….
L.C. Conosco Lara da sempre. Ed era l’unica che poteva stendere una prefazione coniugando l’artista plastico ed il romanziere esordiente. L’unica. Aveva scritto il catalogo di alcune mie mostre, mi aveva inserito nella sua onnicomprensiva storia dell’arte contemporanea. Mi riferisco ai quattro tomi La linea dell’Unicità e La linea del Modello editi a coppie nel corso degli anni Novanta dalla casa editrice Giunti. Amava la mia pittura - sempre i 10 x 10 - e si è tuffata con impeto adolescenziale a leggere Quindici anni per sempre ed a scriverne l’introduzione. Non è soltanto la decana dei critici d’arte italiani, ha curato la Biennale di Venezia del 1976, Premio dell’Accademia dei Lincei 1986, commissaria alla Biennale d’Architettura nel 2000…non starò ad elencare tutti i riconoscimenti ed i meriti che ha collezionato. Ha un eccezionale intuito, Lara.
G.F. Cinema & Lino Centi…
L.C. E’ vero! C’è molto cinema nel racconto. Da bambino, ma anche durante la prima adolescenza, il cinema era qualcosa di più di un’attrazione; ed aveva un ascendente incredibilmente forte sulla mia psiche. Anche troppo. Tuttavia sono radicalmente contrario al cinema “vietato ai minori”: i primi tre lustri di vita sono già, di per sé, una condizione di poco entusiasmante minorità che non andrebbe sottolineata con i divieti. Il cinema, insieme alla letteratura, ha rappresentato per anni una straordinaria finestra su universi lontani. Lontani ed inconsueti. Inconsueti ed appassionanti. Sull’inizio degli anni Novanta mi sono trovato a recensire per “Domus” un libro sui manifesti di Vittorio Campeggi [il noto illustratore di poster cinematografici], e per qualche tempo ho riavvertito quella particolarissima frenesia – in un’accensione di neon e vetrine di cinematografi.
G.F. Jean-François Lyotard & Lino Centi…
L.C. E’ stato un amico eccezionale , Lyotard. Se per maestro s’intende colui che ti lascia libero e protetto: un vero maestro. Una sera – si era a Parigi - l’ho accompagnato al metrò Cité; e nel salutarci mi ha anticipato che avrebbe scritto “quelques lignes” su di me. Non sapevo come ringraziarlo, ma pensavo mi avrebbe dedicato, al più, mezza pagina: qualche rigo appunto. Un mese dopo, di ritorno da Madrid, trovo invece un saggio di 5/6 pagine: I francobolli di Lino Centi. Sono stato una settimana senza chiamarlo. Non sapevo come prendere questa cosa…sul serio (ride). Lyotard aveva già scritto di artisti di grande rinomanza. All’epoca stava finendo un testo titolato Quoi peindre? (Cosa dipingere?), aveva iniziato un saggio su Karel Appel - il principale esponente olandese del gruppo C.O.B.R.A. La condizione post-moderna - un libro nato da una ricerca sul sapere nelle società industriali avanzate finanziata dal Quebec – l’aveva condotto all’apice del successo: il saggio tradotto in una dozzina di lingue, il mondo intero alle prese con una parola sconosciuta, il Postmodernismo.
Avevo conosciuto Lyotard nel 1988 – in agosto. Tornato con qualche giorno d’anticipo dalle Canarie per ascoltarlo parlare alla Facoltà d’Architettura, era accaduto che la traduttrice si era bloccata a metà conferenza. Mi sono offerto di continuare la simultanea; e lui, riconoscente, aveva accettato di vedere il mio lavoro. Arrivati nello studio ha passato diverse ore senza proferir verbo, concentrato sui tanti quaderni posati sul tavolo, per terra, su una sedia: dappertutto. Poi, spezzando il silenzio ha commentato: “j’ai compris le secret”- ho capito il segreto. Ti confesso che ero davvero sulle spine…Come interpretarlo? Quindi dopo una pausa infinita continuando a scrutare i 10 x 10 ha aggiunto: Non sono piccoli - “Il ne sont pas petits”.
Da allora è una delle mie linee guida.
G.F. E questo libro è cosi?
L.C. Me lo auguro… Quindici anni per sempre, duecento e poco più pagine, lasceranno un segno? Credo sia il diritto (e lo scopo) di ogni essere umano il lasciare un segno: segnalare che si è vissuto! La morte fa paura solo quando conclude una vita insignificante – senza segni o significati appunto. Mi appassionano poco le congetture intorno alla “vita dopo la morte”, non sono credente, quantunque sia stato moltissimo attratto dal Buddismo. Credo, invece, nei segni vitali e nei significati esistenziali.
G.F. Cosa “sogni” venga scritto di questo romanzo.
L.C. Non penso di poter rispondere in un modo pertinente alla domanda. Ci sono passi che reputo particolarmente riusciti e di cui ne vorrei apprezzata la qualità. Come il seguente a pag. 186:
"Sarà la mia prima vera nuotata. Riapprodati a riva sono del tutto gasato per l’essere riuscito a contenere il panico mentre mi agitavo nel mio stile ultralibero: insomma mi sono appena tenuto a galla nuotando alternativamente prono o di schiena (mentre appuravo che Nico fosse vicino). Pare proprio che il mio collaudo marino anche per lui abbia rappresentato una vittoriosa disfida; e infatti m’invita, con un gesto eloquente del braccio, a camminare lungo la battigia che si stende a perdita d’occhio fino al lido di Torre del Lago. Nel corso di quella passeggiata sotto il sole calante mi pone una mano sulla spalla in modo risoluto ed emozionato. Nonostante io cammini nella zona rialzata dell’arenile, è decisamente più alto ed il suo corpo scattante, insieme al passo sicuro, mi coinvolgono in una situazione di straripante intangibilità: un sentimento di perfezione e di pienezza vitale che ho avvertito poche volte e soltanto con Lalla. Al ritorno, davanti ad un Wim ammirato, costruiremo un imponente castello di sabbia lasciato lì, nel crepuscolo, a sfidare l’eternità della notte".
Appena il racconto è apparso, tanti amici lo hanno comprato…incuriositi. Sorpresi. Nessuno immaginava un romanzo. Io sono rimasto sorpreso dalla loro sorpresa. Il verbo sorprendere ha almeno due significati: nel senso di un’irregolarità che ti appare (e stupisce) oppure dell’essere sorpresi, qualcosa che appartiene a divieti trasgrediti ed a situazioni più o meno imbarazzanti. Mentre stavo arrivando a Roma, quello che considero il mio più vecchio amico - Ole Hjotd-Vetlesen -, filologo danese che ha fatto parte dell’équipe che ha svelato il mistero dell’alfabeto etrusco, mi ha inviato un sms dal quale emergeva grande sorpresa. Altrettanto stupito colui che di solito chiamo il mio “fratello parigino”, Ezra Nahmad: un ebreo egiziano che ha vissuto otto anni a Firenze, e che in questo momento sta leggendo Quindici anni per sempre a Lisbona dove si è recato per un servizio fotografico. Per rimanere in tema “sorpresa”, ti anticipo che il terzo presentatore del libro all’Edison di Firenze, sarà Leandro Piantini: ha un ruolo niente affatto marginale nel mio romanzo dove figura attraverso una sinonimia.
G.F. Dopo Quindici anni per sempre, cosa scriverai?
L.C. Mi piacerebbe continuare quella che hai - con indubbia sagacia - definito “biografia romanzata”. Anche perché il “bello” deve ancora arrivare. L’adolescenza, secondo me, è persino più incuriosente dell’infanzia. Un terzo atto potrebbe concernere il mio ingresso all’università come studente e poi come docente: una sorta di narrazione tripartita. L’insieme, se mai sarà realizzato, potrebbe avere qualcosa in comune con la saga. Sì, una narrazione epica ma dal finale meno scontato. Poiché non ho ancora scritto un solo rigo, non oso fare previsioni.
G.F. C’è un’influenza architettonica nel tuo fare letteratura?
L.C. C’è sicuramente nel mio lavoro plastico. Ed è vitale e palese. Quando s’organizzano 2000 finestrelle (non sono piccole!) e si ripete uno stesso modulo all’infinito, vi è dell’architettura. Così come si è sviluppata dal Rinascimento in poi – intendo. Non mi sto paragonando a Brunelleschi: dico che c’è dell’architettura: una modalità del dare forma alla materia che lega spazio, tempo, ed estetica. E’ presente anche in Quindici anni per sempre? Forse… anche se devo ammettere di essermene preoccupato relativamente… Invece ho inseguito una discontinuità temporale: ricomincio più volte il discorso dal tempo in cui ero giovanissimo, alla ricerca di una messa a fuoco iniziale. Ad esempio faccio leva sul fatto che a due anni compiuti “non spiccico una parola” per tornare daccapo; rispolvero il refrain ossessivo intorno alla “normalità” col fine di ricondurre la narrazione al medesimo punto. In breve: avevo in mente un’esposizione frammentata, discontinua, non/storica - ma dalla quale una storia certo emergesse. Quando ero ancora uno studentello squattrinato, un mio mêtre à penser è stato Luigi Baldacci: mi ha pubblicato qualche testo su riviste d’inequivocabile credito quali “Paragone”ed “Il bimestre”, ma anche istillato trasversalmente qualcosa intorno al narrare.
Se è in forse l’influenza dell’architettura sul testo, una qualche riflessione sull’architettura nel testo è rintracciabile – almeno nelle descrizioni dei luoghi e degli spazi. Ho vissuto fino a 15 anni in un appartamento talmente ordinato da trasudare oppressione. E l’appartamento era soltanto un dettaglio di uno schema distributivo ancora meno seducente ed ancora più incoerente (pag.47). Durante il fascismo anche negli edifici di rango – come quelli pubblici - i bagni venivano spesso posti nel sottoscala. La nostra casa era post-fascista, edificata appena dopo: tuttavia il gabinetto di casa era ricavato proprio lì. La finestrina, fatalmente addossata al soffitto, rinviava a quella d’un seminterrato…
Sai, grazie a questa conversazione, per la prima volta, mi viene da pensare che essermi iscritto alla facoltà d’architettura non sia stato un caso totalmente fortuito, ma che faccia parte della stessa “casualità inseguita” che utilizzo nei miei 10 x 10. Insomma una sorta di serendipity: l’arrivare in un luogo ricercandone un altro. Cristoforo Colombo docet.
G.F. Rassegna stampa: com’è andata finora?
L.C. Sul Corrierino, supplemento fiorentino del “Corsera” sono apparse ben due recensioni nel giro poche settimane. Una terza, sintetica ma equilibrata, è passata sulla “Nazione”. A Roma, mi si dice, sia apparso un pezzo su “Aut”. Vi è poi stata un’intervista in diretta su Radio Città Futura. La tua recensione su Lankelot…ed il libro è appena uscito.
G.F. Edizioni Coniglio. Come ti sei trovato?
L.C. La storia inizia assai prima. Su consiglio di Sergio Givone, della redazione Einaudi, avevo inviato lo scritto a Dalia Oggero. Pressoché un anno più tardi mi è arrivata una gentile missiva (devo ringraziare la sorte? non era un prestampato), che m’informava del rifiuto a pubblicarlo. Trovo sconvolgente che sia dovuto passare un anno… Ho dunque dedotto che un esordiente – sia pure con una carriera saggistica di un qualche prestigio – non poteva sperare in una casa editrice con decennale, blasonata, tradizione. Attraverso amici e conoscenti, ho contattato Antonio Moresco e conosciuto Antonio Veneziani e le edizioni Coniglio. Sì, mi è parsa professionale ed affidabile.
Antonio Veneziani, nonostante che il testo fosse stato ben setacciato, ha individuato 3/4 punti problematici. Diciamo pure confusi. Cose di qualche rigo, non concernevano affatto l’impianto. Se n’è parlato… Antonio sa essere molto pedagogico, quando vuole. Ciò ha migliorato l’insieme. In precedenza una revisione era stata intrapresa da Luca Baldoni, trentacinquenne vincitore del premio Camaiore per la poesia, che mi aveva invitato ad alleggerire qua e là il testo ed a tagliare un corsivo dall’insostenibile ermetismo. Incomprensibile: tranne che per me, ovviamente. Per darti un’idea: appariva il nome di Nise da Silveira: l’eccezionale realizzatrice della raccolta "Images do Incosciente" (un museo - quello delle Immagini dell’Inconscio - scarsamente visitabile, ma per caso sono arrivato in Brasile nel corso dei festeggiamenti per i Cinquecento Anni di Rio). Se ti dico che i matti di Rio de Janeiro hanno anticipato buona parte dell’arte europea ci credi? Nise da Silveira, in Brasile, è un personaggio celebrato e notissimo, ma qui neanche si sa che è esistita! Era un corsivo inserito nella scena di sesso fra il protagonista ed il suo compagno di banco alle pagine 103/104. Vediamolo:
Ripensando a quella fuga spaurita - mentre tento di rinfoderare l’uccello - mi vedo calato in una scenografia postmoderna in cui giganteggia il profilo di Nise da Silveira.
Dopo il garbato ma fermo rigetto dell’Einaudi ho passato un momento piuttosto amaro. Una vera e propria depressione. Un inizio di primavera davvero conturbante…credimi. Mi ero, grosso modo, formato sui libri di una casa editrice che mi respingeva… In quel frangente Giovanni Mari – Gianni - filosofo di chiara fama, e la sua compagna Cristina Gonçalves Ribeiro, mi hanno ripescato da un naufragio. Devo molto ad entrambi. Si sono davvero fatti carico della mia impasse. Del mio malessere. Del mio infinito scoramento. Ho anche capito cosa significhi il termine “amicizia”, parola che - fino ad allora - non mi era chiarissima.
G.F. Il libro vive. Lino s’accende un’altra sigaretta, guarda il cielo.
L.C. Nell’incipit del capitolo X° tratto - non esattamente come farebbe un saggista - della cosiddetta “normalità”. Di qualcosa che, se dipendesse da me (e non dall’Accademia della Crusca), cancellerei dal dizionario. Ne vieterei la diffusione. Mi sbizzarrirei persino in un sistema incruento di sanzioni…Oggi, qui, sto enfatizzando il mio disappunto d’allora. Però da bambino era una vera persecuzione. Si, mi considero un perseguitato dalla normalità. Sicché, nella stesura dei tanti saggi, interviste, corrispondenze, me ne sono diligentemente tenuto alla larga. Mai utilizzato quella parola.
Conosco in modo del tutto sommario Johann W. Goethe, ma ne riconosco la grandezza attraverso due frasi che ho incontrato nel corso del tempo. La prima concerne la relazione fra l’occhio e la conoscenza: Si vede ciò che si sa. La seconda proprio l’ambito di cui si parlava poc’anzi: Anche l’innaturale è Natura.
G.F. Un’anima che ha trovato quiete nell’espressione artistica e vero amore solo nell’omosessualità. E’ uno dei capoversi conclusivi della mia recensione in Lankelot: è così?
L.C. Intanto non è solo una narrazione di cazzi e ragazzi, come sicuramente diranno i miei detrattori. No. Credo che sia un libro incentrato sul pericolo: il pericolo che incombe nell’essere lasciati soli in un orizzonte aniconico - senza immagini, né stelle polari che ti orientino. Un libro sul pericolo del perdersi e del non ritrovarsi. Mai. Com’è successo a tanti…
In Quindici anni per sempre non vi è soltanto la “preferenza sessuale” ad essere in scacco. C’è un ragazzetto che subisce un’onta altamente prevedibile, preordinata, corale: “normale” per la sua classe sociale. Se ne sente investito. E’ rinchiuso vivo in una bara di convenzioni e tenta d’uscirne.
Il fatto che il protagonista sia attratto dai suoi simili - che si riveli gay - è assolutamente decisivo per delineare il contesto al vetriolo. Il genere umano, buono o cattivo che sia, è abitudinario e si affida alle semplificazioni. La religione ne rappresenta l’aspetto più eclatante e diffuso: una semplificazione devastante. Rimango del tutto convinto che la bisessualità sia la struttura di base di ogni psiche e del suo agire nel mondo. In qualunque (appena approfondito) rapporto fra un uomo ed una donna emergono fantasie omosessuali: ed è vero che in ogni relazione fra simili lievitano impulsi eterosessuali. Se ci sono eccezioni, confermano la regola.
Poi vi è la trappola del sistema materno d’attese. Un’aberrazione che credo faccia parte di una patologia segnatamente italiota che s’accanisce sui figli maschi e ne paralizza la crescita. Noi italiani siamo tutti degli eterni bambini mater/dipendenti. N’est-ce pas? Certo la sessualità compare nel racconto. Troppo? In quella temperie, nel dopo guerra, i rapporti sessuali fra ragazzini erano piuttosto frequenti, terribilmente incasinati, malcerti, frustranti. Anche il Cattolicesimo aveva il suo bel ruolo…
Il fatto è che i genitori andrebbero educati dai figli a ricordarsi della propria infanzia. Di tanto in tanto, almeno. Va aggiunto che l’estrema indigenza esattamente come l’estrema ricchezza rendono i costumi tolleranti: la ricchezza era di una rarità assoluta, ma la povertà diffusa. Oggi tutto è cambiato… presumo vi siano meno analfabeti sessuali in giro…e mi auguro che la sessualità dei ragazzi di oggi sia meno aggrovigliata ed infelice.
Si, mi sono realizzato nell’espressione artistica ed ho un nuovo sito: www.linocenti.com Bernardo Monti & Emanuele Milanini ne sono gli artefici. Vivo con il compagno a cui il libro è dedicato.
NOTE
Lino Centi, architetto, insegna Disegno Industriale nella Facoltà di Architettura dell’Università di Firenze. E’ pittore e saggista.
Lino Centi, “Quindici anni per sempre”, Coniglio, Roma, 2008. Prefazione di Lara Vinca Masini: incentrata sulla sua produzione pittorica e sulla comparazione con quella letteraria.
L’intervista di Gianfranco Franchi è stata pubblicata su Lankelot.eu il 25 novembre 2008.
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