La ballata dell’uomo d’onore
A chiudere la serie di spettacoli che il Teatro Stabile di Catania dedica all’attore e direttore palermitano Vincenzo Pirrotta, in apertura della rassegna contemporanea TE.ST, è La ballata delle balate , monologo di un latitante di mafia interpretato dello stesso Pirrotta accompagnato sulla scena dal musicista e compositore Giovanni Parrinello.
Un monologo “a capitoli”, potremmo dire. Nel primo, il latitante se ne sta seduto sulla sinistra della scena, circondato di ceri rossi, con una corona di spine in testa e un rosario in mano; prega, alternando i misteri dolorosi di Cristo (in italiano) e i misteri gioiosi (in siciliano) dei delitti di mafia, accompagnato dal suono martellante del tamburo, sulla destra. Nel secondo quadro, il protagonista ripercorre la propria adolescenza e il momento, durante la Settimana Santa, in cui –parallelamente all’ardente devozione religiosa- cominció a nascere in lui il desiderio di appartenere “alla confraternita”, di essere anche lui “un uomo d’onore”. La terza ballata è un’ode alla poesia del sangue, non quello di Gesú Cristo, “per caritá!” , ma quello dei morti ammazzati per mano sua. L’ultimo momento della confessione è forse il più carico per intensitá della denuncia. “Io sono un generale, un capo di Stato, io non sono un politico, la politica fa schifo”, dice il latitante, solo al tavolo del suo nascondiglio. Ed ecco che la solitudine del mafioso costretto nella propria tana si apre a un mondo di corruzione, di trame e intrecci ben più vasto, fatto di ipocrisie, bugie e moralismi. Anche per questo, dice l’uomo dal buio della cella, la mafia non puó finire: perchè “è un albero che fa sempre fiori”.
Ancora una volta, la denuncia di Pirrotta prende le forme sue più caratteristiche, questa volta senza (o quasi) ricorrere ad altri espedienti di intreccio se non la potenza pura del ritmo e del gesto. La scena è parte attiva di questa costruzione per immagini: le luci, i percorsi, i gesti -accompagnati e sottolineati dalla musica- sembrano assumere la funzione di altri personaggi, tanto che sul palco non sembra esserci una sola voce, ma tante. Particolarmente riuscita la messa in scena delle lettere che il boss incarcerato riceve dalla moglie e dall’amministratore regionale. Anche qui Pirrotta sembra cambiare pelle, riuscendo in pochi tratti e con grande sensibilitá, a farci toccare l’essenza dei personaggi, appena accennati. E infine, la parola. Nel suo ricordare, denunciare, rivendicare e declamare, Pirrotta alterna con estrema padronanza italiano e siciliano, con passaggi violenti, che marcano la continua entrata e uscita dal personaggio. L’una è la lingua “oggettiva” di chi racconta fatti dall’esterno. L’altra la lingua famigliare, intima, privata; la sola nella quale è veramente possibile esprimersi.
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