L’etica della responsabilità di Hans Jonas

Il principio responsabilità : un’etica per la civiltà tecnologica / di Hans Jonas ; a cura di Pier Paolo Portinaro ; traduzione di Paola Rinaudo. - Torino: Giulio Einaudi Editore, 1990, 1993 e 2009 – XXXII-292 pp. - (Piccola Biblioteca Einaudi Ns). - ISBN 978-88-06-20105-0.
La mutata natura dell’agire umano
Nell’incipit dell’omonima opera [1] in cui enuncia il Principio responsabilità, Jonas cita il celebre coro dell’Antigone di Sofocle («Molte ha la vita forze / tremende; eppure più dell’uomo nulla, / vedi, è tremendo» [2]) al fine di focalizzare immediatamente l’attenzione del lettore sull’oggetto principale della propria analisi: l’angosciante strapotere dell’uomo moderno nei confronti della natura. Già in un precedente saggio [3] ci aveva avvertiti che il coro dell’Antigone sulle stupefacenti capacità dell’uomo va oggi letto in maniera del tutto diversa e che non basta più – ai fini etici – l’ammonizione rivolta all’individuo di rispettare le leggi e la volontà degli dei («Se le leggi osserva / della sua terra e la fede giurata / agli dei di sua gente, / sé con la patria esalta» [4]). D’altro canto, lo stesso Sofocle era consapevole del fatto che «Nulla […] possono gli umani / giurare inattuabile: pensiero / nuovo fa vana la certezza antica» [5].
La natura dell’agire umano è completamente mutata [6] rispetto all’epoca in cui viveva il grande tragediografo greco.
In passato, le incursioni dell’uomo nella natura erano sostanzialmente superficiali e inadatte a turbarne in maniera definitiva l’equilibrio. Se si verificavano delle distruzioni ad opera sua, le ferite inferte all’ambiente non erano poi così profonde e prontamente si cicatrizzavano.
Al giorno d’oggi, a causa delle nuove abilità acquisite dall’uomo per mezzo della moderna tecnologia, le sue azioni hanno una portata qualitativamente e quantitativamente nuova. Non solo il suo potere si è accresciuto e ha un raggio d’azione più ampio rispetto al passato, ma incide in modo completamente diverso all’interno della biosfera e sull’essenza stessa dell’essere umano giungendo perfino a scalfire il concetto di “umanità”.
- Il principio responsabilità : Un’etica per la civiltà tecnologica, di Hans Jonas
L’uomo è ora non solo in grado di dominare il mondo ma finanche di distruggerlo. Basti pensare a quello che potrebbe accadere nella malaugurata ipotesi di uno sconsiderato uso delle armi atomiche. Se questa è una mera eventualità, da scongiurare comunque con tutti i mezzi, ben più fondata e tangibile è la minaccia della catastrofe ecologica che tutti noi, giorno dopo giorno, contribuiamo ad alimentare. Non solo con il cattivo uso che facciamo della tecnica ma anche semplicemente con la sua “legittima” e quotidiana applicazione, con l’“effetto cumulativo” che deriva dalla sua continua e costante utilizzazione nella vita di tutti i giorni. In preda all’“assuefazione tecnologica”, non possiamo più fare a meno delle comodità tecnologiche e ne abusiamo. Da ciò consegue lo spreco dei beni che la natura ci ha messo a disposizione e un inevitabile incremento dell’inquinamento ambientale in tutte le sue forme (aumento della concentrazione di biossido di carbonio nell’atmosfera, delle onde elettromagnetiche, della produzione dei rifiuti, ecc.). Fenomeni questi che, in un futuro neanche troppo remoto, potrebbero portare all’annientamento di ogni forma di vita sulla terra. Può sembrare paradossale ma è così: l’uso pacifico della tecnica è più difficile da tenere sotto controllo perché, pur non costituendo un pericolo immediato, comporta un lento ma inesorabile degrado dell’ambiente e il saccheggio delle risorse naturali disponibili [7]. L’Umwelt (l’ambiente) è minacciato non da atti generati da una sorta di hybris faustiana, ma da miriadi di processi di per sé insignificanti che, sommandosi l’uno all’altro, col tempo acquistano proporzioni apocalittiche [8].
Dunque, l’uomo costituisce un pericolo non solo per le altre specie viventi ma anche per se stesso. Al di là dei problemi ecologici a cui abbiamo già accennato, e cioè l’inquinamento ambientale e l’esaurimento delle risorse naturali, derivanti dall’utilizzo della tecnica come strumento di dominio della natura, altri ne sorgono dal fatto che l’uomo, oltre a essere soggetto della tecnica, ne è anche l’oggetto. La téchne trova applicazione non solo in ambito extra-umano, e difatti «L’homo faber rivolge a se stesso la propria arte» [9] allo scopo di riprogettarsi con ingegno. Il pensiero va innanzi tutto alla manipolazione genetica senza per questo sottovalutare altre problematiche non meno importanti come quelle derivanti dal controllo del comportamento e dal prolungamento della vita. L’estensione del potere umano ha come maggior rischio il superamento dell’uomo stesso. Il che comporta una sfida estrema al pensiero etico che, in qualche modo, bisogna fronteggiare a meno che non si voglia deliberatamente ignorare il problema aprendo inevitabilmente uno spaventoso abisso con conseguenze inimmaginabili. Il rischio è che, con l’aumentare del suo potere, l’uomo perda di vista i suoi fini. Al massimo di potere potrebbe unirsi il massimo di vuoto, al massimo delle capacità il minimo di sapere intorno agli scopi da egli stesso perseguiti [10]. Si verificherebbe così quella situazione di anomia morale che Jonas designa come “vuoto etico”.
Alle problematiche già evidenziate (il carattere cumulativo degli effetti delle azioni umane, l’uomo come oggetto oltre che soggetto della téchne, il rischio del vuoto etico) se ne aggiunge un’altra: il soggetto delle azioni è sempre più collettivo, più impersonale e, pertanto, sempre più difficile da responsabilizzare [11]. Questo fenomeno va indagato congiuntamente a quello dell’autoriproduzione cumulativa del mutamento tecnologico. Ogni individuo compie delle azioni scarsamente rilevanti dal punto di vista della loro intrinseca pericolosità che, però, sommate a quelle di tutti gli altri individui, danno origine a conseguenze considerevoli. L’interminabile serie causale, col passare del tempo, produce effetti negativi via via più significativi fino ad assumere proporzioni catastrofiche.
L’etica tradizionale non contemplava queste situazioni, teneva conto solo dei comportamenti “individuali” e “non cumulativi” e prendeva in considerazione, ai fini della responsabilità, solo le azioni compiute con “consapevolezza” e “deliberazione”. L’agire collettivo era totalmente al di fuori dei suoi obiettivi.
I problemi che si pongono sono ora: come rendere consapevoli gli uomini dei rischi che il mondo corre?, come responsabilizzarli?, come indurli – e, al tempo stesso, come indurre la scienza – alla moderazione e, se necessario, persino alla rinuncia?
La crisi definitiva dell’uomo prometeico
È opportuno, nel corso dell’indagine circa la necessità di revisione dei principi etici tradizionali, soffermarsi un po’ sul tema della crisi definitiva dell’uomo prometeico [12] e sulla necessità di superamento dell’ideale baconiano.
Oramai, quanto meno nel mondo cosiddetto “civilizzato”, siamo vicini al pressoché totale compimento di quella instauratio magna auspicata da Francis Bacon, ossia alla realizzazione del dominio umano sulla natura che ha come finalità precipue quella di liberare gli individui dal dolore e dai bisogni nonché quella di realizzare l’appagamento dei loro desideri. Ciò che un tempo era considerata un’utopia si sta realizzando giorno dopo giorno. Ma a quale prezzo?
Come ha fatto notare Benjamin Farrington, Bacon è stato profetico nell’aver pronosticato e ispirato la rivoluzione industriale e nell’aver immaginato una nuova età, tecnologica e scientifica, simile a quella attuale. Sennonché – andando oltre le previsioni del grande filosofo – la scienza si è trasformata in una sorta di religione laica portatrice della promessa di un mondo migliore, anzi, di un vero e proprio paradiso in terra preparato dall’uomo per l’uomo. Questi si è sostituito a Dio e ha modellato il mondo a sua immagine e somiglianza. Sfortunatamente Bacon non ha saputo predire le conseguenze negative – a noi oramai chiare ed evidenti – del progresso tecnico-scientifico da lui auspicato. La sua massima per eccellenza era «sapere è potere» e l’uomo contemporaneo l’ha fatta propria utilizzandola in maniera indiscriminata. È duro doverlo ammettere, ma «la violazione della natura e la civilizzazione dell’uomo vanno di pari passo» [13].
Per Jonas la minaccia della catastrofe che incombe sul mondo è dovuta proprio allo smisurato successo incontrato dal programma baconiano. Esso ha un duplice risvolto, economico e biologico. Il successo, considerato dal punto di vista “economico”, ha comportato una crescita ipertrofica della produzione e del consumo. L’incremento per “quantità” e per “genere” della produzione di beni pro capite (al contrario del cosiddetto “sviluppo sostenibile” che ne propugna, invece, il miglioramento “qualitativo”) implica un abnorme sfruttamento delle limitate risorse naturali con conseguente rischio del loro totale esaurimento. Tale rischio è accresciuto anche da un altro tipo di successo, quello “biologico”, costituito dall’esponenziale aumento della popolazione del pianeta. L’incremento demografico reclama ancor più un inarrestabile sviluppo della produzione al fine di poter soddisfare le necessità della popolazione in continua crescita, con conseguente ulteriore saccheggio delle risorse planetarie.
Il successo biologico, manifestatosi con l’esplosione demografica, «non soltanto mette in discussione quello economico, facendo ripiombare dalla breve festa della ricchezza nella quotidianità cronica della povertà, ma minaccia anche di provocare una catastrofe umana e naturale di proporzioni gigantesche. L’esplosione demografica, intesa come problema planetario del ricambio, ridimensiona l’aspirazione al benessere, costringendo l’umanità in via di impauperimento a fare, per sopravvivere, ciò che un tempo era libero oggetto di scelta in vista della felicità: saccheggiare cioè in modo sempre più indiscriminato il pianeta, finché quest’ultimo avrà l’ultima parola e si negherà all’insostenibile domanda. […] Le leggi economiche dell’equilibrio, che nelle condizioni naturali impediscono la reciproca prevaricazione delle singole specie, rivendicheranno ora, venuti meno i meccanismi artificiali di controllo, i loro diritti tanto più temibili in quanto troppo a lungo sarà sfidata la loro tolleranza. Come in seguito un residuo di umanità potrà ricominciare da capo su una terra devastata, non riesce possibile neppure ipotizzare» [14].
Se è vero che l’ideale baconiano pervade il mondo occidentale, non bisogna dimenticare che è parte integrante anche dei sistemi politici ed economici che fino a qualche tempo fa erano i principali antagonisti del capitalismo: quelli che avevano o hanno ancora a fondamento l’ideologia comunista. Anche il marxismo si considera erede diretto del baconianesimo e ne ha accentuato il carattere salvifico. Autodefinendosi il suo esecutore eletto, è anch’esso andato oltre le originarie intenzioni di Bacon facendo della tecnica, al tempo stesso, un culto e un dogma. Da essa si attende la salvezza: per il marxismo «l’importante non è tanto arginarla, quanto piuttosto liberarla dalle catene della proprietà capitalistica per metterla, in vista dell’emancipazione, al servizio della felicità umana. […] Ma quel che va veramente al di là dell’atteggiamento borghese-liberale è la fede quasi religiosa nell’onnipotenza, in senso positivo e normativo della tecnica» [15]. Il progresso tecnico è diventato, dunque, oggi l’oppio dei popoli così come un tempo lo era la religione secondo la concezione marxiana e marxista.
L’“umanizzazione” della natura
Un’ulteriore problematica nasce, poi, dall’affermazione di Marx secondo cui l’uomo “umanizza” la natura mediante il proprio lavoro [16]. Qui “umanizzare” significa due cose opposte: che l’uomo non è più servo della natura ed è finalmente se stesso e che la natura è del tutto asservita all’uomo e, pertanto, non è più se stessa. Difatti, secondo la visione del filosofo di Treviri, con l’avvento del comunismo sarebbe stata soppressa l’opposizione tra uomo e natura risolvendola a favore del primo, facendo cioè in modo che il complesso delle forze naturali venisse messo a disposizione dell’uomo. Jonas considera perciò il concetto di “umanizzazione della natura” un eufemismo ipocrita che indica, in realtà, il suo totale asservimento all’uomo che ha intenzione di sfruttarla in tutti i modi possibili in vista del soddisfacimento dei propri bisogni. Nell’ottica dell’antropocentrismo radicale dell’ideologia marxiana e marxista, la natura “umanizzata” si rivela perciò come la natura alienata a se stessa.
Ernst Bloch [17] dà prova di una maggiore sensibilità antropologica aggiungendo che la felicità dell’uomo dipende anche da un ambiente accettabile. Secondo questo autore la natura “umanizzata” non è soltanto la natura sottomessa all’uomo, ma anche quella a lui “conforme” in quanto luogo in cui si realizza la sua libertà e in cui occupa il proprio tempo libero. Nell’umanizzare se stesso, l’uomo “naturalizza” la natura. Quella di Bloch dovrebbe essere una natura “ipernaturalizzata”, ma è in realtà, secondo Jonas, “denaturalizzata” [18], in quanto comunque “trasformata” e “riorganizzata” in conseguenza dell’intervento dell’uomo. L’“umanizzazione” della natura rivela la sua alienazione e, al contempo, l’alienazione dell’uomo stesso: «Il paradosso di cui Bloch non si rese conto è che proprio la natura non trasformata e sfruttata dall’uomo, la natura “selvaggia”, è quella “umana”, cioè quella che parla all’uomo, mentre la natura che è completamente asservita a lui, è quella “disumana”. Soltanto la vita rispettata nella sua integrità rivela se stessa» [19].
La scienza e la tecnica non sono eticamente neutre
È ormai un’idea acquisita che la scienza e la tecnica non possano più considerarsi al di là del bene e del male ossia eticamente neutre: tale concezione non è più in linea con la realtà odierna [20]. In nome della “libertà di ricerca” – si diceva in passato – la scienza non può subire condizionamenti da parte dell’etica, perché per essa «l’unico valore è il sapere» [21]. O meglio, si ammetteva unicamente l’operatività di un’etica “territoriale”, interna cioè alla collettività di appartenenza che poneva delle regole valide per gli scienziati nei confronti degli scienziati. I precetti a cui dovevano attenersi erano, ad esempio, quelli di operare con onestà e rigore intellettuale (verificare con esattezza i dati degli esperimenti, non falsificarli, ecc.) e di comunicare i propri risultati alla comunità scientifica. Essi non erano chiamati a rispondere delle conseguenze “esterne” nascenti dall’applicazione delle loro scoperte.
La sfera contemplativa era nettamente separata da quella attiva, la teoria dalla prassi, e si distingueva tra scienza “pura” e scienza “applicata”.
Eppure, anche in passato il fare della scienza finiva con l’avere ripercussioni dirette e indirette sul mondo reale. Oggigiorno, però, le distinzioni tra i diversi approcci cognitivi e i vari tipi di scienza sono sempre più sfumate in considerazione dell’accresciuto potere dell’uomo e dell’abnorme estensione della sua sfera d’influenza. Gli stessi esperimenti non sono più innocui come un tempo quando i loro effetti erano confinati nell’ambito ristretto del laboratorio. Basti pensare alle conseguenze di un’esplosione atomica prodotta puramente e semplicemente experimenti causa. Per quanto effettuata per scopi non bellici, essa provoca effetti negativi rilevanti ed estesi tanto in senso spaziale che temporale. Questo e altri casi simili dimostrano che «il mondo stesso è divenuto un laboratorio» [22]. L’ingegneria genetica aggiunge dell’altro, introducendo il rischio che sia l’uomo stesso a fare da cavia, come d’altronde è già avvenuto nei campi di concentramento nazisti [23]. Viene a cadere così il confine tra azione simulata e reale, tra esperimento e realtà, che un tempo era essenziale nell’ambito della ricerca. Che senso ha ormai parlare di scienza “pura” e di scienza “applicata”? Non c’è ramo della scienza in cui le scoperte non siano suscettibili di utilizzazione tecnica; si fa eccezione – forse – solo per l’astronomia e la matematica. Jonas descrive così i rapporti che intercorrono attualmente tra la scienza e la tecnica: «In primo luogo oggi la scienza vive in larga misura del feedback intellettuale della sua stessa applicazione tecnica. In secondo luogo riceve da lì i suoi incarichi: in che direzione cercare, che problemi risolvere. In terzo luogo per risolverli e in generale per progredire ulteriormente utilizza una tecnica avanzata: i suoi strumenti diventano sempre più raffinati. In questo senso anche la scienza più pura partecipa alle conquiste della tecnica, come la tecnica a quelle della scienza. In quarto luogo i costi di questa attrezzatura fisica e del suo funzionamento sono sostenuti in parte dal di fuori: la pura economia della cosa richiede la partecipazione del denaro pubblico o di qualche altro appoggio finanziario e tale fondo di dotazione del progetto di ricerca una volta approvato, benché formalmente non vincolato ad alcuna contropartita, naturalmente avviene in vista di qualche vantaggio futuro in ambito pratico […]. In breve, siamo giunti al punto che i compiti della scienza sono determinati in misura crescente da interessi esterni anziché dalla stessa logica della scienza o dalla libera curiosità del ricercatore» [24]. E cosa dire a proposito dei rapporti tra ricerca e mercato?: «La tecnica […] è passata nelle mani dei commercianti e degli industriali che sono meno inclini agli scrupoli degli scienziati sensibili. O meglio: ricercatori meno sensibili divengono essi stessi impresari che dispensano i risultati della loro ricerca per trarne guadagno. In questo modo, la ricerca diventa ufficialmente un affare di mercato, rinuncia in ogni forma al salvacondotto della teoria» [25]. Pertanto «l’alibi della teoria pura e “disinteressata” è caduto e la scienza è stata posta al centro del regno dell’azione sociale, dove chiunque agisca deve rispondere dei suoi atti» [26]. Dall’inizio dell’epoca moderna, teoria e prassi muovono verso una sempre più intima fusione. L’“insularità teorica” non è più sostenibile e non serve più giustificare il comportamento dello scienziato che non può ora esimersi dal valutare eticamente le conseguenze delle sue azioni nel mondo reale.
L’esigenza di una nuova etica
In uno scenario come quello descritto, è palese l’inadeguatezza della morale tradizionale. Per salvare il mondo dalla catastrofe, gli uomini hanno bisogno di una nuova etica che abbia portata universale. Non certo del “sacro”, definito da Jonas come «la categoria più danneggiata dall’illuminismo scientifico» [27]. Con un’ulteriore precisazione: «la religione come forza che foggia lo spirito non c’è più, e non può più essere chiamata in aiuto dell’etica. […] E mentre della fede si può dire che c’è o non c’è, si ritiene che l’etica debba esserci» [28]. Oltre tutto non si può parlare tout court di “religione”, ma di “religioni” e su di esse non si può fare certo affidamento, sia perché dividono gli uomini, sia perché in alcuni casi addirittura generano o alimentano i conflitti, come d’altronde dimostrano le vicende degli ultimi tempi. La nuova etica deve costituire un substrato comune a tutti i popoli e per questo deve reggersi su basi mondane e cioè «sulla ragione e sulla propria forza filosofica» [29]. Deve avere un solido fondamento e disporre di poche e chiare norme, facilmente percepibili, in modo da essere condivise e, soprattutto, “sentite” da tutti. Secondo le parole del suo teorizzatore, essa «deve trovare la sua teoria, in base alla quale possa essere deciso ciò che si deve e non si deve fare. Vale a dire: prima della questione della “forza”, viene il problema della “capacità” intuitiva e del valore conoscitivo che possa rappresentare il futuro nel presente» [30]. Essa deve ripristinare quella normatività che una parte del sapere, ovvero la scienza, ha messo pericolosamente in crisi spingendo gli uomini verso un nichilismo «in cui la condizione di quasi-onnipotenza convive con quella di quasi-vacuità, la più grande abilità con un sapere minimo» [31].
Se l’etica ha la funzione di regolare il potere di agire, quella prospettata da Jonas deve fronteggiare l’enorme potere acquisito dall’uomo con la tecnologia e, dunque, essere nelle condizioni di poterlo controllare e incanalare in una direzione positiva. Tale può definirsi solo quella che è in grado di garantire la permanenza di un’autentica vita umana sulla terra [32].
La nuova etica deve possedere un’ampiezza siffatta da giungere fin dove giungono le nostre capacità. E anche qualcosa di più: essa deve dar vita ad un nuovo genere di umiltà, «un’umiltà che, a differenza di quella precedente, non è dovuta alla limitatezza, ma all’ampiezza eccessiva delle nostre capacità, cioè alla preminenza della nostra capacità di agire su quella di prevedere, valutare e giudicare. Di fronte alla possibilità quasi escatologica degli attuali processi della tecnica, il fatto stesso di conoscerne le conseguenze ultime diventa una ragione per stabilire con responsabilità dei limiti» [33].
In altre parole, il nuovo sistema morale non dovrà più considerare il progresso un feticcio e dovrà imporre alla scienza e alla tecnica delle rinunce, se queste sono indispensabili, al fine di poter permettere all’uomo di continuare a vivere su questa terra con dignità, senza dover rinnegare la propria autentica intima essenza.
[1] HANS JONAS, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica (1979), trad. it. P. Rinaudo, Einaudi, Torino 1990 e 1993, p. 4.
[2] SOFOCLE, Le Tragedie, Einaudi, Torino 1948 e 1966, trad. it. G. Lombardo Radice, p. 204.
[3] HANS JONAS, Tecnologia e responsabilità. Riflessioni sui nuovi compiti dell’etica, in Dalla fede antica all’uomo tecnologico, (1974), trad. it. G. Bettini, Il Mulino, Bologna 1991, p. 48.
[4] SOFOCLE, Le Tragedie, op.cit., p. 205.
[5] Ivi, p. 206.
[6] HANS JONAS, Tecnologia e responsabilità. Riflessioni sui nuovi compiti dell’etica, in Dalla fede antica all’uomo tecnologico, cit., p. 41. HANS JONAS, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, cit., p. 3.
[7] HANS JONAS, Sull’orlo dell’abisso. Conversazioni sul rapporto tra uomo e natura (1993), trad. it. A. Patrucco Becchi, Einaudi, Torino 2000, p. 78.
[8] ALESSANDRO DEL LAGO, Introduzione all’edizione italiana in HANS JONAS, Dalla fede antica all’uomo tecnologico, cit., p. 23.
[9] HANS JONAS, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, cit., p. 24.
[10] Ivi, cit., p. 31.
[11] ALBERTO PRIERI, Hans Jonas. Il diritto del futuro e la responsabilità dell’uomo verso l’uomo, Firenze Atheneum, Firenze 1998, pp. 28-29.
[12] MARCELLO MONALDI, Tecnica, vita, responsabilità. Qualche riflessione su Hans Jonas, Guida, Napoli 2000, p. 9.
[13] HANS JONAS, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, cit., p. 5.
[14] Ivi, p. 180.
[15] HANS JONAS, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, cit., pp. 197-198.
[16] HANS JONAS, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, cit., p. 269. NICOLA ABBAGNANO, Storia della filosofia Vol. V. La filosofia del Romanticismo (Da Fichte a Nietsche), cit., pp. 216 e 220.
[17] HANS JONAS, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, cit., p. 270.
[18] Ivi, p. 271.
[19] Ibidem.
[20] MARCELLO MONALDI, Tecnica, vita, responsabilità. Qualche riflessione su Hans Jonas, cit., p. 10. HANS JONAS, Libertà della ricerca e bene pubblico in Tecnica, medicina ed etica. Prassi del principio responsabilità, (1985), trad. it. P. Becchi e A. Benussi, Einaudi, Torino 1997, pp. 66 ss.
[21] Ivi, p. 67.
[22] Ivi, p. 73.
[23] Ivi, p. 74
[24] Ivi, p. 71.
[25] Ivi, p. 78.
[26] Ivi, p. 71.
[27] HANS JONAS, Tecnologia e responsabilità. Riflessioni sui nuovi compiti dell’etica, in Dalla fede antica all’uomo tecnologico, cit., p. 62.
[28] Ibidem.
[29] Ibidem.
[30] Ivi, p. 61.
[31] Ivi, p. 62.
[32] HANS JONAS, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, cit., p. 16.
[33] HANS JONAS, Tecnologia e responsabilità. Riflessioni sui nuovi compiti dell’etica, in Dalla fede antica all’uomo tecnologico, cit., p. 61.
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