L’uomo e il leone, di Aulo Gellio

di Redazione Antenati - sabato 16 aprile 2005 - 9016 letture

Mentre il mio padrone - disse - governava la provincia d’ Africa con la carica di proconsole, io là fui costretto alla fuga dalle sue ingiuste fustigazioni quotidiane, e mi ritirai in campagne e distese di sabbia deserte. Allora, poiché il sole di mezzogiorno era rabbioso e infocato, imbattutomi in una caverna fuori di mano e nascosta, vi penetrai e mi nascosi. E dopo non molto, alla medesima caverna, arrivò questo leone, con una zampa ferita e sanguinante, emettendo gemiti e lamenti che esprimevano il tormento della ferita. Dopo che il leone, entrato in quella che era - come risultò chiaro dalla situazione stessa - la sua tana, mi vide cercar di nascondermi in fondo, mi si avvicinò mite e mansueto e sembrò mostrarmi e porgermi la zampa sollevata come per chiedere aiuto. Allora io estrassi una enorme scheggia di legno conficcata nella pianta della sua zampa, feci uscire dal fondo della ferita il sangue infetto formatosi e con una certa cura, ormai senza grande timore, la asciugai a fondo e la ripulii del sangue rappreso. Allora il leone, confortato da quella mia opera di medicazione, posta la zampa fra le mie mani, si sdraiò e si addormentò, e da quel giorno io ed il leone vivemmo per tre anni interi nella medesima caverna ed anche del medesimo cibo. [...] Nel Circo Massimo c’erano molte bestie feroci, e tutte avevano una prestanza o una ferocia mai viste. Ma più di ogni altra cosa fu motivo di ammirazione la smisurata grandezza dei leoni, e più di tutti gli altri leoni uno in particolare. Quel solo leone, per l’irruenza e per la stazza del corpo, per il ruggito terrificante e potente, per i muscoli e per la criniera ondeggiante, aveva attirato su di sé l’attenzione e gli sguardi di tutti. Era stato introdotto tra parecchi altri, destinato al combattimento con le bestie, il servo di un uomo di rango consolare; quel servo si chiamava Androclo. Quel leone, quando vide costui da lontano, all’improvviso rimase fermo, quasi meravigliato, e poi a poco a poco e con calma si avvicinò all’uomo come cercando di riconoscerlo. Poi incomincia a muovere la coda tranquillamente e docilmente, come i cani che fanno le feste, a strofinarsi contro il corpo dell’uomo e a leccare dolcemente con la lingua le gambe e le mani di lui, già quasi mezzo morto dalla paura. L’uomo, Androclo, tra le effusioni di quella belva tanto terribile, recupera il coraggio perduto, a poco a poco volge gli occhi per osservare il leone. Allora, come se si fossero riconosciuti a vicenda, l’uomo ed il leone furono visti da tutti scambiarsi, felici, effusioni d’affetto.

(Aulo Gellio, Noctes Atticae, 10. 6. 2-3)


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