Sei all'interno di >> :.: Culture | Libri e idee |

L’Albania da Enver Hoxha al tempo del capitalismo reale

Enver Hoxha non ha vissuto la sconfitta finale, ciò malgrado il suo mondo è l’Atlantide perduto del comunismo. Uno dei modi per far emergere un barlume di verità è leggere i suoi scritti per comprendere le ragioni dell’isolamento albanese...

di Salvatore A. Bravo - mercoledì 2 luglio 2025 - 408 letture

La storia del comunismo è avvolta nelle nebbie dell’ignoranza ideologica. L’incultura della cancellazione è la barbarie del nostro tempo. Gli sconfitti sono rimossi dal bilancio storico e su di essi grava l’interdetto, quasi una scomunica, del nuovo ordine liberista. Il nuovo clero orante (giornalisti-accademici) è il braccio mediatico della nuova inquisizione. L’inquisizione regna e impedisce prima ancora di effettuare un bilancio reale dell’esperienza comunista di “conoscere” e di “informarsi”. Le macerie del Muro di Berlino hanno abbattuto il comunismo reale.

La storia è stata esemplificata ad una sequela di mostri, mostruosità e inefficienze. L’inquisizione liberista ha pianificato la storia mitica del comunismo. Miti del terrore e dell’orrore finalizzati a far esaltare per contrasto il regno delle libertà del liberismo. Si contrappongono in questa visione manichea due storie mitiche: il mito dell’occidente capitalistico dilavato da ogni contraddizione e il mito dell’Est europeo comunista grondante di colpe e di crimini. La verità è sempre nel mezzo e necessita di riportare gli eventi al loro contesto per poter capire ciò che è stato. Per sanare tale semplicismo divenuto un modo di pensare e di agire dei popoli abitatori delle “caverne del semplicismo ideologico irriflesso”, è necessario ricostruire il tessuto culturale del comunismo reale.

Enver Hoxha presidente del Partito dei Lavoratori fino al 1985 è conosciuto per radi articoli sulla sua presunta omosessualità repressa e per la costruzione di migliaia di bunker di cemento i quali avrebbero dovuto difendere l’Albania da ipotetiche invasioni da Occidente come da Oriente. Non mancano riferimenti alla ferocia repressiva. Ancora una volta la storia comunista è rappresentata a tinte fosche. Il comunismo è giudicato il male in sé e tutto viene di conseguenza come in un astratto sillogismo aristotelico.

Enver Hoxha fu stalinista fino alla fine e avversò Krusciov come il nuovo corso della politica cinese post-maoista. Intravide nell’abbandono della linea leninista e stalinista i germi anticipatori del dissolvimento del comunismo. Il comunismo albanese alla sua guida riportò notevoli successi in campo agricolo e industriale e nei diritti sociali.

L’Albania oggi è associata alla nave Vlora con il suo nugolo di giovani albanesi che sbarcarono nel Porto di Bari convinti dalle TV italiane di approdare nel Paradiso del benessere materiale. La storia ha i suoi inganni e le sue immagini pianificate che spesso sono veicolo di stereotipo e di ignoranza programmata. L’Albania è dunque associata alla miseria del comunismo e alla ferocia del suo Presidente e con questo si riduce la storia a una farsa mitica.

Nostro dovere è conoscere prima di giudicare, è capire prima di emettere un giudizio. Nella nostra democrazia la ricerca storica annaspa nella logica dei numeri curvati in senso ideologico. Uno dei modi per capire è leggere le ragioni degli sconfitti. Enver Hoxha non ha vissuto la sconfitta finale, ciò malgrado il suo mondo è l’Atlantide perduto del comunismo. Uno dei modi per far emergere un barlume di verità è leggere i suoi scritti per comprendere le ragioni dell’isolamento albanese, le cui cause affondano in una terra da sempre assediata da potenze straniere. Il leader comunista albanese fu anche teorico del comunismo.

Autogestione Jugoslava

Nel suo testo “L’Autogestione jugoslava” del 1978 analizza la politica economica di Tito ispirata al testo di Eduard Kardelj, intitolato “Indirizzi di sviluppo del sistema politico di autogestione socialista”. In tale testo sono presenti osservazioni critiche al sistema post-stalinista in generale.

Comunismo non è imperialismo, i due termini sono dissonanti, un vero ossimoro, per un autentico comunista. Enver Hoxha accusa la Jugoslavia di non essere mai stata un paese comunista, in quanto l’ambizione di potenza dell’area balcanica, è già in sé, la manifestazione di uno Stato comunista solo formalmente tale e profondamente capitalista nella sua cultura politica ed economica. Il comunismo in Jugoslavia è solo uno slogan dietro il quale vi è solo “la potenza del capitale”, il quale per sua costituzione economica ambisce in modo vampiresco a produrre plusvalore mediante l’egemonia militare e politica:

“La direzione titoista manifestò ancor più chiaramente le sue tendenze contrarie all’Unione Sovietica alla vigilia della vittoria sul fascismo, quando l’Esercito Rosso, incalzando l’esercito tedesco, entrò in Jugoslavia per venire in aiuto alla lotta di liberazione nazionale. Soprattutto nel periodo in cui furono tratte le conclusioni di questa grande guerra fra i grandi e i piccoli Stati belligeranti, apparve evidente che la Jugoslavia titoista era appoggiata dall’imperialismo inglese e americano. In quel periodo, gli attriti diplomatici e ideologici fra l’Unione Sovietica e la Jugoslavia divennero più manifesti. Questi dissensi concernevano, fra l’altro, anche questioni territoriali. La Jugoslavia rivendicava dei territori al Nord, soprattutto ai suoi confini con l’Italia. Ma essa taceva a proposito dei confini meridionali, in particolar modo di quelli con l’Albania, del Kosovo e delle terre albanesi in Macedonia e nel Montenegro” [1].

L’inganno nell’ottica di Enver Hoxha ha connotato la fondazione della Jugoslavia di Tito, non a caso il Partito comunista con mossa tattica non si è presentato durante gli anni della guerra con il suo nome, ma si è denominato “Fronte popolare” al fine di non alienarsi le simpatie della borghesia slava:

“La tendenza del gruppo dirigente jugoslavo con a capo Tito, Kardelj, Rankovich e Gilas, che apparve sin dal periodo della lotta clandestina ma che diventò ancor più manifesta dopo la liberazione della Jugoslavia, consisteva nel far sì che il Partito Comunista di Jugoslavia non si presentasse apertamente col suo nome, ma che si mascherasse, come in realtà lo fece, sotto il manto del cosiddetto Fronte popolare di Jugoslavia. Tale clandestinità veniva giustificata con il pretesto che «la grande e piccola borghesia delle città e delle compagne si sarebbe allarmata e spaventata» e si «sarebbe allontanata dal nuovo potere uscito dalla rivoluzione», che «gli alleati anglo-americani temevano il comunismo» [2].

L’attività di destabilizzazione jugoslava giunge nel cuore dell’Albania al punto da corrompere e istigare un autentico colpo di Stato. Koçi Xoxe fu Vice Primo ministro albanese dal 1946 al 1948 e fu accusato di tramare con il sostegno di Tito e degli inglesi un colpo di Stato. Fu impiccato nel 1949. Ancora una volta l’Albania è oggetto delle trame imperiali occidentali che utilizzarono lo Stato titino con la sua “terza via” come strumento di penetrazione nei paesi comunisti e in Albania. L’imperialismo è il nemico da abbattere e la sovranità nazionale è la via per realizzare il comunismo senza imperialismo alcuno:

“Nelle loro relazioni con gli Stati a democrazia popolare appena isituitisi, i titoisti non tardarono a manifestare tendenze di dominio, espansionistiche ed egemoniche, nei confronti di tutti quei paesi, ma in particolar modo nei confronti del nostro. Essi, come lo sappiamo, tentarono di imporci i loro punti di vista politici, ideologici, organizzativi e statali, antimarxisti. Essi giunsero al punto di fare ripugnanti tentativi per trasformare l’Albania in una repubblica della Federazione jugoslava. In questo loro turpe e fallito tentativo i titoisti urtarono contro la nostra decisa opposizione. In un primo momento la nostra resistenza non si era ancora cristallizzata, poiché non sospettavamo che la direzione jugoslava avesse imboccato la via capitalista e revisionista. Ma con il passare di alcuni anni, allorché le sue tendenze egemoniche ed espansionistiche si delinearono chiaramente, noi ci siamo opposti ai titoisti in modo intransigente e senza riserve. I titoisti cercarono di imporci la loro volontà ricorrendo a pressioni e ricatti di ogni specie. A tal fine essi organizzarono anche il complotto di Koçi Xoxe. Essi adottarono questa pratica imperialistica, anche se in misura minore, anche nei confronti di altri paesi, come la Bulgaria, l’Ungheria e la Cecoslovacchia. Tutti questi mostruosi atti stavano a dimostrare che la Jugoslavia non seguiva la via del socialismo, ma che era divenuta uno strumento del capitalismo mondiale” [3].

Per difendere la sovranità comunista è necessario rigettare gli “aiuti” capitalistici. Il capitalismo è generoso nel sostenere le altrui economie, poiché mediante la forza corruttrice dei crediti penetra negli Stati e ne gestisce l’economia. La politica perde la sovranità per diventare l’esecutrice degli ordini che provengono dalle potenze imperiali del capitalismo. L’isolamento albanese trova la sua ragion d’essere nella difesa del comunismo nazionale dall’imperialismo capitalistico che si maschera con la logica del sostegno alle economie deboli per poterle rimodellare secondo gli interessi delle oligarchie capitalistiche. La Jugoslavia è agente straniero, in quanto i capitali stranieri fluiscono in essa. Le scelte economiche della Jugoslavia sono in linea con la restaurazione del capitalismo. La Jugoslavia si è vincolata alla NATO con l’importazione di armi e parallelamente ha reintrodotto la proprietà privata della terra e non solo. I macchinari erano venduti solo agli agricoltori che potevano comprarli, di conseguenza le differenze di classe furono ristabilite. La Jugoslavia divenne in breve tempo il mezzo di penetrazione nell’area geopolitica comunista del capitalismo nella sua nuova fase imperiale. Il giudizio di Enver Hoxha non lascia spazio a dubbi:

“Certo, i rinnegati jugoslavi non potevano uscire dalla crisi unicamente con il terrore. In quanto agente matricolato del capitalismo mondiale, la direzione titoista sollecitò immediatamente il suo aiuto, e questi, soprattutto l’imperialismo americano, si mostrò pienamente disposto ad accordare a Tito e compagni tutti gli aiuti e tutta l’assistenza necessaria per salvarli e trasformarli in un importante strumento nella lotta contro il socialismo, la rivoluzione e i movimenti di liberazione. Le potenze imperialiste aspettavano con impazienza questa svolta, poiché proprio per questa si erano preparate durante la guerra. Perciò esse non mancarono di offrire loro non solo ingenti “aiuti” economici, ma anche un forte appoggio politico-ideologico. Esse fornirono loro anche armi ed equipaggiamenti militari di ogni genere, e li vincolarono anche con la NATO attraverso il Patto Balcanico. Durante il primo periodo, specie nel campo dell’industria e dell’agricoltura, la Jugoslavia fu “aiutata” attraverso gli investimenti delle società straniere. Nel campo dell’industria, in cui l’imperialismo degli Stati Uniti d’America si mostrò particolarmente “generoso”, il lavoro ebbe inizio con “gli aiuti” per il ripristino delle vecchie fabbriche esistenti affinché queste fossero messe più o meno in condizione di produrre e che questa produzione fosse sufficiente a mantenere in piedi il regime borghese-revisionista in via di cristallizzazione e che si era orientato verso il capitalismo mondiale. Il regime titoista doveva liquidare anche quel sistema zoppicante della collettivizzazione dell’agricoltura che era sorto in diverse economie contadine e creare un sistema nuovo, in cui i Kulak e i grandi proprietari di terre fossero nuovamente avvantaggiati. Per la ridistribuzione delle terre furono escogitate forme e maniere idonee a ripristinare la vecchia classe dei kulak, senza causare gravi torbidi nel paese. Lo Stato adottò una serie di misure capitalistiche, ad esempio la soppressione delle stazioni delle macchine e trattori e la vendita dei loro macchinari ai contadini ricchi, in grado di acquistarli, nonché l’imposizione di gravi tasse agli agricoltori. Le aziende agricole statali furono ugualmente trasformate in imprese capitaliste, in cui furono investiti anche capitali stranieri, e così via. Dal capitale straniero trassero grande vantaggio i commercianti e gli industriali del paese ai quali furono fatte rilevanti concessioni. Queste misure dimostravano, senza alcun dubbio, che questo “socialismo” che stava costruendo la Jugoslavia non era altro che la via dell’integrazione nel capitalismo. Così fu spianato il terreno alla penetrazione dei capitali stranieri, in misura e grado sempre maggiore, in un ambiente politico, ideologico e organizzativo molto adatto al capitalismo mondiale, il quale, aiutando il regime titoista, se ne sarebbe servito poi come di un ponte di passaggio per introdursi negli altri paesi a democrazia popolare” [4].

Lega comunista

La degenerazione capitalista in Jugoslavia fu strutturale e sovrastrutturale. La funzione pedagogica del Partito comunista fu nei fatti azzerata. Il Partito comunista fu denominato “Lega comunista” che nel gioco dei mascheramenti avrebbe dovuto avere solo una funzione educativa, ma nei fatti fu solo una presenza da parata scenografica. Il lento scavo del capitalismo entrò in profondità e svuotò le istituzioni comuniste della loro funzione politica:

“La direzione titoista comprendeva bene che il capitalismo mondiale desiderava vedere la Jugoslavia, come strumento nelle sue mani, prendere la forma più adatta ad ingannare gli altri. Di conseguenza non poteva accettare un regime palesemente fascista e sanguinario, come quello instaurato dagli antimarxisti Tito-Kardelj-Rankovich. Per questo motivo il gruppo Tito-Kardelj, nel 1967, prese le dovute misure e liquidò il gruppo di Rankovich incolpandolo di tutti i misfatti perpetrati dal regime titoista fino a quel periodo. Con la liquidazione di Rankovich, la lega dei “comunisti” di Jugoslavia non uscì dalla grave crisi nella quale si era immersa. Essa continuò ad essere trattato sempre secondo i vecchi punti di vista titoisti, in base ai quali la lega doveva conservare solo la maschera di “comunista” senza svolgere però un ruolo dirigente nell’attività statale, nell’esercito, nell’economia. I titoisti cambiarono al Partito perfino il nome chiamandolo “Lega dei Comunisti” per dargli, secondo loro, un autentico nome “marxista” prelevato dal vocabolario di Karl Marx. A questa sedicente “Lega dei Comunisti” non riconobbero ufficialmente che una funzione d’educazione. Ma anche questa funzione era inesistente poiché la società jugoslava, dondolata con una propaganda politica e ideologica presunta marxista-leninista nella culla della cosiddetta “Lega Socialista di Jugoslavia”, finì per degenerare ed imboccare la via capitalista” [5].

Il divergere dal comunismo è palese nell’indebolimento dell’azione dello Stato popolare. L’autogestione delle industrie presuppone l’arretramento dello Stato nella pianificazione economica. L’autogestione operaia è anch’essa flatus vocis, poiché essa priva gli operai del controllo dei mezzi di produzione:

“La via della decentralizzazione dei mezzi di produzione, secondo le idee anarcosindacaliste dell’“autogestione” operaia, in sostanza, non è altro che un modo raffinato per conservare e consolidare la proprietà privata capitalista dei mezzi di produzione, ma in una forma mascherata come «proprietà amministrata da gruppi di operai». Infatti tutti i termini ingarbugliati e oscuri inventati dal “teorico” Kardelj nel suo libro come «l’organizzazione fondamentale del lavoro associato», «l’organizzazione complessa del lavoro associato», «i consigli operai dell’organizzazione fondamentale o complessa del lavoro associato», «le comunità autogestionarie degli interessi», ecc., ecc. e che sono state sancite anche nella legislazione dello Stato capitalista jugoslavo, non sono altro che una facciata inverniciata, al fine di nascondere alla classe operaia la negazione del diritto di proprietà dei mezzi di produzione che le spetta, il suo selvaggio sfruttamento ad opera della borghesia” [6].

I capitali stranieri sostengono l’autogestione jugoslava e investono i loro capitali nella costruzione delle infrastrutture. Sui mercati esteri sono venduti i prodotti migliori. Le multinazionali sfruttano la produzione slava col consenso della classe dirigente. I lavoratori sono al servizio del capitalismo che utilizza il lavoro degli operai slavi per i profitti oligarchici. La propaganda cela gli effetti della presenza capitalistica sul territorio slavo e inganna il popolo che ancora una volta è defraudato delle sue risorse:

“I capitalisti stranieri, con i loro investimenti, hanno contribuito in Jugoslavia numeroso opere industriali che producono articoli dai migliori ai peggiori. I prodotti migliori ovviamente sono venduti all’estero e pochissimi invece all’interno. Benché all’estero esista una forte superproduzione capitalista e tutti i mercati siano accaparrati dagli stessi capitalisti che hanno fatto investimenti in Jugoslavia, questi vendono ugualmente la merce migliore sui loro mercati procurandosi ingenti utili, per il fatto che la mano d’opera in Jugoslavia è a buon prezzo, i prodotti hanno un basso costo di produzione rispetto ai paesi capitalisti dove i sindacati, più o meno, rivendicano al capitale alcuni vantaggi a favore degli operai, I migliori prodotti che escono dalle fabbriche vengono prelevati dalle multinazionali, che operano anche in Jugoslavia. Ma oltre agli utili ricavati attraverso questa via, gli investitori stranieri si procurano altri profitti dagli interessi dei capitali che hanno investito in Jugoslavia. Essi ritirano spesso questi profitti anche sotto forma di materie prime grezze o elaborate. Nel suo libro il demagogo Kardelj parla molto del sistema “autogestionario”, ma mantiene il più assoluto silenzio sulla presenza del capitale straniero e il grande ruolo che esso svolge nel mantenimento in piedi di questo sistema” [7].

Potere alle banche

L’autogestione è sostenuta dal capitale straniero. Le banche elargiscono prestiti e, di conseguenza, si assiste al manifestarsi delle medesime logiche presenti nei paesi capitalistici, in cui le banche saccheggiano con gli interessi il frutto dei lavoratori e investono in attività di lucro. L’autogestione finisce col dipendere dalle banche e per ripagare i debiti le industrie devono competere tra di loro e conquistarsi i mercati. In questa cornice di debiti e profitti lo sfruttamento è la normalità dell’economia “comunista titina”. Enver Hoxha è netto nelle sue valutazioni:

“In Jugoslavia, così come in altri paesi capitalisti, si è ampiamente diffuso il sistema di concessione di crediti da parte delle banche invece del finanziamento tramite il bilancio degli investimenti necessari allo sviluppo delle forze produttive e delle altre attività, le banche sono diventate i centri del capitale finanziario e sono proprio esse che svolgono un ruolo di primaria importanza nell’economia jugoslava nell’interesse della nuova borghesia revisionista. Così, un simile sistema anarcosindacalista è stato instaurato in Jugoslavia ed è stato battezzato col nome di “autogestione socialista” [8].

L’autogestione delle industrie rende lo Stato presenza superflua e inaugura l’anarcosindacalismo. Il giudizio sull’anarchismo economico di Enver Hoxha non conosce dubbi. L’anarchismo è ideologia borghese, in quanto sostituisce lo Stato con i gruppi elitari e borghesi che controllano le fabbriche dietro la parvenza della gestione operaia che dovrebbe attuarsi con i Consigli operai:

“Le concezioni dei revisionisti jugoslavi sullo Stato sono totalmente anarchiche. Si sa che l’anarchismo esige l’immediata soppressione di qualsiasi specie di Stato, quindi anche della dittatura del proletariato. Anche i revisionisti jugoslavi hanno soppresso la dittatura del proletariato e per giustificare il loro tradimento, essi evocano due fasi del socialismo: il «socialismo di Stato» e l’«autentico socialismo umanitario». La prima fase, secondo loro, comprende i primi anni successivi al trionfo della rivoluzione, allorché la dittatura del proletariato esiste e si esprime nello Stato «di socialismo di Stato-burocratico», cosi come avviene nel capitalismo. La seconda fase è quella del superamento dello Stato “di socialismo di Stato-burocratico” e della sua sostituzione con la “democrazia diretta”. Con queste concezioni i titoisti non solo negano la necessità della dittatura del proletariato nel socialismo, ma contrappongono l’una all’altra anche le nozioni di Stato socialista, di dittatura del proletariato e di democrazia socialista” [9].

In Jugoslavia la pratica religione è tollerata come nei paesi capitalistici. La religione nella prospettiva di Enver Hoxha è solo uno dei mezzi con cui il capitalismo riesce a far tollerare l’intollerabile. La speranza è nel trascendente e non nell’immanenza della storia, in tal modo i capitalisti possono continua la loro opera di feroce sfruttamento e alienazione:

“Proprio per il ruolo reazionario che svolge la religione, questa è stata appoggiata e lo è ancora dalle classi dominanti. Il linguaggio dei capitalisti, dei revisionisti e dalla pretaglia reazionaria è sostanzialmente lo stesso. Il partito marxista-leninista non può conciliarsi con l’ideologia religiosa e le sue influenze. Base teorica e politica del programma dell’autentico partito della classe operaia è la filosofia marxista-leninista e non l’idealismo e la religione. La lotta di classe per l’edificazione del socialismo non può essere separata dalla lotta contro la religione. In Jugoslavia la religione è stata considerata e trattata alla stessa stregua come negli altri Stati capitalisti” [10].

Contro il revisionismo

La lotta contro il revisionismo è stata la matrice del pensiero di Enver Hoxha, non fu solo un politico ma anche un teorico che progettò il comunismo albanese all’interno della storia albanese connotata da assedi e invasioni. Troppo spesso ci si dimentica dell’invasione fascista dell’Albania del 1939 e la medesima cultura albanese e il comunismo nelle loro scelte dovettero confrontarsi con il pericolo di nuove derive imperiali che potevano nuovamente rendere l’Albania suddita di interessi stranieri. La storia ha la sua razionalità, se si vincono pregiudizi e si appurano i fatti. L’Albania comunista dimostra che sovranità e comunismo non sono necessariamente antitetici. In ultimo le parole del leader comunista sono chiare nella difesa della sovranità dell’Albania, in quanto la difesa dell’indipendenza coincide con la salvaguardia del popolo. Il capitalismo è sempre potenza imperiale che cannibalizza con i suoi “sostegni economici e militari”:

“«Noi conosciamo bene gli angloamericani, proseguivo, e così come loro non dimenticano chi siamo, nemmeno noi dimentichiamo neppure per un istante che essi sono dei capitalisti, dei nemici del comunismo e del socialismo. Oggi, noi siamo i loro alleati nella lotta contro il fascismo italiano e il nazismo tedesco e restiamo fedeli a quest’alleanza, ma non abbiamo permesso né permetteremo mai che essi si ingeriscano negli affari interni dell’Albania. Il passato amaro del nostro popolo non si rinnoverà. Il Partito Comunista d’Albania e il popolo albanese non lo permetteranno mai»” [11].

Albania senza memoria

L’Albania attuale non è l’Eden. La rimozione della storia continua in modo indefesso. Le cronache riportano l’abbattimento di monumenti che ricordano il passato coloniale e lo stato comunista. Lungamento si è dibattuto sulla demolizione della Piramide di Tirana, fu costruita nel 1988 quale mausoleo dedicato al leader scomparso. L’abbattimento avrebbe comportato la riqualificazione della piazza, pur in presenza di una architettura di alta qualità. Solo nel 2018 si è giunti alla decisione di recuperare il monumento.

Gli oligarchi del cemento e della finanza sono tornati. Il passato amaro è ritornato dietro gli splendori, per pochi, del lusso e delle speculazioni edilizie. La moglie di Enver Hoxha “Nexhmije Hoxha” è morta a 99 anni nel febbraio del 2020. Fu partigiana e combattente. Processata e condannata con la caduta del comunismo nel 1991 per abuso di fondi statali e poi scarcerata, ha trascorso i suoi ultimi anni in un quartiere di periferia di Tirana in modestissime condizioni. Non ha mai rinnegato il comunismo e la sua morte nel 2020 è passata inosservata. Alla donna che combatté il nazifascismo non è stato dato nessun tributo.

L’aggressione alla memoria e alla storia ha manifestato la sua dura realtà con la demolizione della casa di Ilir Hoxha nella quale erano conservati arredi e documenti della storia della famiglia Hoxha e dunque del popolo albanese. L’ingegnere si è rivolto alle autorità competenti per chiedere una breve dilazione temporale per salvare documenti e mobili, ma senza successo. Nella lettera Ilir Hoxha al Primo Ministro è una nazione che si pone allo specchio di se stessa, ma ha deciso di non guardare:

“Mi rivolgo a lei, signor Edi Rama (nonostante la sua opinione su Enver Hoxha, che non mi interessa). Mi rivolgo a lei in quanto Primo Ministro del mio Paese, per proteggermi da alcune istituzioni che sono sotto la sua direzione, in particolare l’IKMT (azienda demolitrice), guidata dalla signora Dallëndyshe Bici./ In base alla legge di esproprio n. 8561 del 22.12.1999, nell’ambito della realizzazione del progetto “Cavalcavia del palazzo con frecce – Rotonda dell’Aquila” (lotto I), a suo tempo, siamo stati informati dell’esproprio del nostro appartamento. Non abbiamo avuto obiezioni a tale esproprio, anzi abbiamo mostrato tutta la nostra piena comprensione a che venisse realizzato il grande lavoro pubblico. Nel frattempo, stavamo aspettando di ricevere il risarcimento che ci spettava per poterci stabilire in un altro appartamento. Stavamo quindi aspettando la notifica scritta dall’IKMT per poi poter lasciare l’appartamento. Credo che questa sia la prassi normale in questi casi, ed è dell’amministrazione statale preposto nei confronti dei cittadini di questo Paese, i quali hanno tutto il diritto di essere trattati con la dovuta cura e rispetto e non con azioni fasciste, così come è accaduto a noi. / Così non è stato./ Il 26 giugno 2020, alle ore 9, nell’edificio in cui vivevamo io e altri membri della mia famiglia, gli ispettori IKMT sono apparsi con gli escavatori per demolire l’edificio. Vi informo che non abbiamo ricevuto alcuna decisione scritta dall’IKMT sulla demolizione dell’edificio, che ci doveva preannunciare la data in cui dovevamo lasciare l’edificio. Quindi, abbiamo dovuto affrontare un’azione completamente arbitraria. In queste circostanze, sono stato costretto a inviare un Sms alla signora Dallëndyshe Bici (responsabile dell’IKMT), alla quale ho scritto: “Buona giornata, per favore. Sono venuti a distruggere la casa. Non abbiamo obiezioni. Preghiamo solo di rimandare l’evento di due giorni, affinché possiamo liberare l’appartamento delle nostre cose. Prego di avere un po’ di comprensione e che ci accordiate il rinvio. Grazie. Rispettosamente, Ilir Hoxha”./ La signora in questione, ammesso che non abbia letto l’Sms, non ci ha dato alcuna risposta, nonostante sapesse che la sua istituzione era colpevole./ Per non essere da meno, sotto l’arrogante costante pressione dei dipendenti IKMT, hanno tagliato le luci dell’appartamento, ci hanno sfrattati con la forza, pur sapendo e vedendo che, all’interno della casa, c’erano molte reliquie e altri materiali di Enver Hoxha, più le nostre cose personali./ L’obiettivo della signora Dallëndyshe Bici era di scacciare la famiglia di Enver Hoxha da quella pur misera casa. Il suo obiettivo l’ha raggiunto. Oggi sono rimasto senzatetto e i mobili e gli oggetti che siamo riusciti a salvare in poche ore sono stati distribuiti agli amici e al popolo albanese. Mi dispiace, signor Primo Ministro, rammentandole che una situazione simile si è verificata quando Sali Berisha ci ha scacciato dalla nostra precedente casa nel 1993. Mi chiedo come mai tali metodi fascisti si verifichino ancora dopo 30 anni, e da parte di un governo che dice di essere di sinistra?/ Ma non finisce qui. Infatti la volontà persecutoria nei confronti della famiglia di Enver Hoxha è stata chiara sin da subito, in quanto, dopo essere stati sfrattati con la forza dalla nostra casa, l’IKMT non solo non ha demolito immediatamente l’edificio [cosa che è avvenuta solo alcune ore dopo], ma ha permesso a gente qualsiasi di entrare nell’appartamento e saccheggiarlo. In questo caso siamo stati danneggiati non solo materialmente, ma anche moralmente, perché le cose della nostra casa sono finite in mani di gente sconosciuta, mentre invece, se fossimo stati avvisati anticipatamente, avremmo avuto il tempo di svuotare l’appartamento./ Tutto ciò, signor Primo Ministro, è inconcepibile. La Sua amministrazione ha avuto quasi due anni per assicurarsi che tutto andasse bene. Anche noi ci saremmo sistemati in tempo e i lavori non sarebbero stati ostacolati. Perché questa arroganza? Per mostrare che Lei è forte e che può fare quello che vuole, e magari avere un’amministrazione incompetente per la sfortuna di questa gente?/ L’istituzione IKMT è responsabile ed io seguirò il percorso legale per: Stupro abitativo; Furto di varie reliquie e documentazione di Enver Hoxha; Furto di mobili personali; Violazione dei diritti umani; Danni morali e offesa alla dignità della mia famiglia./ Per tutto ciò cercherò un risarcimento morale e materiale./ Vorrei e spero che la nuova giustizia sia imparziale e non politicizzata. […] Con rispetto. ILIR HOXHA»” [12].

I diritti o sono di tutti o non sono di nessuno. Il primo diritto di un popolo, mai contemplato, è il diritto alla memoria.

Memoria e futuro

Senza memoria non c’è futuro. L’Albania sotto questo aspetto è già parte integrante dell’Europa senza memoria. A noi tutti il compito di ripensare la storia nascosta del Novecento per comprendere ciò che è stato al fine di pensare al futuro dinanzi a contraddizioni che continuano a corrodere il nostro tempo.  L’Organizzazione Mondiale per le Migrazioni (OIM), il 40% della forza lavoro è emigrata. Nel 2020 risultava povera il 32% della popolazione. Sono specialmente giovani che fuggono da divari salariali, povertà, clientelismo e corruzione. Questi numeri ci comunicano il senso della realtà che mai compare nella nostre cronache che ci rappresentano un’altra Albania: l’Albania del “capitale e dei nuovi ricchi” è spettrale, malgrado lo sviluppo economico, è nuovamente terra occupata, ma da un nuovo imperialismo anonimo e individualistico che si muove all’interno di Stati divenuti terra di profitto per le plutocrazie transnazionali. Il tema della sovranità è ancora l’urgenza dell’Albania e degli Stati. L’economia, la cultura e la storia soccombono sotto la gravità del capitalismo omologante. Abbiamo bisogno di verità per riorientarci nella storia e di sovranità per difenderci dai tentacoli del capitalismo. L’Albania è ancora sconosciuta. Oggi è meta di vacanze per le sue notevoli bellezze paesaggistiche; è meta “per i ritocchi estetici a prezzo accessibile” ed è nota per i trasferimenti dei migranti nei CPR italiani.

La sua storia e il complesso intreccio di interessi transnazionali di cui è oggetto non rientrano nelle cronache giornalistiche, pertanto il Paese delle aquile continua ad essere vicino solo geograficamente. L’Albania è solo merce nell’immaginario capitalistico e non è pensata nella sua verità storica. Tutto questo non può che favorire il potere degli oligarchi, pertanto alla vecchia nomenclatura comunista si è sostituita “la nuova oligarchia del capitale”. Il popolo continua ad essere sconfitto. Per uscire dal fatalismo è necessario riconquistare con la storia la propria identità e tale “protocollo emancipativo” è valido per ogni popolo. Le parole del poeta Gëzim Hajdari esprimono con intensità non comune l’aspirazione di un popolo che attende giustizia; i governi e i regimi cadono ma il vento della giustizia tarda ad arrivare e la solitudine che spinge molti giovani albanesi al suicidio continua ad essere “funebre presenza” nell’abbaglio del lusso dei nuovi ricchi. Solo l’amicizia può riportare l’umanità dove regna l’oppressione:

“Il mio migliore amico è un asino,
un animale buono e serio.
Quando siamo tristi e amareggiati
ci guardiamo l’un l’altro negli occhi
per consolarci.
Insieme parliamo delle nostre cose,
mentre portiamo le pietre dalla cava
o andiamo nel bosco a far legna.
Meglio dar retta al mio ciucci o
che agli slogan del Partito.
Della nostra stretta amicizia,
le spie vigili del villaggio,
informarono la polizia segreta:
“Gëzim Hajdari e il suo asino
minacciano di rovesciare il socialismo”.

Oggi in Albania non campeggiano più gli slogan socialisti, ma sono gli slogan capitalistici che si sono insinuati nella mente e nei corpi e condizionano il modo di pensare e di sentire la realtà. Ancora una volta l’amicizia può rompere il patto di violenza del capitale. Gëzim Hajdari poeta albanese nel 1992 è fuggito dall’Albania, perché ha denunciato i crimini del governo comunista e non ha taciuto la corruzione e le infiltrazioni mafiose nel “sistema democratico albanese”. Vive in un volontario esilio, nelle sue poesie e nel suo corpo c’è l’Albania, come afferma nelle sue interviste, pertanto non soffre di nostalgia. Le voci, i paesaggi e gli odori della sua terra rivivono in lui.

Nel poeta sopravvive lo spirito del popolo albanese. Ha sempre affermato di non essere per l’integrazione delle culture. L’integrazione è il cavallo di Troia per la disintegrazione delle identità. Con grande acume difende la sovranità albanese senza isolamento, egli è per l’interazione tra le culture. L’interazione è contatto culturale che non colonizza, ma consente la consapevolezza delle culture, le quali sono l’immagina viva dei popoli. L’interazione è il futuro tutto da costruire in Albania come in ogni stato europeo. La democrazia è interazione tra i popoli, è rispettosa dell’identità sovrana di ogni popolo e tutti i popoli si riconoscono nella differenza nella comune umanità. La via che conduce al socialismo dopo gli errori e le tragedie del socialismo reale e del capitalismo è l’interazione tra i popoli in cammino.

Dunque la soluzione non è l’autoritarismo, né la libertà capitalistica in cui l’uno è legittimato a scagliarsi contro l’altro.

L’interazione è libertà dell’uno con l’altro, libertà solidale nella quale le identità individuali e nazionali sono tra loro in feconda tensione senza timore di essere cannibalizzate. Ci vuole coraggio e passione durevole, anche nel nostro tempo, a immaginare e a pensare l’alternativa al “capitalismo reale” e a riaprire i chiavistelli della storia in direzione della solidarietà che umanizza ogni vita.

[1] Enver Hoxha, L’Autogestione jugoslava, Katechon edizioni, pag. 8.

[2] Ibidem, pag. 9.

[3] Ibidem, pag. 11.

[4] Ibidem, pp. 14-15.

[5] bidem, pag. 17.

[6] Ibidem, pag. 21.

[7] Ibidem, pag. 23.

[8] Ibidem, pag. 32.

[9] Ibidem, pag. 35.

[10] Ibidem, pag. 72.

[11] Enver Hoxha. Opere, vol. 1, pp. 435-436.

[12] Vedi: CentroGramsci.it.


- Ci sono 0 contributi al forum. - Policy sui Forum -