La guerra / di Thomas More
Il bellum, la guerra, come cosa veramente belluina - sebbene nessuna specie di belve la pratichi cosí di frequente come l’uomo - è profondamente detestata in Utopia, dove, contro l’uso di tutti i popoli, nulla si reputa cosí inglorioso quanto la gloria acquistata con le guerre. Perciò, per quanto si addestrino di continuo in esercizi militari, e non gli uomini solo, ma anche, in giorni stabiliti, le donne, per non trovarsi, al bisogno, disadatti alla guerra, non intraprendono questa da sconsiderati, ma o per difendere il proprio territorio, o per ricacciare nemici che abbiano invaso le terre di amici, o per pietà di un popolo oppresso da tirannide, allo scopo di liberarlo con le proprie forze (e lo fanno per filantropia) dall’oppressione e dalla schiavitú. Vero è che donano il loro aiuto ad amici, non sempre acciocché questi si possano difendere, ma talora anche per rendere le offese patite e vendicarle. Ciò poi fanno solamente nel caso che siano stati consultati essi, allorché la cosa è impregiudicata e, trovandosi giusto il motivo, chiesto e non ottenuto risarcimento, bisogna punire invadendoli i responsabili della violenza. E non si decidono a ciò solo ogni volta che i nemici fan preda a mezzo di scorrerie, ma molto piú ostilmente quando i loro commercianti, dove che sia, o per colpa di leggi ingiuste o per cavillosa distorsione di leggi buone, son vittima, sotto color di giustizia, di ingiusti raggiri. Né fu altra la causa della guerra che, poco prima del nostro tempo, combatterono gli Utopiani a favore dei Nefelogeti contro gli Alaopoliti, se non l’offesa arrecata, pretestando un loro diritto (come a loro pareva), presso gli Alaopoliti a mercanti dei Nefelogeti. Certo, o diritto o violazione di diritto, fu punita con una guerra sí terribile che, aggiungendosi alle forze e agli odii particolari di ognuna delle parti anche l’adesione e i mezzi delle nazioni circonvicine, ne rimasero indeboliti popoli fiorentissimi, o fortemente prostrati, sinché al pullulare di sempre nuovi mali pose alfine termine l’asservimento degli Alaopoliti e la loro resa ai Nefelogeti (ché non per sé lottavano gli Utopiani), popolo che, quando gli Alaopoliti fiorivano, non era certo da paragonarsi con loro. Gli Utopiani puniscono i torti, anche finanziari, fatti ai loro amici, piú aspramente che non i propri; cosí, se per inganno perdono dei beni, sempre che non si abbiano subíto violenza né offese nei corpi, spingon gli sdegni solo fino a rompere i rapporti con quel popolo, finché non dia soddisfazione. Non già che curino i cittadini meno degli alleati, ma sopportano piú facilmente di perdere il danaro proprio che quello di costoro, per la buona ragione che i commercianti loro amici, rimettendoci del proprio, sentono grave la ferita del danno, i propri concittadini invece non perdono se non del tesoro dello Stato e di quanto inoltre era in abbondanza e di soverchio in patria, se no, non sarebbero stati costretti a esportarlo. Da ciò avviene che la perdita passa inosservata dai singoli e sarebbe perciò troppa crudeltà, a parer loro, vendicare tal danno con la morte di molti, mentre nessuno da esso ha da temere disturbo nella vita o nel tenor di vita. Del resto se uno di essi, dove che sia, vien reso inabile o ucciso per offesa altrui, sia che ciò avvenga per opera di privati o di uno Stato, assodata la cosa per mezzo di ambasciatori, non accettano altra soddisfazione che la consegna dei colpevoli, se non, intimano guerra immediatamente. Se son loro consegnati, li puniscono di morte o di schiavitú.
[...]
Una volta fatta tregua, la osservano con scrupolo, sí da non violarla nemmeno assaliti. Le terre di nemici non le devastano, né bruciano le messi, anzi cercano quanto è possibile di non rovinar queste calpestandole con uomini e cavalli, pensando che cresceranno per loro vantaggio. Non fanno male a nessuno che sia senz’armi, se non è una spia, e proteggono le città arresesi, come nemmeno quelle espugnate distruggono, ma fanno morire chi si opponeva alla resa, mettendo in schiavitú gli altri difensori, senza toccare tutta la folla di chi non combatte. Se trovano che qualcuno si è adoprato a persuadere la resa, gli assegnano parte dei beni dei condannati; il resto, venduto all’asta, vien dato agli ausiliari, ché per sé nessuno prende nulla dalla preda. E del resto, al termine della guerra, accollano le spese non agli amici per cui le han fatte, ma ai vinti, e sotto questo titolo si fanno avere in parte danaro, che mettono in serbo per tali bisogni di guerra, in parte poderi, da tenersi per sempre in quel paese, di non piccola rendita. Entrate di tal fatta posseggono ora presso molti popoli, le quali, sorte a poco a poco, per vari motivi, ammontano a piú che 700.000 ducati, e vi mandano col nome di questori alcuni cittadini a viverci splendidamente, facendovi la parte di magnati: molti però ne resta da metter nell’erario, a meno che non preferiscano prestarlo a quello stesso popolo, e spesso glielo lasciano finché è necessario; è raro il caso che richiedano tutto il danaro. Di tali poderi assegnano parte a quelli che, per loro esortazione, affrontano imprese rischiose, quali son quelle che ho mostrato sopra. Se qualche principe prende le armi contro di loro, preparandosi ad invadere la loro giurisdizione, immediatamente gli si fanno incontro con grandi forze fuori del paese: non fanno infatti la guerra nelle proprie terre senza buon motivo, né si danno necessità sí gravi da costringerli a far entrare nella loro isola milizie altrui in aiuto.
Th. More, Utopia, II, La guerra - T. Moro, Utopia, Laterza, Bari, 1982, pagg. 105-107 e 114-115
- Ci sono 0 contributi al forum. - Policy sui Forum -