La Commissione parlamentare antimafia e il puzzle stragista
Quando, nel dicembre 1962, fu approvata la legge n. 1720 che decretava la nascita della prima Commissione parlamentare antimafia, si era alla quarta legislatura della storia repubblicana, ma la questione di uno strumento parlamentare d’inchiesta era tutt’altro che nuova
Già nel 1948, anno della strage di Portella della Ginestra, fu proposta la nascita di una commissione ad hoc, e altre ne seguirono nel corso degli anni Cinquanta; tuttavia, furono tutte respinte dalla maggioranza politica, in particolar modo dalla Democrazia cristiana, poiché ritenute inutili, propagandistiche e, soprattutto, offensive per la Sicilia e i siciliani, secondo uno schema consolidato che giungeva dalla fine dell’Ottocento. Al tramonto del XIX secolo, infatti, si era nel periodo del delitto Notarbartolo, delle accuse all’onorevole Raffaele Palizzolo, prima incriminato e poi assolto, attorno al quale si strinse una rete di difensori che fece leva sul “sicilianismo”, sull’offesa alla regione e ai suoi abitanti, sulle inaccettabili ombre che la stampa settentrionale gettava sulla collusione tra mafia e politica. Nume tutelare di questa campagna difensiva nei confronti di Palizzolo fu l’etnologo Giuseppe Pitrè che scrisse sulle pagine del “Giornale di Sicilia”: «ora non si parla della Sicilia senza parlare di mafia; e mafia e Sicilia sono la stessa cosa».
Decenni dopo, la situazione pareva invariata, ma si giunse comunque a decretare la nascita di un organismo parlamentare che ha attraversato diverse legislature – con l’eccezione della settima, tra il 1976 e il 1982 – nel corso delle quali, con alterne vicende e fortune, ha raccontato le vicende mafiose del nostro Paese, raggiungendo anche risultati importanti. A tale proposito, vale la pena ricordare che, durante la presidenza di Francesco Cattanei (esponente DC), la prima Commissione antimafia elaborò una relazione finale piuttosto illuminante e lucida, pubblicata al termine del mandato nel 1972. In questo documento si leggeva, fra le altre cose: «la mafia ha sempre saputo sopravvivere e prosperare in ambienti anche diversi da quello in cui ebbe origine; e in tanto ha potuto farlo, in quanto si è continuamente riproposta come esercizio di autonomo potere extralegale e come ricerca di uno stretto collegamento con tute le forme di potere e in particolare di quello pubblico, per affiancarsi ad esso, strumentalizzarlo ai suoi fini o compenetrarsi nelle sue stesse strutture. Questa ricerca di collegamenti rappresenta l’elemento specifico della mafia rispetto ad altre forme di potere extralegale e si ritrova naturalmente anche nelle manifestazioni attuali del fenomeno».
Difficile fraintendere il senso delle parole dell’organismo presieduto da Cattanei, peraltro il più lucido e coraggioso fra quelli emersi dalla prima commissione, anche in considerazione del ben più scialbo approdo dell’istituzione affidata, in seguito, a un altro democristiano, Luigi Carraro, che portò a due relazioni di minoranza – quella del PCI e quella del Movimento sociale – molto critiche verso il documento conclusivo di maggioranza. In quelle parole, è presente l’esito di una riflessione alla quale, ormai, sono giunti gli studiosi del fenomeno (sociologi, storiografi ecc.), oltre che le inchieste giudiziarie, le analisi di giornalisti da anni impegnati a raccontare la vicenda mafiosa, ossia che le relazioni tra consorterie criminali e politica sono strettissime, le une non potevano che sopravvivere e consolidarsi senza l’altra, alla quale ultima quelle consorterie facevano comodo, a partire dal serbatoio di consensi elettorali che potevano portare.
Come per altre istituzioni votate a indagare la questione delle mafie, ad esempio la Dia, pure le lunghe relazioni conclusive elaborate dalle commissioni antimafia paiono scorrere via senza lasciare traccia o senza diventare elementi reale di allarme sociale e politico. Nel 2018, la pur discussa commissione guidata da Rosy Bindi affermava al compimento della legislatura: «se la mafia è più debole, la società però è più mafiosa di una volta». Allerta, per tanti aspetti, ignorato o sottovalutato; è quanto mai evidente che il Paese abbia conosciuto un graduale abbassamento della coscienza diffusa del bene pubblico, a vantaggio di comportamenti collusivi e correi che tendono a rendere sempre più labile il confine tra homo sapiens e homo mafiens a tutti i livelli della scala sociale. La stessa Bindi, in altro contesto, ribadiva che «la pericolosità della mafia allo stato attuale è nel suo essere una presenza silenziosa e in qualche modo accettata, della quale sembra di non poter fare a meno» e invocava la creazione di un nuovo senso di cittadinanza (intervento alla scuola di formazione politica del Meic, ottobre 2019).
Tanti allarmi, tanta lucidità, tanti risultati, ormai ampiamente consolidati, paiono essere, almeno in parte, espunti dall’attuale Commissione parlamentare antimafia, guidata dalla deputata di Fratelli d’Italia, Chiara Colosimo, insediatasi a partire dal maggio dello scorso anno. La presidente dell’organo di inchiesta parlamentare era già stata ampiamente criticata all’atto della sua nomina, in particolare per una fotografia che la ritraeva accanto a Luigi Ciavardini, figura di spicco dell’eversione nera e accusato, fra le altre cose, della strage di Bologna. Un’immagine che lei stessa aveva commentato osservando che «le pose delle fotografie non sono molto istituzionali», ma minimizzando, di fatto, la questione.
Nelle ultime settimane, la Commissione antimafia è stata nuovamente oggetto di critiche da parte di un cospicuo numero di protagonisti lesi dalle vicende stragiste che hanno insanguinato l’Italia e che attendono ancora una risposta per lenire, almeno un poco, la rabbia pluridecennale dei famigliari delle vittime. Lo scorso 31 ottobre, presso la Sala Nassiriya del Senato, è stata organizzata una conferenza stampa dal titolo “vogliamo tutta le verità sulle stragi”, moderata dalla giornalista Stefania Limiti, e alla quale sono intervenuti, fra gli altri, Salvatore Borsellino, Paolo Bolognesi, presidente dell’Associazione familiari vittime strage alla stazione di Bologna, Federico Sinicato, presidente dell’Associazione familiari vittime strage di piazza Fontana, Daniele Gabrielli, vice-presidente dell’Associazione familiari vittime strage di via dei Georgofili, Sergio Amato, figlio del magistrato Mario, ucciso a Roma nel giugno del 1980, Brizio Montinaro, fratello dell’agente di scorta di Falcone, Antonio, Nino Morana, familiare di Nino Agostino, ucciso insieme alla moglie Ida Castelluccio da Cosa nostra, Daniele Marcone, dell’ufficio di presidenza di Libera. Tra il pubblico erano presenti Paola Caccia, figlia del magistrato ucciso a Torino nel 1983 dalla ‘ndrangheta, Stefano Mormile, fratello di Umberto, educatore carcerario ucciso a Milano dalle cosche calabresi al Nord, e Giuseppe Conte.
Anticipata da una lettera aperta di Salvatore Borsellino, che ne premetteva i temi e controfirmata da larga parte dei convenuti alla conferenza stampa, quest’ultima si è incardinata su alcuni aspetti messi in evidenza, durante il suo intervento, dallo stesso fratello del magistrato ucciso nel luglio ’92: «noi vogliamo verità e giustizia. A questo non si può arrivare circoscrivendo i lavori della commissione alla sola strage di via D’Amelio. Non si può cestinare la richiesta di Scarpinato su un approfondimento sul ruolo di apparati statali e di eversori di destra. Non si possono escludere parlamentari della Commissione con la scusa di pretese incompatibilità. Si vuole allontanare Scarpinato che ha speso la sua vita combattendo la mafia».
I tre aspetti sono legati fra loro, ma si vada con ordine. Il primo richiamo di Salvatore Borsellino è a un metodo di lavoro della commissione via via orientato a isolare l’omicidio del fratello magistrato, tranciando i legami che potrebbe avere, e ha, con altre vicende stragiste del nostro Paese, e percorrendo la pista mafia-appalti cara a chi preferisce, appunto, un’analisi riduzionista dell’attentato. Analisi che, di fatto, azzererebbe le responsabilità degli apparati di sicurezza e del neo-fascismo, in particolare di quel Paolo Bellini coinvolto – secondo quanto stabilito da una sentenza di primo e di secondo grado – in prima persona nella strage della stazione di Bologna e nelle “trattative” mafiose degli anni Novanta. Una posizione, quella di Borsellino, portata avanti con coerenza e con coerenza posta al centro di un volume da lui curato, scritto a più mani e orientato a far emergere le ombre del sangue che ha innaffiato questa penisola: la “Repubblica delle stragi” (PaperFirst, 2018). Nella premessa al volume, il fratello del magistrato scrive: «È infatti ormai evidente come le grandi stragi di mafia e terrorismo, in Italia, siano segnate da un filo che, oggi, non è poi più tanto invisibile».
Quel filo che la scelta della Commissione antimafia pare, invece, voler recidere. Una scelta che trova critico anche l’avvocato Federico Sinicato, presidente dell’associazione legata alla strage di piazza Fontana, il quale chiede che si istituisca «una Procura nazionale centralizzata per le indagini sulle stragi», che, anziché parcellizzarle, unisca le conoscenze che in trent’anni si sono costruite e sovrapposte le une alle altre. E l’avvocato chiama in causa Roberto Scarpinato, senatore pentastellato ed ex magistrato, saldando i tre punti del discorso di Borsellino, ossia richiamando le grandissime competenze di un uomo che ha operato per decenni contro la mafia e che rischia di rimanere fuori dai lavori della Commissione antimafia. Perché? Questo è il terzo punto del discorso di Borsellino. Ci si riferisce a una proposta di legge del centro-destra in base alla quale dovrebbero essere esclusi dai lavori quei membri della Commissione antimafia che si trovano in condizioni di incompatibilità, in un qualche conflitto d’interesse. In sostanza, la proposta di legge andrebbe, per ragioni diverse, a colpire Scarpinato e Federico Cafiero de Raho, già procuratore nazionale antimafia e, attualmente, deputato pentastellato.
È questo che ha mosso i convenuti alla conferenza stampa a redigere una lettera aperta e a precisare, nella Sala Nassiriya del Senato, la loro indignazione dinanzi alle scelte dell’attuale Commissione antimafia. Non solo è stata ribaltata sulla presidente Colosimo la questione del conflitto d’interessi – con un continuo richiamo ai suoi «atteggiamenti confidenziali» con Ciavardini –, ma si è ribadito il supporto a Scarpinato e a Cafiero de Raho, in nome di una ricerca della verità dei fatti che gli orientamenti dell’organismo guidato dalla Colosimo rischiano di vanificare. In tal senso, Sergio Amato, figlio del magistrato Amato – per il cui omicidio è stato condannato proprio Ciavardini insieme a Gilberto Cavallini, condannato anche per la strage di Bologna – osserva che «l’Italia è al centro di un sistema criminale che viene raccontato poco e male. Noi familiari delle vittime delle stragi siamo stufi di sentirci dire che i Nar (a cui apparteneva Ciavardini, N.d.R.) erano ‘spontaneisti’ […]. È dagli anni ’60 che abbiamo prove di connivenza di neofascisti e criminalità organizzata. Allo stesso modo volete forse farci credere che erano spontaneisti anche i corleonesi?»
Il richiamo di Amato allo ‘spontaneismo’ fa riferimento, in modo critico, a un’analisi dell’azione terroristica della destra radicale secondo la quale quest’ultima sarebbe nata, appunto, spontaneamente, e che evita di inquadrare il fenomeno dei Nar all’interno di un progetto eversivo più ampio e soprattutto, lungi dall’essere spontaneo e dal basso, organizzato dall’alto e nell’ombra. Al di là della precisazione, ciò che conta è il fatto che chi, per decenni, ha dovuto occuparsi suo malgrado delle stragi della Repubblica italiana ha sviluppato una certa consapevolezza, ossia che quelle a cui sono legati i partecipanti alla conferenza stampa del 31 ottobre sono vicende intrecciate tra loro, in cui ricorrono nomi e figure, modus operandi e depistaggi.
È Paolo Bolognesi, rievocando la già citata figura di Paolo Bellini, a tracciare una linea continua dell’intero percorso che va da piazza Fontana alle stragi mafiose dei primi anni Novanta e a precisare: «Bologna è un seguito che viene fuori dopo aver analizzato piazza Fontana, piazza della Loggia, Italicus, e poi si arriva a Gioé, alle stragi del 1992 e del 1993». E aggiunge con un commento amaro e preoccupato: «quello che è venuto fuori oggi è un invito alla Commissione antimafia di fare le cose fino in fondo, perché il collegamento tra il passato e il futuro c’è tutto. Non è escluso che noi siamo ancora nella strategia della tensione».
Difficile dire se si sia ancora nella strategia della tensione. Il rischio di una virata antidemocratica pare, a chi scrive, meno rilevante di cinquant’anni fa, essendosi largamente svuotato di significato reale il comparto dei diritti politici e sociali, essendo venuta meno la concreta opera di opposizione di quei segmenti sociali e politici – partiti della sinistra, sindacati, operaismo, protesta studentesca ecc. – che avevano ispirato la strategia della tensione in senso autoritario. Una cosa è certa: il passato così come è stato riletto e semplificato, volutamente semplificato, da chi non vuole scoperchiare il pentolone ribollente della ragion di Stato o del contro-Stato, non convince più. L’esercizio politico delle stragi, il coinvolgimento a vario livello dei poco fedeli servitori dello Stato e del blocco dell’eversione nera, oltre che di altri organismi quali la massoneria e le mafie, nell’opera di destabilizzazione della democrazia e di riequilibrio dei poteri forti sulle pressioni dal basso è un dato che balza fuori con ogni evidenza non appena si uniscano i puntini da uno a dieci della nostra storia nazionale. Ed è proprio questo che l’attuale Commissione antimafia ricusa di fare, unire i puntini, e pare dedicarsi, invece, allo smontaggio del puzzle, isolando i fatti, recintandoli in uno spazio autoreferenziale e più rassicurante, dando loro quel gusto di dettaglio che, senza contesto generale, può essere assunto come una vicenda autoconclusiva e priva di logica unitaria.
In questo quadro statico e cristallizzato, è possibile far apparire cattivi i soli mafiosi, nemici giurati dello Stato, depositario del bene pubblico e, da sempre, orientato a eliminare senza reticenze i malvagi dallo Stivale, nel nome degli interessi superiori dei suoi cittadini.
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