La morte del sole: la filosofia come scandalo / di Massimo Cacciari
Massimo Cacciari, in: Ripresa Economica, settembre 1982.
Un libro duramente inattuale, privo di «compassione» verso se stesso così come verso il lettore, estraneo, per citare Rilke, alla «madre consolatrice». In quest’epoca della «modificazione» totale, di «pensieri deboli», di impressionismi tardivi, di nihilismi spiccioli, di saggistiche pigrizie, questo libro affronta gli «inciampi», i problema, da sempre della riflessione filosofica «monumentale», ed ha la forza di farlo non con il sapere disciplinarmente reificato dello erudito, con quel sapere che Rosenzweig chiamava «Erkennen» ma in presa diretta proprio con l’immagine di quest’epoca, della sua Geldkultur, della sua filosofia del denaro, dello scambio, dell’universale equivalenza. Una vastissima conoscenza filosofica sorregge lo sguardo disincantato e spietato sulla nostra cultura estetica, domina in ogni campo dalle categorie dell’utile, della meditazione dell’economico.
Il libro di Sgalambo si colloca, anzi, in quel filone del pensiero contemporaneo, appartato, sempre outsider, ma capace davvero di pensieri perfetti, che potremmo definire critica della cultura estetica. Vi contribuiscono correnti diversissime, ma accomunate nella radicalità del pensiero, nella coerenza dell’argomentazione dalle più disperate «esperienze» del giovane Lukács (allievo, non a caso, di quel Lask amatissimo da Sgalambro, e finalmente un italiano che cita il grande Lask!) a Rosenzweig, dall’Adorno dei Minima Moralia alla Prima radice di Simone Weil, dal Benjamin dei più disincantati saggi metropolitani al sorgivo genio filosofico del goriziano Michelstaedter, a Wittgenstein…
Si è molto discusso della influenza adorniana in La morte del sole. Ma, oltre gli evidenti ed espliciti accordi, si trovano in questa opera puntuali osservazioni sull’opera del tedesco – per quello che in essa permane, e non è poco, della «sana opinione» sulla «modificabilità» del mondo, e per l’ingenuità della critica – che condivide sostanzialmente con Husserl – nei confronti della scienza. Il centro del libro sembra consistere, invece, in quella idea di filosofia (che mostra lontane ascendenze schopenhaueriane) come pace e perfetta solitudine. Difronte alla universale Mobilmachung, alla universale mobilitazione, che già Hegel bollava come «movimento di vermi», sta la filosofia: non educatrice, non pedagoga, non risolutrice, non progressiva – ma scandalo della perenne riproposizione dei perenni enigmi, che ogni pensiero è chiamato ad affrontare da solo, totalmente responsabile di fronte a se stesso. Si trovano nel libro pagine wittgensteiniane: la sua critica della riflessione costruttivo-progressiva, della filosofia «utile», della «scala» dei superamenti… Perché, allora, l’interesse di tanti – e provenienti da ambiti culturali addirittura opposti – per questo libro? Forse, proprio per l’evidente esaurirsi di tali ambiti, per l’evidenza, ormai, di ciò che Sgalambro ricorda: la loro appartenenza alla decadenza per il rifiuto che ormai provoca il trombettismo domenicale delle «filosofie» peggiori: quelle che «modificano» il mondo. Forse perché tutti sentiamo la necessità di una interrogazione radicale sul nostro linguaggio, sulle nostre tradizioni, sui nostri «valori». A questo lettore, davvero al di là del vecchio bene e del vecchio male, delle decrepite sette, si rivolge – senza né volerlo, né cercarlo (il filosofo, infatti, egli dice, non è il maestro della ricerca, ma della risposta) – il libro di Sgalambro.
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