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L’arrogante ignoranza della classe dirigente in Italia

E’ evidente che nel nostro paese il sapere sia considerato un fastidioso optional. Meglio diffondere l’ignoranza perché calza a pennello con la tipologia dell’italiano medio.

di Emanuele G. - martedì 22 febbraio 2011 - 2920 letture

Oramai siamo così adusi all’ignoranza che non ci fa né caldo né freddo. Prendiamo come buona ogni dichiarazione, la metabolizziamo e la dimentichiamo quasi subito. Senza avere l’onestà intellettuale di verificarla.

Vorrei farvi un esempio clamoroso. Durante il Festival di Sanremo il direttore di Rai Uno Mazza ha bacchettato Luca e Paolo per aver declamato un brano di Gramsci. Lui avrebbe preferito un passo di Gobetti. Come si violenta la cultura nel nostro paese! A mera querelle politica. Null’altro… Il messaggio proveniente dal direttore Mazza è pericoloso perché fa capire a noi tutti che Gobetti e Gramsci sono in antitesi fra di loro. Che errore ha commesso il direttore Mazza! La cultura non è attività umana “ad escludendum”. Piuttosto, si connatura per un elevato livello di dialogo e permeabilità.

Ritornando a Gobetti e Gramsci intendo ricordare al direttore Mazza un fatto storico. Quindi, inoppugnabile proprio per la sua natura di fatto storico. Gobetti, uno dei massimi pensatori liberali italiani, fu collaboratore di Ordine Nuovo. Rivista comunista fondata nel 1919 da Gramsci. Infatti, Gobetti iniziò a collaborarvi a partire dal gennaio del 1921 in veste di critico teatrale. Che scherzi gioca la storia… Due personalità, apparentemente distanti in tutto, collaborano alla stessa rivista. E sì che venivano da forti differenziazioni di giudizio sulla situazione dell’Italia dell’epoca. Cose dell’altro mondo nell’Italia di oggi adusa a violente e volgari lotte tribali. Vedete…agli inizi del novecento le grandi scuole di pensiero dialogavano fittamente e in modo facondo fra di loro dando un esempio ammirevole di adesione ai valori democratici. Uno in particolare. Il riconoscimento culturale dell’avversario.

Per puntualizzare tale mia affermazione intendo riportarvi alcuni brani di Gobetti sul movimento operario comunista che aveva in Torino una delle sue roccaforti. Quando, ai primi di settembre, la Fiat e le altre maggiori fabbriche torinesi sono occupate dagli operai, Gobetti scrive: «Qui siamo in piena rivoluzione. Io seguo con simpatia gli sforzi degli operai che realmente costruiscono un mondo nuovo [...] il mio posto sarebbe necessariamente dalla parte che ha più religiosità e volontà di sacrificio. La rivoluzione si pone oggi in tutto il suo carattere religioso [...] Si tratta di un vero e proprio grande tentativo di realizzare non il collettivismo ma una organizzazione del lavoro in cui gli operai o almeno i migliori di essi siano quel che sono oggi gli industriali». Si tratta, a suo avviso, di una rivoluzione che se non rinnoverà gli uomini e perciò neanche la nazione, potrà almeno rinnovare lo Stato, creando una nuova classe dirigente: «si può rinnovare lo Stato solo se la nazione ha in sé certe energie (come ora appunto accade) che improvvisamente da oscure si fanno chiare e acquistano possibilità e volontà di espansione».

La presa di distanza dall’azione politica di Salvemini - la sua ammirazione per l’uomo rimarrà sempre intatta - è ora piena: gli rimprovera, come scriverà pochi anni dopo, di intendere l’azione politica soltanto come «una questione di morale e di educazione»: il suo «moralismo solenne, mentre costituisce il suo più intimo fascino, appare il segreto delle sue debolezze [...] La sua concezione razionalista si risolve in un’azione di illuminismo e di propagandismo, che può riuscire utile a una società di cultura, non a un partito».

Prosegue i suoi studi sul Risorgimento e sulla Russia, terminando in ottobre La Russia dei Soviet: è la volontà di comprendere funzioni e limiti di due esperienze rivoluzionarie, al cui centro è sempre il problema della formazione della classe politica che diriga un Paese e dei suoi rapporti con la popolazione. Ne conclude che il Risorgimento non può considerarsi un’esperienza rivoluzionaria, dal momento che i dirigenti politici che espresse rimasero estranei rispetto al popolo, diversamente dalla rivoluzione sovietica che, a suo avviso, ha espresso dirigenti come Lenin e Trotskij, che non sono soltanto dei bolscevichi, ma «uomini d’azioni che hanno destato un popolo e gli vanno ricreando un’anima» e, del resto, la creazione dal basso di un nuovo Stato, nel quale il popolo abbia fiducia proprio in quanto avvertito come opera propria, «è essenzialmente un’affermazione di liberalismo»

Sono concetti ripresi, il 30 novembre, in un articolo pubblicato su «L’Educazione nazionale», il Discorso ai collaboratori di Energie Nove, nel quale individua nel movimento operaio un «valore nazionale»: la novità, venuta dalla Russia e che sembra farsi strada anche in Italia, consiste nel fatto che «il popolo diventa Stato. Nessun pregiudizio del nostro passato ci può impedire la visione del miracolo. Questo non avrebbero fatto i liberali, questo non possono fare dei marxisti. Il movimento operaio è un’affermazione che ha trasceso tutte le premesse. È il primo movimento laico d’Italia. È la libertà che s’instaura».

Non voglio aggiungere commenti ulteriori. Ritengo opportuno terminare il presente articolo con le succitate citazioni di Gobetti. Anzi vi lascio con un interrogativo. Quando la cultura diverrà finalmente valore fondante del nostro paese visto che al momento è massimamente disprezzata?


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