La lettura dei libri, di Seneca

di Redazione Antenati - martedì 27 maggio 2003 - 6044 letture

1 Da quanto mi scrivi e da quanto sento, nutro per te buone speranze: non corri qua e là e non ti agiti in continui spostamenti. Questa agitazione indica un’infermità interiore: per me, invece, primo segno di un animo equilibrato è la capacità di starsene tranquilli in un posto e in compagnia di se stessi. 2 Bada poi che il fatto di leggere una massa di autori e libri di ogni genere non sia un po’ segno di incostanza e di volubilità. Devi insistere su certi scrittori e nutrirti di loro, se vuoi ricavarne un profitto spirituale duraturo. Chi è dappertutto, non è da nessuna parte. Quando uno passa la vita a vagabondare, avrà molte relazioni ospitali, ma nessun amico. Lo stesso capita inevitabilmente a chi non si dedica a fondo a nessun autore, ma sfoglia tutto in fretta e alla svelta. 3 Non giova né si assimila il cibo vomitato subito dopo il pasto. Niente ostacola tanto la guarigione quanto il frequente cambiare medicina; non si cicatrizza una ferita curata in modo sempre diverso. Una pianta, se viene spostata spesso, non si irrobustisce; niente è così efficace da poter giovare in poco tempo. Troppi libri sono dispersivi: dal momento che non puoi leggere tutti i volumi che potresti avere, basta possederne quanti puoi leggerne. 4 "Ma," ribatti, "a me piace sfogliare un po’ questo libro, un po’ quest’altro." È proprio di uno stomaco viziato assaggiare molte cose: la varietà di cibi non nutre, intossica. Leggi sempre, perciò autori di valore riconosciuto e se di tanto in tanto ti viene in mente di passare ad altri, ritorna poi ai primi. Procurati ogni giorno un aiuto contro la povertà, contro la morte e, anche, contro le altre calamità; e quando avrai fatto passare tante cose, estrai un concetto da assimilare in quel giorno. 5 Anch’io mi regolo così; dal molto che leggo ricavo qualche cosa. Il frutto di oggi l’ho tratto da Epicuro (è mia abitudine penetrare nell’accampamento nemico, ma non da disertore, se mai da esploratore); dichiara Epicuro: "È nobile cosa la povertà accettata con gioia." 6 Ma se è accettata con gioia, non è povertà. Povero non è chi ha poco, ma chi vuole di più. Cosa importa quanto c’è nel forziere o nei granaî, quanti sono i capi di bestiame o i redditi da usura, se ha gli occhi sulla roba altrui e fa il conto non di quanto ha, ma di quanto vorrebbe procurarsi? Mi domandi quale sia la giusta misura della ricchezza? Primo avere il necessario, secondo quanto basta. Stammi bene.

(Seneca, Lettere a Lucilio, I 2)


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