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L’origine e il successo delle mafie

Cosa accadde, dunque, agli albori delle mafie, e perché accadde proprio in quelle regioni che fecero da culla alla mafia siciliana, alla ‘ndrangheta e alla camorra e non altrove, in altre regioni meridionali, altrettanto e anche più povere?

di francoplat - mercoledì 19 aprile 2023 - 1530 letture

«Professore, perché la mafia dura da così tanto tempo»?

Questa domanda, posta da una studentessa brillante e curiosa, non può rimanere inevasa, per quanto il professore in questione non abbia armi così affinate da soddisfare quella legittima e invidiabile curiosità. Invidiabile, s’intende, rispetto a una parte del Paese a cui i conti con il presente, che non possono prescindere da quelli con il passato e la memoria, paiono interessare poco o, nel peggiore dei casi, per nulla. La domanda resta, però, e il professore spulcia documenti e analisi, cercando di trovare in quelle righe qualcosa di plausibile e fondato, qualcosa di affidabile sul piano della ricostruzione storica di un fenomeno per sua natura nascosto a metà, ossia sufficientemente criptico da non essere smascherato e sufficientemente visibile per imporre il proprio dominio e affermare la propria presenza territoriale. Spulciando, quel professore si imbatte in un volume datato ma non antico, l’Atlante della corruzione, uno dei volumi, il primo, curato da Enzo Ciconte, Francesco Forgione e Isaia Sales (Rubbettino editore, 2012). Il saggio d’apertura, Le ragioni di un successo, è forse utile all’intelligenza del problema posto dalla discente, come attesta già il titolo, legato appunto alla durata plurisecolare delle consorterie criminali e alla loro espansione mondiale. Un fenomeno, come scrivono gli autori, «che si presenta sulla scena della storia meridionale e italiana nella prima metà dell’Ottocento, che si consolida soprattutto dopo l’Unità della nazione nella seconda metà dell’Ottocento e che conosce, poi, un successo negli Usa nella prima metà del Novecento e un successo planetario nella seconda».

Cosa accadde, dunque, agli albori delle mafie, e perché accadde proprio in quelle regioni che fecero da culla alla mafia siciliana, alla ‘ndrangheta e alla camorra e non altrove, in altre regioni meridionali, altrettanto e anche più povere? Perché quelle aggregazioni di criminali poterono attraversare indenni una storia più lunga della stessa storia unitaria italiana? L’approccio analitico scelto dagli autori è quello di non leggere separatamente le vicende delle tre consorterie mafiose, ma di riflettere sui loro aspetti comuni, su quello che chiamano “modello mafioso”, sicuramente di successo vista la capacità di tale modello di radicarsi ben lontano dai suoi luoghi di origine e di trovarsi a proprio agio nell’odierna economia globalizzata, distante anni luce dal latifondo presso il quale esso si radicò e sviluppò. Talmente a proprio agio «che il termine mafia è oggi un termine della globalizzazione e indica il peso che nei suoi equilibri sta conquistando la violenza privata organizzata (…). Hanno, cioè, successo quelle criminalità organizzate che riescono a integrarsi nella società in cui operano fino a esserne una delle forme di regolazione». Tale precisazione serve agli autori, fra le altre cose, per sottolineare quanto sia ormai analiticamente scorretto continuare a stabilire un raccordo indissolubile tra mafia e Sicilia, come se lo statuto identitario di quella terra non potesse che essere raccordato alla mafiosità, tratto antropologico appannaggio dei siciliani. Ciò senza contare il successo plurisecolare di altri fenomeni mafiosi, come quella turca, le Triadi cinesi e la Yakuza giapponese.

Tornando al discorso centrale, è proprio alla violenza privata organizzata, ossia all’uso della forza intimidatoria, e non solo, esercitata da gruppi privati e distinta dal monopolio della forza pubblica, che bisogna guardare per comprendere la genesi delle mafie e del modello mafioso. Quanto a quest’ultimo, viene riconosciuto in cinque fattori peculiari, comuni a tutte le consorterie e, più precisamente, nel riconoscimento sociale interclassista, ossia trasversale dall’alto al basso della scala sociale; nella collusione con la politica; nell’iniziativa economica diretta o indiretta; nella presenza di un’ideologia nobilitante; nella struttura ordinamentale, ossia nella costruzione di un’organizzazione avente propri statuti e regole. A partire da tali fattori, pur con inevitabili difformità passando da una mafia all’altra, è possibile provare a raccontare quali siano state le condizioni attraverso le quali si rese possibile l’affermazione delle mafie nel Sud Italia, a partire dal primo Ottocento, secondo quando ormai pare accertato in sede storiografica. La genesi mafiosa è, infatti, rinvenibile in un momento storico ben preciso, ossia il momento in cui il vecchio sistema feudale, organizzato attorno al latifondo retto dai baroni meridionali, crollò a seguito delle leggi che ne determinarono la fine nel 1806 nel Regno di Napoli e nel 1812 in Sicilia. E proprio a partire da questo momento che, nel trapasso da un vecchio ordinamento socio-economico ai nuovi assetti della proprietà fondiaria, che si sprigionarono nuove forze sociali, nuovi soggetti che si inserirono nelle dinamiche post-feudali. È dai ceti sociali più bassi, inizialmente, che si formarono aggregazioni capaci di collocare la loro violenza privata organizzata accanto a quella ormai decaduta del baronaggio, cercando di affermarsi proprio in virtù di tale potere intimidatorio, non di rado usato dalle stesse istituzioni borboniche come fattore di regolazione della vita associata e, agli albori dell’Unità d’Italia, recuperato dal nuovo ceto dirigente. Ne dà testimonianza, ad esempio, quanto fece con la camorra Liborio Romano, ministro della polizia borbonica, al tempo dell’ingresso di Garibaldi nell’antica capitale del Regno; un accordo con la malavita organizzata, tipico uso delle mafie come instrumentum regni, assegnando loro funzioni, per così dire, di ordine pubblico.

Insomma, pur se più tardi rispetto ad altre realtà europee, il vecchio regime feudale nel Sud d’Italia implose e aprì spazi e occasioni per quanti, dal basso, furono capaci di profittare della nuova situazione, raccogliendo, in tal modo, tanto una sorta di consenso ammirato da parte dei ceti meno abbienti quanto un’interlocuzione dialettica con il notabilato locale e nazionale. All’indomani delle leggi che spazzarono via l’antico regime feudale, gli homines novi si misero al soldo di quanti tra i proprietari di terre, ora rese più dinamiche in termini di proprietà, avessero bisogno di protezione. Accanto ai gabellotti, intermediari dei latifondisti, si muovevano i campieri, in Sicilia, o gli “industrianti” calabresi; è tra questi uomini che va rinvenuta la radice delle mafie, furono loro che assunsero, in forma privata, quella violenza che, nei secoli addietro, era stata espressione dei baroni, una violenza che si privatizzava e che consentiva carriere dal basso. «Prima la violenza era al servizio di chi rappresentava lo Stato, ora si mette al servizio della proprietà. Dal feudo passa al mercato». E, in seguito, passerà dalla proprietà al voto, quando cioè si affermerà gradualmente l’allargamento della base elettorale dell’Italia unita.

Quella espressa sin dagli albori delle mafie, che almeno sino al 1865 – data in cui la parola “maffia” compare per la prima volta in un documento ufficiale, a firma del prefetto di Palermo Antonio Filippo Gualterio, dopo essere stata in realtà già evocata in una rappresentazione teatrale, “I mafiusi di La Vicaria” di Giuseppe Rizzotto, 1862 – non avevano tale denominazione, è una violenza che viene definita di “relazione” o di “integrazione”. Si tratta, cioè, non di una forza minacciosa e ostile agli assetti ordinari della società, non di una fiammata rivoltosa simile a quella dei briganti, quanto piuttosto di un mezzo attraverso il quale le consorterie mafiose hanno cercato, riuscendovi, di integrarsi nella società anziché separarsi da essa, di stabilire dei legami proficui per la loro sopravvivenza e il loro consolidamento anziché porsi al di fuori della società e al di là della legge. La violenza mafiosa, spesso minacciata e talvolta attuata, è stato uno straordinario strumento grazie al quale le cosche sono riuscite a stabilire delle relazioni con i ceti dirigenti e la componente più abbiente della società e, inoltre, di rappresentare agli occhi dei ceti meno agiati un modello di scalata sociale da invidiare.

Al di là di ricostruzioni semplicistiche e ormai superate, le mafie non hanno mai rappresentato un sistema anti-statuale, una forza eversiva: «mentre alcune forme di contestazione armata si sono manifestate apertamente contro le leggi e contro la visione unitaria dello Stato (in particolare le rivendicazioni etniche e territoriali, il terrorismo politico), le mafie hanno usato una violenza non di contrapposizione, non di scontro frontale, ma di integrazione, interna alla società e alla politica e al potere costituito». Questa capacità di stabilire dei raccordi preferenziali con il Paese legale, con i ceti dirigenti, è alla base del successo mafioso. «Senza queste relazioni, senza questi rapporti, le mafie non sarebbero tali, non sarebbero durate tanto a lungo, non peserebbero come un macigno sul passato, sul presente e sul futuro dell’intera nazione». Peraltro, va detto che tale violenza privata era funzionale agli stessi assetti del potere politico in Italia, prima e dopo l’unificazione, nel senso che, a differenza di altri Stati europei, la contestazione del monopolio della violenza da parte delle organizzazioni mafiose è stata duratura, persiste tuttora. «La violenza privata – scrivono ancora gli autori – è stata una delle modalità che hanno concorso a tracciare i particolari elementi della formazione e dell’identità dello Stato italiano e al delinearsi della concezione del potere e del governo della cosa pubblica (…) Lo Stato post-feudale e poi lo Stato italiano nascono senza il monopolio della violenza e non lo raggiungeranno mai».

In sostanza, l’incapacità o la non totale volontà delle istituzioni pubbliche di esercitare un monopolio totale della forza ha consentito, in Italia, il consolidamento di associazioni criminali di stampo mafioso capaci di surrogare quella forza in forma privata e di legittimarsi come potere territoriale parallelo, senza che questo creasse attriti con la testa della nazione. Anzi, ciò avvenne in una graduale ricerca di relazioni con i gruppi dominanti. In effetti, se si dà voce agli stessi protagonisti mafiosi, vicini a noi, di quel mondo criminale, è difficile contestare l’assunto degli autori del testo. Il boss della ‘ndrangheta Giacomo Lauro, nel corso di un processo del 1994 che lo coinvolgeva, ha osservato: «Non ci sarebbe mai stata una ‘ndrangheta in Calabria così forte e potente senza la complicità dei politici corrotti e dei professionisti della massoneria deviata. Non esiste mafia senza questi appoggi». E uno dei membri del clan dei Casalesi, Carmine Schiavone, negli stessi anni Novanta disse: «Noi volevamo vivere con lo Stato. Se qualcuno dello Stato ci faceva ostruzionismo, ne trovavamo un altro disposto a favorirci».

Certo, si tratta di dichiarazioni interessate e forse manipolatorie. Ma gli studi sembrano confermarle, così come sottolineano altri due aspetti interessanti: da un lato, come nel nostro Paese la visione della politica e quella delle mafie, in relazione al bene pubblico, paiono a tratti coincidere. «La concezione del mondo e della vita di alcuni politici coincide con quella dei mafiosi: potere è sottrarre beni ad altri privatizzando la politica stessa». Non a caso, uno dei personaggi di Sciascia osserva che non rubare alla collettività significa rubare alla propria famiglia. È su questo terreno, quello della distorsione del concetto di bene e di servizio pubblico, che si sono incontrare le mafie con una certa politica, sul terreno di una somiglianza che spiega determinate collusioni e determinati ambiti di reciproco interesse. In secondo luogo, gli studiosi sottolineano come, sin dagli esordi, le mafie abbiano scimmiottato le classi dominanti, dalle “fratellanze” calcate sul modello della massoneria, ai riti, dall’uso del “don” alla protezione e così via. Lo stesso modello di violenza mafiosa sarebbe desunto da quello degli aristocratici, dei baroni. Solo che, stavolta, la violenza è anche verso l’alto, si democratizza, come si è detto; non viene più unicamente esercitata verso i ceti inferiori.

Quest’ultimo aspetto rende conto del probabile successo della componente mafiosa presso i ceti popolari. «Noi non comprenderemo mai il consenso dei mafiosi senza capire la tragicità della condizione popolare sotto il dominio dei baroni». Questo è stato, forse, il fraintendimento maggiore da parte delle fasce meno abbienti della società: l’idea che l’accesso delle persone più “scetate” (più sveglie) al potere attraverso la violenza potesse essere una forma di riscatto collettiva, la scalata di tutti ai gradini più alti e non, invece, il balzo sociale in avanti di gruppi di persone capaci di sfruttare le latitanze e le storture dello Stato per garantirsi una nicchia ecologica di condivisione del potere stesso. Non una rivoluzione, anzi, ma un’integrazione. Nessuna eversione, solo l’accomodamento strategico negli interstizi lasciati aperti, prima, dall’eversione della feudalità e, dopo, dall’irrisolto controllo del territorio da parte dello Stato unitario.

Tuttavia e almeno da questo punto di vista, le cose paiono cambiate, il riconoscimento dal basso alle mafie pare scemato, almeno secondo gli autori del saggio: «oggi mafia e criminalità coincidono, un mafioso è innanzitutto un assassino e un criminale, ma questo cambiamento di percezione è un fatto recente, degli ultimi decenni». Di quei decenni in cui, a partire dagli anni Ottanta e responsabile l’assalto stragista dei Corleonesi – anomalo rispetto l’approccio più cauto delle mafie originarie –, quel consenso popolare che aveva, in parte, legittimato le organizzazioni mafiose è venuto meno, l’aspettativa popolare di una giustizia non esercitata più solo dai nobili e da una violenza non più appannaggio di chi ha la ricchezza è svanita. I raddrizzatori di torti, i giustizieri che ricomponevano l’ordine infranto sulla base del loro potere armato non appaiono più come risolutori di conflitti o paterni fornitori di prebende. La scarnificazione dell’ideologia mafiosa è un tratto culturale importante, per quanto ciò non significhi che il fenomeno mafioso sia meno virulento e pressante.

Semmai, il problema, come si è detto all’inizio, è nelle garanzie fornite alle mafie tradizionali e a quelle rampanti contemporanee dallo stesso mondo globalizzato, in cui il modello mafioso, per così dire, sguazza a proprio agio, forte della propria violenza usata come valvola di regolazione dei meccanismi economici. Ecco, studentessa, bisognerebbe dire a quella curiosa discente, le mafie durano da tanto perché hanno cercato e trovato relazioni in alto e in basso, perché hanno recepito un vizio radicato nei potenti, quello dell’uso personale di ciò che è di tutti, perché non hanno cercato di scardinare lo Stato, ma di farne parte: un soggetto politico a tutti gli effetti, se si intende con questo termine un potere che «ha relazioni e interazioni permanenti e stabili con il livello istituzionale e politico della nazione».


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