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La lezione della crisi finanziaria americana

Tuttavia, il mondo politico ed economico dovrebbe fare tesoro della lezione offerta dalla crisi del sistema finanziario americano.

di Giuseppe Artino Innaria - mercoledì 8 ottobre 2008 - 2923 letture

Di fronte allo spettacolo della crisi del mercato finanziario americano, costellata di fallimenti e nazionalizzazioni di banche, qualcuno si è illuso di poter profetizzare l’imminente tramonto del credo neoliberista. È difficile credere che dall’oggi al domani la fiducia nel libero mercato, che negli Stati Uniti gode di una solida tradizione, possa essere soppiantata da un rinnovato pensiero statalista e dirigista, che peraltro in America non ha mai seriamente attecchito.

Tuttavia, il mondo politico ed economico dovrebbe fare tesoro della lezione offerta dalla crisi del sistema finanziario americano.

L’idea, sviluppata da Friedrich August Von Hayek, secondo la quale ogni sistema sociale, compreso il mercato, trova un ordine spontaneo prodotto dall’interazione degli individui solo se a questi viene assicurato il massimo di libertà, ha rappresentato il principio ispiratore dei teologi del neoliberismo, che hanno magnificato le virtù taumaturgiche della “deregulation” e di un mercato non condizionato dall’intervento dello Stato né vincolato da limiti e condizioni normative: il meccanismo dei prezzi, liberamente determinati dall’incontro della domanda e dell’offerta, è l’unico che realizza una adeguata e rapida circolazione delle informazioni tale da assicurare una ottimale allocazione delle risorse e la massimizzazione dei profitti; così l’economia di mercato è regolata da una “mano invisibile”, fortunata metafora di Adam Smith, che mette fine ad ogni stato di crisi, riequilibrando le asimettrie tra domanda e offerta, e permettendo in ogni fase il raggiungimento dell’ottimo paretiano, in cui il perseguimento del massimo profitto da parte degli individui conduce al massimo di benessere per l’intera società.

Di fatto, il modello liberista classico è completamente utopico. La scienza economica ne ha segnalato i limiti pratici, evidenziando come nella realtà l’informazione sia asimmettrica, cosicché alcune categorie di operatori economici godono di un vantaggio informativo che sfruttano a proprio favore, con evidente distorsione del meccanismo dei prezzi, e come sia quasi impossibile che si verifichino tutte le condizioni affinché la concorrenza sia perfetta (notevole quantità di operatori sia dal lato della domanda che dal lato dell’offerta, omogeneità del prodotto, simmetria dell’informazione, assenza di barriere all’ingresso sul mercato, contrattazioni simultanee).

Il fondamentalismo liberista (o mercatismo, il neologismo coniato da Giulio Tremoni per definire l’ideologia del mercato sovrano) è più una fede che una teoria economica fondata sui fatti, se è vero che le cicliche crisi economiche e finanziarie dell’ultimo secolo si sono sempre risolte con l’intervento provvidenziale dello Stato, come da ultimo il piano di salvataggio approvato dal Senato americano, ansiosamente atteso da Wall Street e dalle borse di tutto il mondo.

La verità è che la storia economica del ventesimo secolo e il primo scorcio del ventunesimo ci insegna che il mercato, se lasciato a se stesso, ciclicamente incorre in crisi in cui stenta a trovare un nuovo salutare equilibrio senza interventi esogeni e che ne mettono a nudo l’incapacità ad autogovernarsi.

Mercato e libertà economica rimangono il metodo migliore per creare ricchezza. Il dirigismo, le economie collettivizzate e pianificate non si sono rivelate altrettanto efficienti, mentre l’interesse individuale e la libertà di impresa costituiscono la più importante leva della crescita economica.

Tuttavia, il mercato, come ogni altro spazio sociale, necessita di regole che lo disciplinino, tanto più che le molle principali degli operatori economici sono il profitto e l’interesse personale e non è così scontato che la spinta egoistica spontaneamente e automaticamente si concili con l’interesse generale (anzi, è più ragionevole pensare il contrario). Credere ad un mercato non regolamentato che possa bene funzionare è come illudersi che il traffico automobilistico sarebbe più scorrevole e con meno incidenti se abolissimo il codice della strada o che per vivere in una società più sicura dovremmo fare a meno del codice penale e abolire tribunali e polizia.

Nel mercato si agitano interessi contrapposti, potenzialmente confliggenti, che richiedono un preventivo contemperamento in norme di comportamento codificate, istanze di regolamentazione dei conflitti ed istituzioni che vigilino sull’osservanza delle regole.

Il perseguimento del profitto non può avvenire ciecamente e deve essere rispettoso del principio “alterum non laedere”. Non possono essere trascurate esigenze di tutela altrettanto meritevoli di considerazione: l’interesse dei risparmiatori e dei lavoratori pretendono, ad esempio, la giusta protezione.

La libertà economica non può esercitarsi disgiuntamente da qualsiasi forma di responsabilità nei confronti della collettività. Ogni iniziativa economica può generare delle esternalità negative, di cui non può farsi carico solo la società. È giusto che gli effetti nocivi ricadano anche e soprattutto su chi ne è colpevole. È inaccettabile che in tempi di prosperità i profitti vengano privatizzati, mentre nei momenti di crisi le perdite siano socializzate.

La competizione non può essere l’unico valore e parametro delle relazioni umane. Senza la concorrenza e il merito non ci può essere efficienza e dinamismo, ma la cooperazione e la solidarietà sono altrettanto indispensabili per tenere unito il tessuto sociale e favorire lo sviluppo economico e non solo, così come la fiducia, che è il prodotto di fattori morali e spirituali.

Vi sono beni pubblici che non possono essere offerti secondo logiche di profitto. Sanità, previdenza, istruzione devono essere messe al riparo dai meccanismi più aberranti del mercato per essere coerenti con le finalità collettive.

Il mercato non è tutto. L’economia non può essere il nostro solo destino. Se è vero che non vi può essere benessere che non sia costruito su sicure base materiali, è altrettanto vero che non esiste una felicità che possa fare a meno di una qualità di vita accettabile. Non si può ridurre ogni cosa al punto di vista economico. Il mondo contemporaneo, in questo periodo più che mai, ha un disperato bisogno di anima e di un forte contrappeso etico all’avido istinto predatorio degli speculatori.


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