L’anima lunga del Sud

Il Sud ha un’anima immortale, stordita di bombardamenti e di corruzione ma é anima grande, anima lunga, direbbero gli uomini temprati dal gioco di nervi che rende resistenti a tutto.
19 Luglio 1957, 19 Luglio 1992 Malaparte e Borsellino
Un filo di spago, sottile e ruvido, da maneggiare con cura, perchè taglia le mani; teso sul meridione dei poveri e delle bombe. Sul Meridione della guerra che non è mai finita e di quell’altra, quella della mafia che uccide un uomo con una bomba, senza provare la vergogna del dolore. Un giudice per bene ed un giornalista scanzonatamente inespugnabile: uno scrittore che addomesticò il cinismo del cronista rendendo bella la verità. Due intellettuali, l’uno in partenza dal sud, l’altro in arrivo, in un viaggio nella disperazione che l’Italia credette essere la fine della guerra. Era solo l’inizio di un’altra, più silente, ma altrettanto cruenta.
Curzio Malaparte moriva di cancro il 19 Luglio, a Roma, 50 anni fa. Paolo Borsellino fu fatto esplodere, come una mina nella miniera dello Stato, in un giorno afoso del 1992. Via D’Amelio lo accolse per l’ultima volta, attraendolo nella trappola di un legame inevitabile, sua madre. Le sigarette sempre tra le dita e lo sguardo che vede oltre, oltre ogni sfumatura all’orizzonte. Palermo lo amò e lo tradì, come una puttana a cui l’amore non basta, non serve.
Palermo e Napoli, l’Etna placido e "di poche parole", come la Sicilia dei pomeriggi di Luglio e il Vesuvio, oro escandescente di Napoli, spalancato come una bocca oscenamente affamata. Malaparte, pittore barocco di un paesaggio privo della frescura delle ombre e dei dubbi, chiassoso come un mercato di esseri umani, lo descrisse con un sentimento decandente che forse, anche se pieno di cattivo odore e di rabbia, fu rispetto: "Simile a un osso antico, scarnito e levigato dalla pioggia e dal vento, stava il Vesuvio solitario e nudo nell’immenso cielo senza nubi, a poco a poco illuminandosi di un roseo lume segreto, come se l’intimo fuoco del suo grembo trasparisse fuor della sua dura crosta di lava, pallida e lucente come avorio: finché la luna ruppe l’orlo del cratere come guscio d’uovo, e si levò estatica, meravigliosamente remota, nell’azzurro abisso della sera. Salivano dall’estremo orizzonte, quasi portate dal vento, le prime ombre della notte. E fosse per la magica trasparenza lunare, o per la fredda crudeltà di quell’astratto, spettrale paesaggio, una delicata e labile tristezza era nell’ora, quasi il sospetto di una morte felice. "
Il Sud ha un’anima immortale, stordita di bombardamenti e di corruzione ma é anima grande, anima lunga, direbbero gli uomini temprati dal gioco di nervi che rende resistenti a tutto.
Lo sapeva bene Curzio Malaparte, che rinunciò all’eco germanico del suo vero nome, Kurt Erich Suckert, per chiamarsi come un italiano, "l’arciitaliano", mostruosa metafora dei vizi e delle idiosincrasie di una nazione che non fu mai Nazione. Malaparte fu lo scrittore che raccontò l’esodo che seguì alla fine della seconda guerra mondiale meglio di chiunque altro. "La pelle" è un documento orrido e malvagio di una guerra che lasciò Napoli come l’aveva trovata: stuprata e indifferente, abituata a chiedere la carità in cambio della propria atavica, inestirpabile anarchia. Una povertà morale e materiale che faceva vendere bambini in cambio di sigarette, da rivendere al mercato nero in cambio del pane. Per sfamare altri bambini, altri figli di nessuno, da prendersi a poco prezzo. Un domino che puzza di povertà e di indecenza. Malaparte lo vomita addosso al lettore non abituato allo scandalo infinito della verità, curandosi di lavare bene le mani e la faccia.
Cosa c’entra Napoli all’asta in cambio di sigarette e gomma da masticare dello sbarco americano, con la Sicilia contemporanea di Paolo Borsellino? Cosa c’entra l’angoscia di impotenza con cui Vitaliano Brancati fa sconfiggere il bisogno di "altro", di Ragione e di civiltà del suo bell’Antonio? Cosa c’entrano le "storie semplici" di Sciascia e la grottesca immobilità dolente dell’Antonio Masciano di Brancati? Sono tutte lì, ingarbugliate in un filo di spago che si spezza ogni volta che muore un intellettuale. Si riannoda; ma diventa ogni volta meno resistente.
La Palermo dei giudici e della legalità ritrovata si è infranta contro lo splendore rovente delle cattedrali barocche, scottate dal sole che pretende silenzio, da sempre. E le loro lunghe ombre si spandono come mare sulla spiaggia, ingoiando ogni cosa, ogni corpo estraneo alla sabbia. Ma con calma, con studiata lentezza. Tanto che possono passare 15 anni senza che il dolore sia davvero diventato Storia da leggere, che non duole più. O 50, senza che l’orrore di un carrarmato che passa su un uomo possa essere davvero considerato sacrificio necessario.
"Dite che Malaparte non è morto", pare abbia sussurato nei suoi ultimi minuti di vita. E invece no, invece gli uomini vanno e vengono, come le nuvole di Pasolini, come le maree che rubano roccia solida alla Sicilia dei giudici per bene o della Napoli imbrattata di ferocia e di fame. Ma il senso di quell’anima lunga, attraversata da uno spago, non è nella memoria, inutile esercizio di retorica. Il senso è nel cambiamento che le maree producono , nelle rivoluzioni che irrompono nelle teste degli spettatori e ne stravolgono l’esistenza.
Il senso è nel sorriso che ci sfugge riguardando un uomo che fuma, raccontato più dalle sue dita affusolate che dalle parole impronunciabili. Se e quando ci sembrerà di sapere cosa stava pensando, avremo avuto il privilegio di condividere un sogno. E lo avremo reso possibile.
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