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La grande bellezza

Un film di Paolo Sorrentino (Italia, Francia 2013) con Toni Servillo, Carlo Verdone, Sabrina Ferilli, Carlo Buccirosso, Iaia Forte, Pamela Villoresi, Galatea Ranzi, Roberto Herlitzka, Isabella Ferrari, Serena Grandi, Lillo Petrolo

di Armando Lostaglio - giovedì 13 giugno 2013 - 4680 letture

“Viaggiare è molto utile, fa lavorare l’immaginazione, il resto è solo delusione e pene. Il nostro viaggio è interamente immaginario, è la sua forza”. E’ questa l’epigrafe da cui muove il film di Paolo Sorrentino “La grande bellezza”, presentato (unico italiano) in concorso a Cannes. Da questo verso di Celine tratto da “Viaggio al termine della notte”, il regista napoletano cerca un sogno perduto nei notturni di una Roma che non ha eguali al mondo. Di una città eternamente incomparabile. Ed è lì che le sequenze si adattano ad una sceneggiatura che non racconta altro se non la ricerca di un ostinato viveur che si ripete: "Cercavo la grande bellezza e non l’ho trovata".

Lui è Jep Gambardella (Toni Servillo, ormai l’alter ego di Sorrentino), uno scrittore che ha pubblicato un solo libro, “L’apparato umano”. E cammina, si perde e si ritrova nella sua spassionata consapevole decadenza, in una delle sue tante riflessioni sulla vita, sul declino, sul disordine pur al cospetto di una città ritratta come meglio non si potrebbe (la fotografia magistrale è di Luca Bigazzi). L’esistenza è fatta di sprazzi di verità e d’incanto, da cogliere magari nel corso di una passeggiata notturna, o alle prime luci dell’alba sul Lungotevere. E sembra che per Gambardella tutto il resto non esista, ed “appare” piacevole farsi cullare dalla rinuncia. Appare, appunto. L’apparenza in una società insaziabile, eccitata e depressa, che espande una allegria senza felicità. E lui, Jep, è quasi un Virgilio del contrasto e del disincanto, mentre ci accompagna in un ossimoro esistenziale quanto reale: un piccolo caduco inferno in una città più bella che mai.

Sorrentino è spietato verso questo mondo di drink e di coca, di feste infelici, di una borghesia che già Fellini aveva messo a nudo con il suo giornalista (Mastroianni) de “La dolce vita”, nel 1960, fra il dopoguerra ed il boom economico. Ed anche lì Roma è la protagonista, come lo saranno i salotti de “La terrazza” di Ettore Scola venti anni dopo. Curiosamente entrambi i film furono premiati a Cannes (il primo con la Palma d’oro). Ma Sorrentino si muove come su una zattera nel vuoto di quest’epoca, una decadenza filmata a rallenti e con uno stile tutto suo, fra veloci piani sequenza interrotti da “carrelli all’indietro”, zoomate prolungate e quiete visioni, che talvolta (volutamente?) conferiscono una certa noia al film; come l’eccessiva roboante festa iniziale per il compleanno di Jep Gambardella, nel quale gigioneggia un bravo Verdone.

E sarà brava pure Sabrina Ferilli, che ascolta il più romano dei cantanti, Venditti (c’è pure lui in un cammeo). Una Roma che non può non essere attorniata da suore svolazzanti e alti prelati. Jep vorrebbe saperne di più dal cardinale (un bravo Herlitzka) sulla vita, su Dio, cerca risposte alle sue domande spirituali, ma non ci saranno mai in questo crepuscolo di valori cui Sorrentino da sfogo con il cinismo di Jep. Ma come si mantiene lo scrittore di un solo libro, che abdica a scrivere per un rotocalco? E come paga la sua casa con vista sul Colosseo? E perché solo quando appare inizialmente parla come un dandy apparentemente effeminato? Saranno piccoli “nei” di un film che rimane esemplare pur nella sua ridondanza. Ma sarà questa la volontà dell’autore nel coinvolgere lo spettatore verso la coscienza di una Bellezza che non meritiamo?


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