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Kurt Cobain, angelo maledetto

La maledizione del 27. Gli anni di età collegati ad una morte prematura di troppe icone del rock internazionale

di Piero Buscemi - venerdì 5 aprile 2019 - 5750 letture

Sembrerebbe che occorra seguire le orme infauste calpestate da chi ha già subito la stessa sorte, per entrare nell’Olimpo del mito della musica rock. Come una sorta di lasciapassare per accedere e far parte dell’esclusivo club degli immortali. Quelli sui quali si costruiscono le leggende del futuro, basate su morti apparenti, scomparse all’Ettore Maiorana e sugli avvistamenti da scoop giornalistico.

Nel caso di Kurt Cobain, gli interpretatori dei capricci e delle stravaganze dei big del genere musicale più amato e più odiato, sicuramente il più invidiato, che appunto rappresenta il rock, si stanno ancora chiedendo se la scelta di suicidarsi proprio all’età di 27 anni fosse stata ponderata.

Un’altra domanda senza risposta. Inutile nella sua essenza, ma necessaria per chi si nutre di personaggi da collocare obbligatoriamente nelle favole dell’immaginazione dei milioni di fan. Quelli che non si rassegneranno mai ad una tragica scelta di vita che, neanche riascoltando all’infinito le parole nelle interviste, i versi scritti ed incisi sui vinili, gli sguardi spenti e malinconici di chi non è riuscito a metabolizzare il disagio del vivere che ha cantato nelle sue canzoni, potrebbero spiegare e motivare.

nirvana

Molte volte basterebbe limitarsi a considerare questi emuli del proprio personale stato d’animo, tra frustrazioni e bisogni di fughe dalla realtà, come gli esseri umani che sono stati. Semplici, vulnerabili, sensibili oltre misura, ma comunque anche loro succubi di paure, incertezze, sogni infranti, depressioni e tutto quanto possa semplicemente essere identificato come vita.

All’indomani di una tragedia - questa in modo particolare perché, tralasciando il mito musicale, ci troviamo di fronte a un ragazzo di ventisette anni che decide di spararsi alla testa - si avanzano ricostruzioni e supposizioni sui motivi, gli stati d’animo, la solitudine che una rock-star possa coltivare negli anni di successo ed esaltazione da esternare in giro per il mondo, nascondendo spesso i propri sentimenti più nascosti ed intimi della propria mente.

Una sorta di interpretazione recitativa, con l’aggravante di non riuscire mai, nemmeno un secondo della propria giovane vita, neanche dentro le mura di casa, a svestirsi della maschera dell’attore da riporre in un vecchio baule da tour. Tutto questo ammasso di parole inutili, di approfondimenti e reinterpretazioni dei testi scritti e suonati durante la carriera di Kurt Cobain, mostrano la sufficienza di chi in quei versi cantati, forse anche egoisticamente, ha provato a specchiarsi, senza avere mai avuto il coraggio di provare a trovare la propria natura e la propria ragione di vita che, non necessariamente, debba coincidere con quella di un mito della musica rock.

Basterebbe solo questo per avere un motivo valido per ricordarlo a 25 anni dalla sua morte e, sarebbe anche doveroso farlo, riconoscergli la libertà di esistere e morire, spesso cantata ed inneggiata dalle sue canzoni, come un suo esclusivo diritto che nessuno può pretendere di decodificare, rischiando di banalizzare anche l’immensa eredità artistica che ci ha lasciato.


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