La muffa storica / di Sebastiano Addamo
Sebastiano Addamo, in: Ripresa Economica, settembre 1982.
Sicuramente non è per caso che la frase sulla quale si chiude La morte del sole di Manlio Sgalambro (Adelphi, 1982) sia il verso di chiusura della poesia: Quaternario di G. Benn. Assieme a Nietzsche, a Simmel e Spengler, Benn costituisce – gidianamente – una delle ruote di questo carro che è il libro. «Che gli ultimi si affliggano, / facciano pure la Storia / giorno di tutti i morti / Fini du tout».
E storia e sentimento della fine sono – come in Benn – da Sgalambro collegate strettamente, per cur il corso dell’una è avvicinamento all’altra, cioè alla vecchiaia e, quindi, alla morte. «È nell’andare avanti che si compie il tramonto» (p. 194). Niente progresso e sviluppo, niente avanzamento, nessuna fiducia accreditabile nella capacità di dominio dell’uomo sul mondo. Rispetto, per esempio, a un Carlyle, per il quale la storia universale è la storia dei grandi uomini (una certezza, comunque, o rispetto allo stesso Hegel per il quale, come è noto, la storia è progresso nella coscienza della libertà, Sgalambro nettamente rovescia le posizioni, annulla tutte le certezze. «La storia è dei morti» (p. 189) è la sua protocollare pronuncia.
La storia viene vanificata, ridotta all’osso; il regnum hominis ha soltanto i secchi abbacinati bagliori dell’osso. «Arte e scienza della dimenticanza» (p. 197). È polvere, dice Sgalambro, memoria sterile e inutile. Esorcismo e rimozione. Le tre dimensioni delle quali essa tradizionalmente è costituita, passato, presente e futuro, vengono consumate nel gelido rigore della logica. Tre dimensioni, peraltro, le quali «non si incontrano che nel precario riflesso di una coscienza dove, come nell’Eliso, si danno convegno le ombre» (p. 186). Così il presente è ombra, rappresentazione, coscienza labile e larvale; il passato è «esangue ombra (p. 184), e il futuro apparterrebbe quasi alla negromanzia, in ogni caso «non c’è futuro – il futuro è il presente degli altri» (p. 185).
Intanto non è strano che un libro di negazioni senza scampo, un libro intelligente, paradossale, patetico e disperato sia stato pensato in Sicilia. Un libro, fra l’altro, tradotto in uno stile inusitato (le scritture filosofiche sono spesso solenni e mollicce) e suggestivo, perentorio da rasentare il dommatismo o il dispregio.
Una Sicilia lontana dalla storia e piena di proconsoli. Da qui le cose si avvertono meglio, senza nemmeno il velo ingannevole e multiplo della prassi che fra l’altro in Sicilia spara ‘a lupara. Non è proprio strano che da questo estremo lembo d’Europa venga denunciato il pensiero occidentale e la storia che da tempo – come una cultura per virus – è stata il suo terreno. Nulla si salva, logicamente nulla si può salvare: la città, la «città mondiale», la metropoli così vagheggiata, è il luogo «dove si celebra il vuoto» (p. 134), e in accenti vagamente roussoviani, tutta la civiltà tecnologica, la stessa matematica e la fisica vengono denunciate a morte. Caso mai la fisica può prestarci una sua previggenza, avvisarci della morte che ci circuisce. Siamo contemporanei della fine. Contemporanei nel senso adoperato da Spengler, come omologia tra due eventi tra loro distanti nel tempo, ma perfettamente identici nella situazione. Alla luce della stessa fisica, l’unica meta per l’uomo appare la fine, cioè il cataclisma cosmico. «Si tratta di vedere il mondo alla luce di questa catastrofe finale e richiamarsi sin da ora a essa come contemporanei» (p. 101). Il compito supremo e ardito della storia sarà dunque di mostrarci «come va a finire» (p. 191).
Il presente lucidamente anticipa questa fine e contempla il disastro. Tanto, non resta altro.
«Non si può essere reazionari perché non c’è dove tornare; non si può essere progressisti, perché non c’è dove andare» (p. 206).
Un equilibrio statico, dunque, eroico e insicuro. Quella staticità che si ritrova in Benn nelle Poesie statiche che a loro volta, denunciano la fine.
Così la ‘staticità di Benn da caso in un certo senso personale (se la poesia è faccenda personale), nello atteggiamento di Sgalambro (se questa filosofia non è faccenda personale) diventa condizione di tutti. Basta saperla guardare, e saper guardare il mondo. Basta volerlo (superando l’aporia schopenhaueriana) guardare, mediante essa.
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