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L’urlo e il furore

Un proverbio siciliano recita: I pecuri si cuntanu â fine. Ossia, i conti si fanno alla fine.

di Piero Buscemi - mercoledì 11 novembre 2020 - 2171 letture

I libri, non sempre, riescono a dare le risposte che cerchiamo invano durante lo scorrere del tempo. Tra i tanti che ci sono passati e che, fortunatamente, ci passeranno tra le mani, abbiamo raccolto stralci, parole, pensieri che sono diventati nostri e nei quali ci rifugiamo quando i dilemmi dell’esistenza non riescono più a semplificarci la quotidianità.

Tra le tante frasi lette che hanno colpito la nostra sensibilità, vogliamo proporre ai nostri lettori un pensiero scritto dallo scrittore William Faulkner, tratto dal romanzo al quale abbiamo preso in prestito il titolo per questo articolo: Perché le battaglie non si vincono mai. Non si combattono nemmeno. L’uomo scopre, sul campo, solo la sua follia e disperazione, e la vittoria è un’illusione degli stolti e dei filosofi (William Faulkner, L’Urlo e il furore, 1929).

Non sappiamo con certezza se l’ispirazione che ha guidato la mano a scrivere questa considerazione sia stata dettata da un sentimento pacifista, che la metafora utilizzata nel libro è servita a rendere meno cruda. È inevitabile però accostarla ad una contrarietà di pensiero nei confronti della guerra. Vogliamo crederlo e ci illudiamo che fosse così, a costo di prendere a prestito anche l’interpretazione del messaggio dello scrittore statunitense, riconoscendogli il diritto postumo di una libertà di pensiero che non debba necessariamente coincidere con la nostra.

Abbiamo voluto citare Faulkner innanzitutto perché era americano, ha vissuto le due guerre mondiali ed in parte anche una delle esperienze belliche più crudeli quale fu la guerra del Vietnam. Lo abbiamo voluto scomodare per provare a ipotizzare i prossimi anni di politica americana del post-Trump, tra i messaggi di speranza e ottimismo che l’elezione del nuovo presidente americano Biden ha suscitato nell’opinione pubblica internazionale.

L’aspetto sul quale vogliamo soffermarci tra congetture di cambiamento, di nuovi risvolti politici e di una diffusa certezza di stare per percorrere in ogni caso una strada meno accidentata e sanificata da eccessive e scorrette esternazioni di razzismo, di omofobia e di maschilismo che Trump di ha propinato quasi giornalmente durante il suo mandato, è la politica estera che il nuovo presidente si appresterà a gestire.

È inutile negare che, quando si nominano gli Stati Uniti e li si collega ai rapporti con l’estero, è diffuso il sentore di un probabile nuovo conflitto bellico in un altro angolo del mondo. Un condizionamento del giudizio diffuso verso gli americani, magari a volte anche eccessivamente prevenuto, ma che trova i suoi saldi motivi nei due secoli e mezzo di storia che hanno visto gli USA costantemente impegnati ad imbracciare le armi per il solito e inflazionato motivo della democrazia a stelle e strisce da dovere obbligatoriamente esportare in qualche paese del Terzo mondo.

Valutando l’operato di Donald Trump e gli eventi verificatisi durante il suo mandato, potremo fingere di tralasciare le palesi manifestazioni di intolleranza nei confronti degli strati più poveri del mondo, la "distanza sociale" voluta con il confine messicano, le sue considerazioni personali nei confronti dell’altro sesso, l’impatto mediatico scelto nei confronti dell’espandersi della pandemia, la violenza nelle strade sulle quali spesso sono rimaste vittime persone di etnia afro-americana, la volontà di allontanarsi dai principi sottoscritti sul clima con l’Accordo di Parigi, tanto per citare solo alcuni aspetti della politica del miliardario americano.

Vogliamo però concentrarci sulla politica estera del suo governo, quella che inevitabilmente ricade sui destini di tutto il resto del mondo e che coinvolge anche l’Europa negli accordi e nei disaccordi con le altre nazioni. Una delle prima azioni di Trump è stata quella di riconoscere Gerusalemme quale capitale dello Stato di Israele, un palese messaggio diretto alla Palestina, confermato anche dall’uscita degli Stati Uniti dall’Unesco ritenuta un’organizzazione anti-israeliana. Altro passo significativo è stato l’incontro con Kim Jong-un, leader nordcoreano che negli ultimi anni ha rappresentato il simbolo di un ritorno minaccioso al rischio di una guerra nucleare.

Donald Trump ha avuto anche il tempo per annunciare il ritiro di duemila soldati americani dalla Siria. Non contento, ha scelto la giornata della ricorrenza del tentativo di invasione di Cuba alla Baia dei porci, avvenuto il 17 aprile 1961, per annunciare la sua politica nei confronti del paesi dell’America Latina e in modo particolare proprio Cuba, che ha previsto nuove limitazioni di viaggi e trasferimenti di denaro, ribaltando la politica di avvicinamento nei rapporti tra Usa e Cuba, voluta da Barack Obama. Sicuramente, però, l’operazione militare più eclatante è stata quella rivolta all’Iran quando a inizio di gennaio di quest’anno ha ordinato il bombardamento a Baghdad che ha causato la morte del generale iraniano Ghassem Soleimani.

Fatto questo breve riepilogo dei fatti salienti ricadenti nei quattro anni di presidenza Trump, occorre sottolineare che rifacendoci alla storia americana, sia interna che esterna citata sopra, la guerra ha sempre rappresentato il messaggio di potenza incontrastata degli Stati Uniti, elemento così determinante e influente nelle sorti del mondo da avere fatto supporre che l’industria bellica statunitense occupi una fetta importante del PIL nazionale.

La nuova impennata terroristica registrata in Europa in questi mesi, l’attacco dialettico di Erdogan nei confronti della Francia di Macron, l’inasprirsi del mai concluso conflitto in Afghanistan, la nuova base militare realizzata in Niger dagli Stati Uniti (vedi articolo "La nuova base militare americana in Niger" di Antonio Mazzeo, Girodivite 4 novembre 2020) e tutte le altre situazioni internazionali di emergenza umanitaria a causa delle guerre, ci fanno chiedere quali sviluppi avremo in tal senso con l’insediamento del nuovo presidente Joe Biden.

La Storia ci ha insegnato a fare i conti con quella sorta di istinto "la miglior difesa è l’attacco" che ha etichettato il popolo americano con un semplicistico attributo di guerrafondaio. E, come già detto, i conti si fanno all’ultimo. Avremo quattro anni di tempo per constatare l’inversione di tendenza che il mondo si auspica?


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