L’immigrazione e l’identità
Gli immigrati non vengono nei paesi occidentali per piacere o per fare del turismo, ma per influenza della necessità... il loro espatrio non risulta da una libera scelta.... Un articolo di Eduardo Zarelli
L’immigrazione e l’identità
Da qualsiasi parte lo si guardi, il fenomeno dell’immigrazione appare negativo. In primo luogo è negativo, quando si produce su grande scala, perché è anormale. Chi può infatti trovare normale che dei gruppi di popolazione sempre più numerosi siano obbligati ad espatriare perché non trovano nei loro paesi di origine le condizioni di lavoro che gli permettono di condurre un’esistenza decente? Gli immigrati non vengono nei paesi occidentali per piacere o per fare del turismo, ma per influenza della necessità, sarebbe come a dire che il loro espatrio non risulta da una libera scelta.
L’immigrazione, in questo senso, è un sradicamento forzato, e cioè una forma permessa da altri di deportazione o di auto deportazione. Ne sono gli immigrati stessi le prime vittime. Il bilancio dell’immigrazione, è per loro la perdita della loro terra natale, l’erosione delle loro radici, difficoltà di inserimento in un ambiente straniero talvolta ostile, a dirla breve la disgregazione del loro stile di vita, del loro habitus. E nello stesso tempo, per i paesi d’origine, è una perdita secca di risorse ed energia umana.
La democrazie occidentali, si vogliono portatrici di un progetto politico unitario e universalista. Lo Stato – nazione, si è costruito su un certo numero di principi, al primo posto dei quali figura la dimenticanza della diversità delle origini, posta come requisito d’appartenenza ad un’insieme nazionale “omogeneo”. In questo concetto il rinnegamento delle origini particolari e l’iperconformità alla norma dominante costituisce il prezzo da pagare per diventare completamente cittadini.
Questo “giacobinismo” secolare risale nel passato ben più in là della Rivoluzione francese. È la ragione per la quale gli stati, spesso ospitali verso gli individui, non sono mai veramente capaci di integrare i gruppi e le comunità fuori di un campo religioso oggi “privatizzato”. L’integrazione di questi gruppi e di queste comunità si è sempre accompagnata all’estensione, se non addirittura alla disintegrazione della loro identità. Il solo modello di integrazione conosciuto fino a qui è l’assimilazione.
Questa tradizione universalistica incide oggi pesantemente sul dibattito riguardante l’immigrazione. Il modo in cui gli immigrati sono usualmente spronati, per “integrarsi”, ad abbandonare le loro credenze, i loro costumi, le loro tradizioni, tutte regolarmente descritte tanto a destra quanto a sinistra come tante pratiche “arcaiche”, si colloca in effetti nell’esatto prolungamento del modo in cui l’ideologia degli Illuministi denunciava poc’anzi le “superstizioni” giudicate antagoniste del “progresso”.
Quest’idea di assimilazione oggi è professata nei settori più diversi della vita politica. A sinistra, si legittima in una tradizione “repubblicana” che riconduce la nazionalità alla sola appartenenza cittadina: la Repubblica non conosce che dei “cittadini uguali di fronte alla legge”, tutti politicamente simili e che non saprebbero avvalersi di un’origine distinta per beneficiare di uno stato collettivo che sarebbe proprio. A destra, si traduce una conversione all’ideale dello Stato - nazione che, mescolando nazionalismo riconosciuto e giacobinismo incosciente, rinvia apparentemente tutte le differenze religiose, etiche e culturali alla sfera della vita privata.
Il problema è che l’epoca è cambiata. Per lungo tempo, il modello d’assimilazione occidentale è sembrato funzionare con una certa efficacia. Non vale più lo stesso oggi. L’integrazione - assimilazione passava per dei canali privilegiati: la scuola pubblica, il servizio militare, i sindacati, le chiese, i partiti. Ora, tutte queste strutture tradizionali d’integrazione sono in crisi. Gli insegnanti non riescono più a far fronte ai compiti che gli sono attribuiti, il servizio militare è stato privatizzato, i partiti e i sindacati vedono distruggere la loro credibilità a vista d’occhio e la Chiesa non riesce più a farsi obbedire dai suoi fedeli. A farla breve, tutte le grandi istituzioni di socializzazione civile e d’integrazione nazionale hanno perso, sia la loro influenza, sia il loro prestigio, sia la loro stessa realtà.
In un contesto di impoverimento della logica stato nazionale e di quasi sparizione dei corpi intermedi e degli operatori culturali inter-comunitari, l’ideale d’assimilazione sembra non più riflettere che una vaga nostalgia o un tentativo disperato di ricreare delle unità politiche umanamente e culturalmente “omogenee” in un’epoca dove sembra ogni giorno più evidente che tali unità appartengono al passato. Ne risultano spesso degli effetti paradossali.
Anche quando si vede quelli che proclamando la necessità di difendere “le nostre radici” mettono gli immigrati in condizione di dimenticare le loro, cioè di sottomettersi volontariamente ad un’alienazione che i loro critici rifiutano ostinatamente per se stessi. O ancora quando certi intendono proporre di esigere dagli immigrati un giuramento solenne di fedeltà alla nazione: quanti nostri connazionali oggi potrebbero sinceramente pretendere da se stessi un simile giuramento?
Quanto alla nozione stessa d’integrazione, resta eminentemente equivoca. Integrare, certo, ma a cosa? All’Italia “una ed indivisibile” che difende in comune i cosmopoliti giacobini e nazionalisti? Ad un modo di vita particolare? (Ma in cosa consiste?). A uno spazio giuridico, marcato dall’ideologia dei diritti dell’uomo? Ad una sotto sezione del grande mercato mondiale? Ad un sistema di protezione sociale e consumo? Ad una società in via di estinzione, dove le relazioni sociali si riducono ad un semplice gioco di interessi? Ad una civilizzazione occidentale che, ovunque si è espansa nel mondo, ha trascinato l’erosione delle identità collettive e l’acculturazione di modi di vita differenti?
Nessuno sembra più sapere bene cosa rispondere. E da quel momento, si vede installarsi una società a due velocità, dove l’organizzazione verticale delle disuguaglianze basata sullo sfruttamento, cede il posto ad un’organizzazione orizzontale basata sull’esclusione e l’isolamento, con un fossato che non cessa di crearsi tra quelli che hanno accesso al consumismo e alle nuove tecnologie e quelli che, a causa della disoccupazione o per altro motivo, si trovano inesorabilmente esclusi.
“La pluralità dell’uomo - scrive Serge Latouche - è forse a livello culturale come a livello genetico la condizione della sua sopravvivenza. Chi sa se, in funzione delle loro stesse specificità, le culture oggi negate e schernite non saranno domani le più atte a risolvere le sfide della storia?” È alla luce di questo imperativo di pluralità che bisogna porre il problema dell’immigrazione. Si tratta di creare le condizioni di un’integrazione il cui prezzo non sta nell’eliminazione delle differenze, né nel loro rigetto verso lo spazio pubblico, ma che si accompagna al contrario alla riconoscenza, a fianco di una legge comune, di tradizioni e di costumi radicati. L’universale si compone del molteplice, l’universalismo impone una innaturale unicità.
Non c’è tuttavia integrazione possibile nella differenza che alla condizione che il popolo d’accoglienza si trasformi lui stesso e colga l’occasione di questa nuova sfida per interrogarsi sulla sua esistenza e sul suo progetto. Non è solo questione d’assimilare gli immigrati nel crogiolo sempre di più riducente dove sono già venute a fondersi le vecchie culture religiose, ma è anzi piuttosto l’immigrazione che dovrà essere l’occasione di una riflessione in profondità sulla dimensione plurale dell’identità nazionale. Il dibattito sull’immigrazione pone infatti in modo acuto la questione del diritto alla differenza, dell’avvenire del modo di vita comunitario, della diversità delle culture umane e del pluralismo sociale e politico.
Una questione di tale importanza non può essere trattata con degli slogans sommari o delle risposte già fatte. È tempo di riconoscere l’Altro e di ricordare che il diritto alla differenza è un principio che, come tale, non vale che per la sua generalità (non è fondato a difendere la “sua differenza” quanto piuttosto a riconoscere, a rispettare e a difendere quella degli altri) e che si colloca esso stesso nel quadro più generale del diritto dei popoli e delle etnie: diritto all’identità e all’esistenza collettiva, diritto alla lingua, alla cultura, al territorio e all’autodeterminazione, diritto a vivere e lavorare nei paesi, diritto alle risorse naturali e alla protezione nei confronti del mercato, etc..
L’atteggiamento positivo sarà allora, per riprendere i termini di Roland Breton, quello che, “partendo dalla riconoscenza totale del diritto alla differenza, ammette il pluralismo come un fatto non solo antico, durevole e permanente, ma anche positivo, fecondo ed augurabile. È questo che muta totalmente il verso ai progetti totalitari d’uniformazione dell’umanità e della società, e che non riconosce nell’individuo diverso né un deviante da punire, né un malato da guarire, né un anormale da aiutare, bensì un altro sé stesso, dotato semplicemente di un insieme di tratti fisici o di abitudini culturali, generatrici di una sensibilità, di gusti ed aspirazioni proprie. Alla scala mondiale, è ammessa, dopo il consolidamento di qualche sovranità egemonica, la moltiplicazione delle indipendenze, ma anche delle interdipendenze. Alla scala regionale, sono riconosciuti, contro i centralismi, i processi di autonomia, di organizzazione autocentrata, d’ autogestione (…) Il diritto alla differenza suppone il rispetto reciproco dei gruppi e delle comunità e l’esaltazione dei valori di ciascuno (…) Dire “viva la differenza” non implica alcuna idea di superiorità, dominio o disprezzo: l’affermazione di se non deve alzarsi all’abbassamento dell’altro. La riconoscenza dell’identità di un’etnia non può togliere agli altri ciò che si sono indebitamente accaparrati”.
Il concetto dominante dell’integrazione riflette oggi l’ideologia del momento, il pensiero unico. È più economico che politico; riguarda gli individui più che le comunità; ha per scopo di inserire il singolo nella una società, piuttosto di farla partecipare alla vita di un paese. Un tale concetto è eminentemente contestabile. Il fenomeno dell’immigrazione, che si dimostra ogni giorno più preoccupante, porta a meditare sui limiti del modello centralistica di Stato-nazione che, costruito sulle rovine delle lingue, delle culture e delle identità locali, in perfetta similitudine con un cristianesimo convertitore ed un occidentalismo distruttore, non ha mai saputo che integrare gli individui in uno spazio di legalità formale, senza proporre niente alle comunità desiderose di aggregarsi come tali ad un insieme più vasto. La costruzione europea, da parte sua, induce ad interrogarsi nuovamente sull’identità dei popoli (corso, siculo, bretone, tirolese, basco, etc….) che compongono il continente. Nella prospettiva di “grande spazio” geopolitico Europeo, federalistico, comunitario, sussidiario ed “identitario”, la Repubblica “una ed indivisibile” va ricostruita come una repubblica federale di popoli.
Eduardo Zarelli
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