La Storia e i tribunali
Il controllo giudiziario della storiografia
La Repubblica Ceca ha approvato una riforma penale che prevede il reato di “negazione del genocidio attuato dai comunisti in Cecoslovacchia”; lo storico inglese David Irving rischia seriamente la condanna a numerosi anni di galera perché esprime posizioni scettiche, fino a volte al negazionismo, sullo sterminio degli ebrei durante la Seconda guerra mondiale.
Sono segnali molto pericolosi di una volontà di controllo della ricerca storica da parte dei poteri costituiti, siano essi giudiziari, politici, accademici. Più in generale, serpeggia nel tessuto sociale e culturale la volontà di porre il libero dibattito delle idee sotto il controllo di Nuove Inquisizioni, che in nome del politically correct stabiliscono che cosa si può dire e che cosa no.
Di fronte al rischio delle censure ideologiche, della Storia di Stato, dei Valori Assoluti, va detto con chiarezza che:
l’essere umano si caratterizza in primo luogo per le facoltà del pensare, parlare, comunicare. Ogni controllo esercitato sul pensiero è un controllo integrale sulle vite;
la storiografia, come ogni altro ambito del sapere, è per sua natura dinamica; se uno degli elementi che caratterizzano le scienze empiriche è la possibilità di rivedere le tesi dominanti, tanto più esso vale per le scienze umane;
a portare la storia in giudizio sono sempre stati e sempre saranno i vincitori, e ciò vale sia per i tribunali reali (Norimberga, Milosevic, Saddam Hussein), che per quelli metaforici;
non esistono valori eterni ma ogni criterio umano è delimitato dal tempo e dallo spazio; e anzi in nome dell’assolutezza dei valori sono stati perpetrati ogni volta crimini gravissimi;
uno dei grandi contributi di Nietzsche alla liberazione dell’umano dai suoi vincoli è la constatazione che “direi: no, proprio i fatti non ci sono, bensì solo interpretazioni” (Frammenti postumi 1885-1887); il prospettivismo delle verità implica che anche il soggetto interpretante diventi un’interpretazione, un’invenzione, un’ipotesi e la verità altro non sia che il vagare nomade della mente nel territorio senza limiti della conoscenza e dell’essere;
alle affermazioni storiografiche che vengono ritenute assurde, si risponde con un lavoro di ricerca più rigoroso, con documenti, testimonianze, argomentazioni, e non mettendo in galera chi sostiene una tesi, qualunque sia il suo contenuto;
nel Trattato teologico-politico, Spinoza dichiara che la libertà di espressione deve essere garantita a tutti. Infatti, non potendo le autorità reprimere il pensiero ma solo la sua pubblica manifestazione, ogni divieto condurrebbe all’ipocrisia: la gente penserebbe una cosa e ne direbbe un’altra. A essere controllate debbono essere le azioni, non le opinioni;
il potere guadagna sempre dalla sorveglianza giudiziaria sulle idee -storiche, scientifiche, filosofiche, estetiche che siano...; l’anarchia è prima di tutto, invece, libertà di pensare e dire, senza padroni e senza maestri di Stato.
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A conferma di quanto avevo affermato contro la logica che sottende i Tribunali dei vincitori, ecco un articolo molto chiaro che Danilo Zolo ha dedicato alla morte di Milosevic e a ciò che l’ha preceduto.
La morte di Milosevic nel carcere dei vincitori di Danilo Zolo [13/03/2006]
Fonte:ilmanifesto.it
Slobodan Milosevic è finalmente morto. Il suo cuore, malato da tempo, non ha più retto. E morto solo, in una cella del carcere del Tribunale internazionale dell’Aja, dopo aver chiesto più volte, inutilmente, di essere ricoverato in un ospedale di Mosca. Per lui le porte di quella che può essere considerata la prima "galera globale" della storia non si sono aperte neppure per ragioni umanitarie. Vi era stato rinchiuso nel giugno del 2001, grazie a un blitz della Nato e al forzato consenso del governo jugoslavo di Zoran Djindjic. La consegna dell’ex dittatore al Tribunale dell’Aja era stata posta come una condizione degli aiuti economici promessi dall’Occidente per la ricostruzione del paese sconfitto e distrutto dalla "guerra umanitaria" della Nato.
La procura del Tribunale dell’Aja aveva inizialmente incriminato l’ex presidente jugoslavo per crimini di guerra e per di crimini contro l’umanità. Successivamente il procuratore generale Carla del Ponte aveva aggiunto un ulteriore, gravissimo capo di accusa, quello di genocidio. Di fatto la Procura si era accanitamente impegnata nel demonizzare la figura di Milosevic come quella del primo - se non addirittura l’unico - responsabile delle tragedie balcaniche e come l’autentico architetto della pulizia etnica sia in Bosnia Erzegovina che nel Kosovo.
Sarebbe ingenuo o ciecamente partigiano negare le responsabilità politiche che Milosevic ha avuto nel corso del sanguinoso processo di smembramento della Federazione jugoslava dopo la scomparsa del maresciallo Tito. L’estremismo nazionalistico che ispirava il suo regime, la gestione del paese solo apparentemente democratica, in realtà fondata sulla forza militare, la collusione con organizzazioni illegali sono realtà che gettano ombre sulla figura politica di Milosevic. Tutto questo è innegabile. Ma tutto ciò non attenua le gravissime responsabilità di una assise penale internazionale che ha operato in questi anni non al servizio della giustizia internazionale ma alle dipendenze della Nato e in particolare degli Stati Uniti. La procura generale, sotto la direzione di Louise Arbour, prima, e poi di Carla del Ponte, non ha offerto alcuna garanzia di imparzialità nel giudicare gli imputati serbi, né ha dato prova di autonomia nei confronti delle aspettative dei committenti politici e finanziari del Tribunale.
E’ il caso di ricordare che sin dal 1993 gli Stati Uniti sono stati - e lo sono tuttora - i finanziatori quasi esclusivi del Tribunale, a cui hanno corrisposto imponenti erogazioni in denaro, oltre che aiuti in materiale elettronico e nella fornitura di servizi e di personale specializzato, in aperta violazione del suo Statuto. E occorre considerare che la Procura del Tribunale ha stabilito rapporti di sistematica collaborazione con i vertici dell’Alleanza Atlantica. E questo è accaduto sia prima che dopo la ’guerra umanitaria’ sferrata dalla Nato contro la Repubblica Jugoslava nel 1999. In pratica i reparti della Nato hanno operato come una forza di polizia giudiziaria a favore della Procura del Tribunale, ricevendone segretamente gli atti di incriminazione e provvedendo ad applicarli manu militari. Anche l’estradizione di Milosevic sarebbe stata impossibile senza la loro collaborazione (oltre che di Scotland Yard e dell’Fbi).
E non può essere sottaciuto che, in cambio della sua preziosa collaborazione, la Nato ha ottenuto dal Procuratore Carla del Ponte l’archiviazione delle denuncie presentate contro le sue autorità politiche e militari da autorevoli giuristi occidentali, da una rappresentanza della Duna russa e dal governo serbo. (La Nato era stata accusata di una serie di gravissimi crimini commessi durante i 78 giorni di ininterrotti bombardamenti). E si è trattato di una archiviazione che lo stesso ex presidente del Tribunale, Antonio Cassese, ha severamente criticato. Questa decisione ha offerto la prova decisiva del carattere politico della giurisdizione del Tribunale. Del resto, il giorno successivo all’estradizione di Milosevic, Carla Del Ponte aveva comunicato con orgoglio di aver ricevuto le congratulazioni di Madeleine Albright, da lei affettuosamente chiamata ancora una volta, come era consuetudine fra il personale del Tribunale, the mother of the Tribunal, la " madrina del Tribunale".
Il ruolo che i vincitori hanno assegnato a Milosevic è stato quello del capro espiatorio. La stigmatizzazione e la degradazione morale del nemico sconfitto in vista del suo annientamento come vittima sacrificale - ci ha insegnato Réné Girard - ha un effetto redentivo, diffonde sentimenti di sicurezza e circonda i vincitori di una aureola di trascendente innocenza e moralità. Tutto questo, naturalmente, non dovrebbe avere nulla a che fare con le funzioni di una giurisdizione internazionale. E non ha nulla in comune con una politica di pacificazione e di riscatto dei paesi balcanici e di rinascita della Serbia, il paese più gravemente devastato dalla aggressione della Nato del 1999. Del resto, la ’guerra umanitaria’ voluta dalla Nato non ha mai arrestato la violenza e lo spargimento del sangue. Come ogni altra guerra, la guerra del Kosovo ha lasciato una lunga scia di odio, di paura, di corruzione, di miseria e di morte. La protezione dei diritti dei cittadini kosovaro-albanesi non era l’obiettivo reale della Nato, come non lo era l’arresto della "pulizia etnica". Essa è continuata spietatamente, ma in direzione inversa: contro i serbi sconfitti, da parte dei terroristi dell’Uçk, dell’Uçpmb e delle milizie del Tmk. E ciò è accaduto nonostante la presenza in Kosovo di massicci reparti militari sotto il controllo della Nato.
Oggi, la scomparsa di Milosevic, lungi dall’aprire la strada alla rinascita del paese serbo e al rafforzamento della democrazia nella ex Jugoslavia - una tesi che è stata sostenuta da Javier Solana, uno dei massimi responsabili della tragedia del Kosovo -, può far precipitare la situazione. Non è improbabile che l’Occidente colga l’occasione per dare la spinta definitiva al processo di separazione del Kosovo dalla patria serba e alla nascita di uno Stato indipendente, inevitabilmente condizionato dalle forze estremistiche di ascendenza Uçk. E questo potrebbe portare al definitivo collasso della Repubblica Federale Jugoslava, con il distacco del Montenegro e della Voivodina, ormai attratta nell’orbita neo-atlantica dell’Ungheria, e a una serie di nuove turbolenze nazionalistiche.
Un eccellente articolo di Aldo Giannuli sul numero 4/9 della rivista anarchica Libertaria (ottobre-dicembre 2007, pagine 53-62) affronta il tema in modo approfondito e argomentato.
Si intitola Negazionismo: proibito proibire
http://www.libertaria.it/sommari/sommario4_07.htm