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L’Italia alla fine dell’Ottocento

Per la classe terza del liceo classico: prima unità didattica del modulo "L’Italia e il fascismo".

di Pina La Villa - mercoledì 2 gennaio 2013 - 24218 letture

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Agostino Depretis

Il pareggio del bilancio, ottenuto nel 1876, chiuse una fase della storia politica italiana. A quindici anni dall’avvento al potere della Destra, la distanza tra i gruppi dirigenti e la società si era allargata irrimediabilmente, soprattutto perché la Destra non era riuscita a rappresentare gli interessi del nuovo ceto industriale. La sua politica economica, basata su un modello di sviluppo agromanifatturiero e sul liberoscambismo, non andava incontro all’esigenza di migliorare l’apparato produttivo, né a quella di mobilitare nuovi capitali verso gli investimenti industriali. La strategia della Destra era per di più destinata a infrangersi di fronte al mutamento del ciclo economico internazionale. Agostino Depretis, che aveva guidato l’opposizione della Sinistra, assunse la presidenza del consiglio nel marzo 1876. Si apriva in quell’epoca una fase nuova dell’economia mondiale, dominata da una gravissima crisi economica durante la quale i principi del liberismo vennero messi in discussione e sostituiti da una nuova strategia incentrata sul rigido protezionismo delle economie nazionali. I governi della Sinistra gestirono questa fase di trapasso imponendo prima dazi protettivi nei confronti dell’industria, più esposta ai danni della concorrenza internazionale, e, successivamente, introducendo barriere doganali contro l’importazione dei cereali e di altri prodotti agricoli.

In politica interna l’azione di Depretis si mosse verso un allargamento delle basi di massa dello stato unitario. In questa direzione, l’iniziativa destinata a segnare più profondamente il sistema politico fu l’ampliamento del suffragio, che quadruplicò il numero dei cittadini aventi diritto al voto. La scelta era anche il frutto del nuovo protagonismo politico delle classi subalterne operaie e contadine, che, attraverso le lotte sociali, maturavano una nuova coscienza politica e sperimentavano nuove strutture organizzative.

In politica estera Depretis attuò un progressivo sganciamento dalla stretta alleanza con la Francia e tentò di avviare una politica coloniale: queste spinte portarono il governo a sottoscrivere un trattato di alleanza, oltre che con la Germania, anche con l’avversario storico dell’Italia, l’Austria imperiale. L’occupazione dei territori intorno alla baia di Assab sul mar Rosso provocò un conflitto armato tra l’Italia e il sovrano abissino, che inflisse alle nostre truppe una pesante sconfitta nel 1887 a Dogali e che indusse Depretis a consegnare le dimissioni.

Francesco Crispi

Nel 1887, alla morte di Depretis, assunse la carica di primo ministro Francesco Crispi (1887-1991/1893-1896), che promosse una serie di riforme amministrative e sociali di impronta borghese e un rafforzamento degli apparati dello Stato. Fu varato anche un nuovo Codice civile che aboliva la pena di morte. Con la Sinistra l’Italia inaugurò una politica coloniale aggressiva.

La politica coloniale

Nel 1881 l’Italia non aveva potuto impedire alla Francia di occupare la Tunisia, dove sperava di estendere un protettorato di tipo coloniale. Per reazione a questa sconfitta, l’Italia abbandonò la tradizionale alleanza con la Francia e la Gran Bretagna firmando, nel 1882, la Triplice Alleanza con la Germania e l’Austria-Ungheria. La decisione di intraprendere una politica di conquiste coloniali fu favorita non solo dagli accordi scaturiti dalla Triplice Alleanza ma anche dalla crescente influenza eserciatat sul governo da gruppi di armatori e industriali siderurgici da una parte e da coloro , come Sonnino, che ritenevano le colonie uno sbocco per l’emigrazione. Cominciò Depretis, indirizzando le aspirazioni coloniali italiane verso il mar Rosso, dove era già insediata una piccola base militare ad Assab. Occupata , nel 1885, la striscia costiera tra Massaua e Assab, il tentativo di penetrare nella confinante Etiopia (Abissinia) fallì nel 1887, con la sconfitta di Dogali.

Riprendendo la politica coloniale Crispi firmò nel 1889 con il negus (imperatore) etiope Menelik il Trattato di Uccialli che, redatto in due versioni differenti (in italiano e in amarico, lingua corrente in Etiopia), secondo la versione italiana garantiva all’Italia il protettorato sull’Etiopia, mentre secondo quella etiope sanciva un semplice patto di collaborazione tra i due Paesi. Il conflitto esplose quando i possedimenti italiani sulle coste del Mar Rosso vennero costituiti in colonia con il nome di Eritrea, e sfociò in uno scontro armato: gli italiani, sconfitti ad Adua (1896) dagli etiopi, dovettero bloccare la penetrazione e Crispi si dimise.

La crisi agraria

Dopo il pareggio di bilancio (1876) la spesa pubblica aumentò per costruire nuove infrastrutture, in particolare per l’ampliamento della rete ferroviaria. Anche se queste scelte provocarono un certo dinamismo economico, la debolezza di base dell’economia italiana si rivelò subito di fronte alla crisi agraria , che colpì negli anni Ottanta, in tutta Europa, le economie agricole più arretrate, compresa l’Italia. L’avvento della navigazione a vapore, aveva infatti permesso la circolazione in Europa dei prodotti nordamericani, che avevano prezzi competitivi, e provocato quindi un’improvvisa caduta dei prezzi dei prodotti agricoli, in particolare dei cereali. Ciò provocò un calo della produzione agricola ed ebbe immediate ripercussioni sul tenore di vita dei contadini, Un’inchiesta agraria – l’inchiesta Jacini dal nome del suo relatore – mise in luce l’arretratezza dell’agricoltura italiana e concluse i lavori chiedendo interventi di tipo protezionistico.

Il protezionismo

La fragilità economica coinvolgeva anche il mondo industriale. Per sanare questa situazione furono varate le tariffe doganali del 1887 che proteggevano dalla concorrenza straniera sia alcuni settori industriali (siderurgico, laniero, cotoniero e zuccheriero) che i produttori di cereali, quasi tutti latifondisti. Questi provvedimenti portarono ad una crisi diplomatica e commerciale con la Francia.

L’emigrazione

La crisi agraria diede origine ad un crescente flusso migratorio, che si diresse soprattutto verso l’America settentrionale e che si intensificherà nei primi anni del Novecento, passando dal 7% nel 1894, al 10% nel 1900, al 20% nel 1905. Nella prima fase la maggior parte degli emigrati proveniva dalle zone agricole dell’Italia settentrionale, soprattutto dal Veneto, e aveva carattere temporaneo, successivamente divenne un abbandono definitivo e coinvolse anche le regioni meridionali. Questa corrente migratoria funzionava senza dubbio da strumento di controllo e valvola di sfogo delle tensioni connesse alle trasformazioni demografiche e ai rapporti sociali, ma forniva anche un valido sostegno all’economia interna attraverso le rimesse degli emigrati, cioè il denaro che gli emigrati inviavano dall’estero alle famiglie rimaste in patria. A fine secolo, infatti, le rimesse arrivarono a coprire più della metà della bilancia dei pagamentio, consentendo di far fronte all’importazione di materie prime e di beni capitali necessarie alle accresciute esigenze della produzione industriale.

Lo scandalo della Banca Romana

Nel 1888 imprudenti investimenti, legati alla speculazione edilizia, portarono sull’orlo del collasso alcuni istituti bancari che furono salvati in extremis dall’intervento del governo. Dopo il fallimento di alcuni istituti di credito, da cui trapelava un’eccedenza di circolazione monetaria, un’inchiesta appurò gravi irregolarità commesse dalla Banca Romana – uno dei sei istituti dotati del privilegio di emettere biglietti a corso legale, sui quali era fondato il sistema bancario italiano. Fra queste irregolarità anche una emissione clandestina di banconote pe il valore di nove miliardi di lire. La denuncia, nel 1892 ,dei risultati dell’inchiesta da parte del radicale Napoleone Colajanni portò all’arresto di Tanlongo, il direttore della Banca Romana. Nel 1893 crollò il Credito Mobiliare e poi la Banca Generale. La vicenda si concluse con l’assoluzione di Tallongo, per non travolgere , le figure di spicco del mondo politico coinvolte (fra cui Giolitti, che si dimise nel 1893 e Crispi, che fu però chiamato a sostituirlo). Nel frattempo Giolitti riordinò il sistema bancario istituendo la Banca d’Italia (1893) alla quale fu assegnata una funzione preminente nell’emissione monetaria e, a partire dal 1894, il servizio di Tesoreria dello Stato in tutto il Regno. A partire dal 1900, essa assunse il compito di guida e di controllo del sistema creditizio, sul modello delle banche centrali degli altri Paesi europei, divenendo un importante elemento di stabilità nell’economia nazionale. Questi avvenimenti, che pure spinsero il sistema bancario a riorganizzarsi, circondarono di forte discredito la classe politica, e quindi le stesse istituzioni dello Stato.

Leghe e "Fasci"

Lo sviluppo economico di fine Ottocento rese più difficili le condizioni di vita delle classi subalterne, e soprattutto dei contadini. In alcune zone della pianura padana la crisi spinse una parte delle aziende a diminuire i costi, trasformando l’organizzazione del lavoro in senso capitalistico: si formò di conseguenza un proletariato di braccianti giornalieri, organizzato in leghe di resistenza, cooperative di lavoro e di produzione, che innescò aspri conflitti di classe.

Nel Mezzogiorno si svilupparono altre forme di resistenza, come l’occupazione delle terre e gli assalti ai municipi. In Sicilia, nel 1892-93, la protesta si organizzò nei “Fasci dei lavoratori” (il termine “fascio” indicava allora una lega, una unione) che si diffusero rapidamente, fino a costituire un vero movimento di massa. In questa protesta contadini, commerciante, piccoli proprietari, alla lotta contro l’eccessivo fiscalismo dello Stato italiano si aggiungeva la rivendicazione di terre da coltivare e la richiesta di revisione dei patti agrari (i contratti fra contadini e grandi possidenti). Nel 1893 i “Fasci” furono duramente repressi da Crispi.

L’associazionismo di stampo cattolico

Nel 1874 venne fondata a Venezia l’ Opera dei Congressi, cioè l’unione di associazioni cattoliche attive in campo sociale e religioso, fondate da cattolici intransigenti postisi al servizio del Papa. L’economista Giuseppe Toniolo, principale esponente di questo movimento, riconoscendo la legittimità delle rivendicazioni operaie, avviò la creazione di società operaie di mutuo soccorso e di banche cooperative di ispirazione cattolica. Legittimata da papa Leone XIII con l’enciclica Rerum Novarum, quest’azione pose le basi per il reingresso dei cattolici nella vita politica italiana.

Il primo partito di massa

L’acutizzarsi del disagio sociale era all’origine anche dell’espansione in Italia del socialismo, radicato soprattutto nell’Italia centro-settentrionale, con una forte componente rurale e anarchica. Andrea Costa, il primo socialista eletto al Parlamento, dirigente delle lotte bracciantili padane, riuscì però, insieme con l’avvocato milanese Filippo Turati, a dare al movimento un’impronta meno anarchica e a far prevalere il socialismo marxista. Turati soprattutto, con la rivista“Critica Sociale”, operava da anni per orientare le forze operaie e socialiste verso la creazione di un’unica organizzazione. La rivista voleva creare una coscienza socialista nel movimento operaio, unificando le varie componenti del socialismo italiano attraverso un’opera di chiarificazione teorica, e prendendo le distanze dagli anarchici. Uno degli obiettivi principali era anche quello di coinvolgere nel movimento gli intellettuali democratici, anche perché le lotte per le libertà politiche, civili e sindacali erano individuate come momento indispensabile per la democratizzazione dello Stato e per il graduale passaggio al socialismo.

Dall’incontro dei gruppi socialisti dell’Italia centro-settentrionale e delle organizzazioni operaie di stampo riformista si formò, nel 1892, il Partito socialista italiano, fortemente influenzato dal marxismo internazionale, con forti istanze rivoluzionarie e operaiste. Ripudiata la linea anarchica, definitosi partito di classe, il partito socialista affiancò alla lotta elettorale per il potere politico quella per il miglioramento delle condizioni dei lavoratori, affidata alle organizzazioni sindacali: società di mutuo soccorso, leghe di resistenza, federazioni di mestiere (associazioni di categoria a livello prima locale e poi nazionale) e Camere del lavoro (che riunivano le diverse categorie di lavoratori di un unico centro. La prima Camera del lavoro venne fondata a Milano nel 1891, l’anno dopo ne furono istituite altre dodici, tutte nelle città settentrionale (a parte Firenze e Roma). Il Partito socialista, riferimento per queste associazioni, che comunque operavano in autonomia, fu il primo, e per molti anni l’unico, partito organizzato sulla scena politica italiana.

Anna Maria Mozzoni e Anna Kulishoff: il movimento di emancipazione delle donne

Dopo l’unificazione si sviluppò anche in Italia, soprattutto nell’élite mazziniana di simpatie repubblicane, un movimento favorevole all’emancipazione delle donne. Fino ai primi del Novecento la rivista “La Donna”, diretta da Gualberta Beccari, raccolse articoli e proposte di questo gruppo di donne, fra le quali spicca , per la lucidità politica e i contatti con i movimenti emancipazionisti internazionali, Anna Maria Mozzoni (1837-1920). E’ del 1864 il suo La donna e i suoi rapporti sociali, nel quale denunciava l’assenza di un Risorgimento femminile in seguito a quello nazionale e del 1870, la traduzione de La Soggezione della donna, di J.S.Mill, che costituiva una base teorica per la richiesta dei diritti femminili.

Anna Maria Mozzoni individuò subito nell’istruzione e nel lavoro le grandi vie di emancipazione delle donne, promuovendo numerose iniziative sul tema ma soprattutto cominciando una battaglia, destinata a durare a lungo, perché nel nuovo Codice civile fossero introdotti la ricerca della paternità in caso di figli naturali, la possibilità di riconoscere la tutela materna accanto a quella del padre, diritti civili per le non maritate.

Anna Maria Mozzoni tentò a lungo di far rientrare nei programmi dell’opposizione parlamentare la richiesta del suffragio femminile, lottò per l’apertura delle Università alle donne e di cosneguenza per l’apertura delle carriere professionali più importanti (medicina, legge, insegnamento superiore).

Parità di salario nelle fabbriche

L’attenzione di Anna Maria Mozzoni ai rapporti sociali e alle nascenti industrie la portò ad individuare nelle operaie una possibile avanguardia politica del movimento emancipazionista, per cui si impegnò a fondo, appoggiata dal Partito socialista e da una parte dei cattolici, a richiedere uguale salario per eguale lavoro fra uomini e donne.

Sfavorevole alla parità salariale, alla quale contrapponeva la richiesta di leggi di tutela per le donne, che le proteggessero dai lavori più duri e pesanti e ne rispettassero la funzione materna era Anna Michailovna Kuliscioff (1857-1925), un’esule russa esponente socialista del movimento emancipazionista, direttrice, con Turati, della rivista “Critica sociale”

Grazie ad Anna Maria Mozzoni e ad Anna Kulishoff la questione femminile fu presente nel dibattito politico e culturale italiano: nel 1908 si radunò a Roma il Congresso delle donne italiane, mentre nel 1907 era stata istituita una commissione ministeriale allo scopo di esprimere un parere autorevole sulla concessione della rappresentanza alle donne, quale primo passo verso un pieno riconoscimento della parità dei diritti amministrativi e politici. Dopo cinque anni di lavoro la commissione espresse parere negativo.

L’Italia di fine secolo

Nel 1896 un nuovo ciclo espansivo a livello mondiale si ripercuote positivamente sull’economia italiana. Comincia la fase di sviluppo che porterà nel primo decennio del 1900 al vero e proprio decollo industriale italiano. Cominciano per ora a crescere solo alcuni settori del Centro-Nord (l’industria meccanica, la protetta industria cotoniera, quella dell’elettricità); continuano invece le gravissime difficoltà dell’agricoltura, specialmente al Sud. Il fatto che fra il 1891 e il 1898 il valore della produzione complessiva agricola resti immutato in presenza di un incremento demografico di oltre tre milioni di unità significa un regresso vero e proprio. In tutta Italia resta molto pesante la situazione delle classi popolari: fra dazi sul grano e altre imposte dirette e indirette, si continua a pagare il pane quasi il doppio del suo prezzo, aumentano le vendite giudiziarie di beni di piccoli contribuenti, dilagano le malattie da fame e da nocività ambientale come rachitismo, tubercolosi, pellagra, malaria. La sofferenza sociale culmina al Sud, è più contenuta per la minoranza di operi delle nuove grandi fabbriche del Nord, e si esprime in esplosioni di collera in tutto il Paese. Migliorano invece le condizioni di vita dei ceti medi urbani fra i quali avanza un processo di modernizzazione che coinvolge le culture e le mentalità.

Il progetto restauratore del ministro di Rudinì

La ripresa economica della seconda metà degli anni Novanta vede ancora al potere la vecchia oligarchia fondata sull’alleanza fra agrari del Nord e del Sud, industria pesante protetta, poteri statali. Il successore di Crispi è Antonio di Rudinì, che progetta sul piano interno una restaurazione in senso conservatore anche attraverso una forma di decentramento che punta a perpetuare a livello lacale il potere dei vecchi notabili, e, sul piano internazionale, una svolta filofrancese. Di fronte all’esito delle elezioni del 1897 che premiano la Sinistra e i socialisti, si accentua il carattere antipopolare della politica governativa con arresti e persecuzioni di polizia contro singoli militanti e associazioni anarchiche, socialiste e cattoliche, mentre si moltiplicano le propensioni ad un rafforzamento dell’esecutivo, espresse nell’articolo Torniamo allo Statuto, di Sidney Sonnino, considerato oggi come la risposta della classe dirigente risorgimentale alla propria crisi di egemonia.

Agitazioni popolari e repressione a Milano

A far precipitare la crisi sono il cattivo raccolto del 1897 e la guerra ispano-americana che provoca, per il blocco delle importazioni di cereali dagli Stati Uniti, un rialzo del prezzo del pane. E’ carestia. Dai primi di gennaio del 1898 si innesca, a partire dalla Sicilia, una grande ondata di moti che rivendicano pane e lavoro: migliaia di persone assaltano forni e treni carichi di grano, assediano municipi, si scontrano con carabinieri e polizia. Affrontate in puri termini di ordine pubblico, con frequenti sparatorie, molti morti e molti arresti, le agitazioni si prolungano per mesi, e al Centro-Nord coinvolgono nuclei di moderna classe operaia, che affiancano alla protesta per la fame parole d’ordine contro il governo e il colonialismo, a favore del socialismo e della Repubblica.

Il 6 maggio la lotta esplode a Milano, la capitale della grande industria e delle lotte operaie, e, a questo punto, i giornali legati alla borghesia imprenditoriale come “La Stampa” e il “Corriere della Sera”, che avevano seguito con relativo equilibrio gli eventi al Sud, cominciano a parlare di complotti anarchici e di stranieri infiltrati, di saccheggi e scatenamento dell’odio di classe, e appoggiano la decisione di Antonio Di Rudinì di instaurare lo stato d’assedio in molte province. Tra psicosi e propaganda si favoleggia di sigle “B” e “F” (bombe e fuoco) apposte alle case da saccheggiare: in realtà la B indica una bocca di presa dell’acqua potabile e la F i lavori di fognatura. Mandato a reggere la piazza di Milano il generale Fiorenzo Bava Beccaris fa cannoneggiare barricate simboliche, manigfestazioni sostanzialmente pacifiche , persino le mura di un concento. Si spara su civili inermi, si procede allo scioglimento dei sindacati, alla chiusura dei giornali di opposizione, alla serrata delle Università; molti dirigenti socialisti (Turati, Costa, Kulishoff ), che pure hanno cercato di contenere la protesta, vengono arrestati e saranno poi condannati a vari anni di prigione. Il bilancio delle giornate di Milano sarà di circa 300 morti fra i civili (compresi bambini piccoli, vecchi, curiosi).

Le elezioni del 1900 e il rafforzamento dell’opposizione

Di fronte alla convergenza nella lotta fra strati di classe operaia del Nord e contadini del Sud, la paura della borghesia e del ceto politico liberale produce un progetto di svolta istituzionale che avrebbe dovuto mettere fine al regime parlamentare.Luigi Pellouux, successore di Di Rudinì presenta una serie di disegni di legge diretti a stroncare le opposizioni attraverso il controllo della stampa, forti limitazioni del diritto di riunione e associazione, divieto di sciopero nei servizi pubblici. Di fronte a questo disegno i socialisti attuano per mesi l’ostruzionismo, Giolitti e Zanardelli rompono con il governo, settori importanti dell’imprenditoria cominciano a preoccuparsi degli esiti di un autoritarismo sfrenato. Dopo le elezioni del 1900, che rafforzano l’opposizione al disegno reazionario, il re conferisce l’incarico di formare il governo a Giuseppe Zanardelli. Ministro dell’interno e vero ispiratore della politica governativa è Giovanni Giolitti, che siglerà con il suo nome l’intero periodo fino alla prima guerra mondiale.

Fonte: AA. VV. I nuovi fili della memoria. Uomini e donne nella storia dal 1650 al 1900, volume 2

Per entrare nell’atmosfera di questi anni sono utili i racconti di Edmondo De Amicis in

Amore e ginnastica


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