Intervista a Nino Recupero: I ragazzi del Sessantotto
Nino Recupero risponde, nel dicembre 1997, a alcune domande sulla sua storia personale e politica negli anni cruciali del Sessantotto a Catania.
Realizzata il 4 dicembre 1997, fa parte di una serie di interviste raccolte nel corso di una ricerca sulle vicende del sessantotto in Sicilia, e centrata in maniera particolare sugli anni immediatamente precedenti l’occupazione delle università. La ricerca è stata presentata nell’ambito del convegno internazionale di studi dal titolo "Le radici della crisi.L’Italia dagli anni Sessanta ai Settanta", svoltosi a Bologna il 28-29-30 ottobre 1998, e organizzato dall’Istituto Gramsci Emilia-Romagna in collaborazione con il Dipartimento di discipline storiche dell’Università di Bologna, la John Hopkins University di Bologna, il Centro studi Piero Gobetti di Torino, e l’IMES Istituto meridionale di Storia e Scienze Sociali di Roma . Il testo della ricerca, col titolo "I Sessantotto di Sicilia: linee d’indagine" è stato poi pubblicato negli Annali dell’Istituto Gramsci Emilia Romagna, n 2-3 /98-99, Clueb, Bologna, 2000. L’incontro è avvenuto a Catania, nello studio della casa di Nino Recupero.
C’è stato un "prima del ’68" a Catania?
Ci sono due distinte linee di sviluppo, dal 1960 in poi per quanto riguarda il mondo politico e il mondo del lavoro, e dal 1963-64 per gli studenti. Per quanto riguarda il mondo politico l’origine è sicuramente nella generazione che ha partecipato ai moti del luglio del 1960 e che ha avuto lì il suo battesimo di entrata nella vita politica. Questa generazione, che io appunto rappresento, si è scontrata quasi subito con l’ordinamento burocratico e passivo sul piano locale dei partiti della sinistra e del sindacato. Quindi è entrata subito in un atteggiamento, come dire, di ribellione nei confronti delle nuove idee che aveva accettato.
Com’erano il Pci e il Psi all’epoca a Catania?
Il Partito Comunista e anche in gran parte il Partito Socialista che avevamo davanti - noi ragazzi degli anni sessanta - erano dei partiti con una debole presa politica. Ciò per tanti motivi. L’emigrazione è uno di questi. Ma il motivo principale è che si trattava di partiti venuti fuori dalle lotte contadine, che a loro volta avevano alle spalle la Sicilia dell’epoca del fascismo e della guerra. Cioè un mondo politico poco mosso. I quadri dirigenti di questi partiti erano molto lontani dal saper formare le nuove generazioni. Erano fermi a certe idee, anche a certe tecniche di lotta. A certe impostazioni sociali molto antiche, per cui per esempio si privilegiava più la campagna che la città. Ecco per dirne una…
Non c’era attenzione verso il mondo della scuola?
Non lo considerava affatto. Ma soprattutto non considerava il problema edilizio. Il problema dei servizi della città non era assolutamente considerato da questo ceto di sinistra. O solo in piccola parte, solo per dovere d’ufficio, perché naturalmente esistevano dei consiglieri comunali in una città come Catania e in altre città ancora. Però diciamo che non c’era l’elaborazione diretta sul territorio. E quindi ciò che questi dirigenti non avevano non potevano trasmetterlo a noi. Essi pensavano ancora alla lotta agraria quando in realtà il problema si era spostato alle città. C’era lo scempio edilizio, la formazione di grandi fortune, la formazione anche di grandi mafie. Per quanto riguarda Catania la formazione del "comitato d’affari" cioè di quel gruppo di intreccio affaristico e anche in parte mafioso e politico che poi avrebbe condotto la città proprio alla spartizione edilizia.
Drago...
Si, difatti Drago è l’uomo emergente del periodo del ’68 e dei secondi anni Sessanta. Questo era il gruppo dirigente [dei partiti di sinistra] che ci trovavamo davanti. Per quanto riguarda Catania forse si dovrebbe fare eccezione per Franco Pezzino, uomo nato negli anni ’20, antifascista della prima ora, poi deputato, che era l’unica personalità di cultura, non solo di cultura in genere ma anche di cultura politica che prendesse a cuore i giovani e li educasse. In questo quadro è abbastanza ovvio che persone come me e come altri, che nel ’60 aderiscono ai partiti di sinistra, alle loro idee, ai loro programmi, al sindacato, nel giro di pochi anni si sono disamorati.
E questo gruppo di persone o parte di questo gruppo fonda il Circolo Pintor, che è appunto un circolo politico fuori dai partiti e che comincia a prendere iniziative autonome in chiave soprattutto di politica internazionale, per Cuba per esempio,di solidarietà per Cuba, di diffusione degli scritti di Che Guevara e di Fidel Castro. E poi la pace nel Vietnam. Il movimento degli studenti nasce dalle insufficienze della scuola, si articola attorno ai giornalini scolastici che dal ’63-’64 cominciano ad essere vivaci e presenti in tutte le scuole. E per quello che riguarda Catania il Liceo Spedalieri e il Liceo scientifico Boggio Lera e in parte l’Istituto tecnico Archimede, sono stati poi come dire i fulcri di questo movimento studentesco.
E l’Università?
L’Università molto meno. Studenti e lavoratori o anche studenti e disoccupati si incontravano in luoghi come appunto il circolo Pintor. L’Università a quell’epoca era fatta prevalentemente da studenti o di destra o, come dire, studenti che accettavano il quadro politico che si erano trovati davanti. E cioé il quadro politico rappresentativo. C’era a quell’epoca una struttura rappresentativa che mimava in piccolo il Parlamento nazionale, con le assemblee, e la giunta. Dentro queste assemblee c’erano dei veri e propri partiti che erano una piccola copia dei partiti nazionali.
L’UGI, unione goliardica italiana, rappresentava un partito laico, poi c’era però l’AGI, che rappresentava i liberali, c’era soprattutto l’Intesa cattolica [...]. I ragazzi di destra erano molto attivi, i ragazzi della destra tra i quali c’era allora il giovane Benito Paolone, l’attuale candidato sindaco trombato. Ma tanti altri, anche. I ragazzi di destra acquistavano, come dire, potere d’egemonia attraverso i gruppi sportivi e la solidarietà nello sport. Avevano un seguito molto forte. Erano appoggiati apertamente dalle autorità accademiche che concedevano ai gruppi sportivi molti finanziamenti, ogni tipo di agevolazione. E conseguentemente direi che negli anni sessanta, quando io sono entrato all’università, l’atmosfera dominante era un’atmosfera di destra.
Si è iscritto...
A Lettere.
In che anno?
Nel ’58-’59. Eravamo molto pochi. Ci trovammo in tre. Ecco un episodio che credo di avere già raccontato [...] E’ che io ed altri tre avendo maturato sui libri delle idee insomma non dico carattere ma di interesse comunista, ci domandammo se esisteva un Partito Comunista. Sapevamo che doveva esistere, e non sapendo dove fosse abbiamo cercato sull’elenco del telefono...
Però evidentemente qualcosa era passata negli anni del liceo, se fa riferimento a idee vagamente comuniste...
Non passava assolutamente niente. Qui stiamo parlando degli anni cinquanta insomma. No... Io personalmente se posso esprimere un’esperienza che è insieme personale, di vita, e di riflessione, devo dire che il punto di grande rottura è stato "La dolce vita", il film di Fellini. Quando passò, era credo primavera o prima estate, non ricordo bene, del sessanta. Io andai a vedere questo film perché mi occupavo molto di cinema. Sono entrato al primo spettacolo e sono rimasto talmente colpito, l’ho visto tre volte di seguito, sono uscito a mezzanotte da lì dentro. Perché il film di Fellini era insieme un film politico. Pensi per esempio a come descrive l’aristocrazia nera, il fascismo romano. Era anche un elemento di forte impatto morale, era veramente uno schiaffo dato ai costumi. Eravamo tutti cresciuti in un’atmosfera di grande austerità, prima da ragazzi con il fatto che quando eravamo a scuola, anche alle scuole medie, mancavano ancora i libri la carta i pennini l’inchiostro, e l’insegnamento impartito era veramente molto ma molto stretto.
Lei ha fatto il liceo a Catania?
Io ero andato dai fratelli delle scuole cristiane però mi ero tenuto in contatto, avevo molti amici al Liceo Cutelli e anche allo Spedalieri, e debbo dire che non è che l’insegnamento fosse tanto diverso lì. Nelle scuole dell’epoca vigeva un’atmosfera da don Camillo e onorevole Peppone. Per esempio al Liceo Cutelli l’insegnamento di un docente come Maricchiolo, buonanima, formò parecchi studenti dalla mentalità critica e sveglia. E molti di sinistra. Però il Maricchiolo era isolato all’interno di quel liceo lì, come l’unico comunista insomma e quindi come la pecora nera, e lo stesso si poteva dire per l’insegnamento di certe persone come, al liceo Spedalieri l’insegnante di filosofia Antonino Bruno, successivamente all’Università studioso di Weber... ecco a quell’epoca era al liceo Spedalieri. Anche lui ha avuto un notevole influsso, però era l’influsso che poteva avere un docente, uno o due o tre, su una sfera studentesca non amplissima come è stata dopo ma sempre piuttosto ampia. Quindi diciamo che l’atmosfera nella quale io ho vissuto l’infanzia e l’adolescenza era un’atmosfera anche dal punto di vista dei costumi morali ecc. molto chiusa, molto tradizionalista.
Il problema del rapporto tra i sessi era per esempio assolutamente insolubile, impostato all’antica, molto all’antica, per questo richiamo La dolce vita e gli anni tra il ’59 e il ’61-’62 come anni in cui veramente la rottura si è operata. Era una rottura morale, era una rottura umana, era una rottura di modo di vita, culturale quindi. Però tutto questo non si manifesta subito, si manifesta poi col tempo.
Ma a parte il film, che può essere appunto un discorso di costume, morale...
Sì, un simbolo...
Sul piano della formazione politica, della scelta... come è maturata? Perché il Pci? E’ stato un fatto familiare?
No, a questo credo di poter rispondere con una serie di esempi. Per me no, non è stato un fatto familiare. Venivo da una famiglia borghese. E mio padre rimase inorridito quando vide i libri di Gramsci. Però tollerante me li lasciò tenere ed entrò in discussione con me. Altri miei coetanei, soprattutto le ragazze, entrarono in conflitto violento con la famiglia. Viceversa per altri, soprattutto nel campo dei giovani lavoratori, o disoccupati in qualche modo, si trattava di scelte familiari, scelte familiari di conseguenza. Però direi che queste sono molto poche, perché ancora non si era consolidata una opinione pubblica di sinistra, larga.
Ricordo anche, come elemento di storia politica, che comunque le forze di sinistra erano in ogni caso minoritarie politicamente nella città di Catania, e insomma in Sicilia negli anni Cinquanta, con alcune eccezioni di alcune aree, il ragusano e così via. Quindi semplicemente per esempio non conosco quasi nessuno dei miei coetanei che avesse il padre comunista o socialista. Questo debbo dire è un elemento che contribuisce... perché il Sessantotto è stata una novità, è anche vero che la generazione che l’ha fatto è una generazione che aveva dovuto compiere la rottura prima in famiglia o contemporaneamente in famiglia.
A proposito della rottura in famiglia che diceva prima, soprattutto per quanto riguarda le ragazze mi pare di capire che questa atmosfera chiusa sul piano del costume pesasse anche sui ragazzi...
Certo, moltissimo
In che senso? Per la difficoltà a relazionarsi, a stare insieme
Certamente, certamente, le occasioni erano i pranzi di Natale, le poche feste, le feste da ballo che si facevano ma tutto sotto rigoroso controllo famigliare. L’unico sfogo era l’estate, i lidi, le feste da ballo che si potevano avere nei lidi esitivi, e di questo ho scritto un opuscolo come supplemento su "Etna territorio", se le interessa. Ci sono memorie dell’epoca. Perciò appunto la Playa o gli altri lidi solo rigorosamente solo nei mesi estivi offrivano diciamo questa via di contatto, e quei pochi che studiavano appunto a scuola nelle classi miste dei licei avevano già dei contatti, per cui si capisce...
Però diciamo che tutta l’atmosfera sociale era comunque molto ristretta, molto ristretta...soprattutto probabilmente... forse in tutte le classi, stavo per dire a livello di borghesia, ma non è corretto, non credo che sia corretto [...]
La borghesia catanese era più chiusa rispetto alle classi popolari?
Però non credo che nelle classi popolari fosse molto più aperta la visione... stavo per dirlo, ma ripensandoci no.
Per restare su questo argomento. Durante l’occupazione c’erano delle donne. Come le vedevate voi? Come percepivate questa presenza e quale ruolo assegnavate nell’immaginario, e poi nei comportamenti a questa presenza
La domanda è imbarazzante. Le vedevamo - ma qui non so, forse la risposta è troppo personale che non vale per l’insieme - le vedevamo come... per esempio nell’occupazione dell’università i promotori le vedevamo come delle piccole eroine - perché conoscevamo i loro problemi - che andavano soprattutto protette. Questo però era un fatto molto reale, per esempio ricordo uno scontro con Benito Paolone nel corso del quale appunto i fascisti prendevano sempre come scusa la provocazione le ragazze. In effetti era una cosa abbstanza realistica anche se le ragazze fin da allora dimostravano di sapersi togliere le scarpe e di darle in testa col tacco ai loro aggressori. Quindi dimostravano energia e forza. Questo senza dubbio. Però forse c’era un’atmosfera abbastanza protettiva. Non c’era neppure a sinistra, neppure nell’ambiente di ultra-sinistra del circolo Pintor una vera comprensione dei problemi diciamo della relazione o dei problemi del rapporto dei sessi e così via, una comprensione come poi solo il femminismo porterà negli anni settanta avanzati. Per esempio io ricordo sempre con rimorso devo dire, che c’era una ragazza nel circolo Pintor che a lungo si batté perché fra i nostri argomenti di discussione tra Che Guevara e Vietnam dedicassimo delle serate a discutere i libri di Willhelm Reich e della rivoluzione sessuale. E noi... io personalmente che la stimavo e che avevo chiesto anch’io che si facesse questa serata, però debbo dire che purtroppo una serata di quelle finì con questa ragazza sommersa dalle risate e dagli scherni del pubblico che purtroppo era la parte più avanzata insomma... Però tutto questo potrebbe suonare anacronismo, perché qualche cosa che oggi ci appare ovvio ed evidente, non lo era prima del ’77. A quell’epoca era così. Quindi si figuri negli anni ’50... [...]
C’è stato un momento in cui si è reso conto che la scuola, il liceo e l’università, era più popolata?
Sì, certo. Non è questione di averne memoria. E’ questione di percezione o di percepire direttamente nel momento questo che stava accadendo e le battaglie da farsi. Per esempio l’attività politica del circolo Pintor ad un certo punto passò dalle discussioni interne alla propaganda attiva nei quartieri.
In un primo il veicolo di questa propaganda attiva era il Vietnam, campagna per la pace, si facevano delle marce con musiche chitarre bandiere nei quartieri, si cercava di spiegare. Però facendo le marce nei quartiri cominciammo a capire quali erano gli altri problemi. Da allora si cominciarono a svolgere "interventi", come si chiamavano, sia nei quartieri popolari avendo come obiettivo proprio i problemi dei quartieri popolari, sia in zone in cui ci immaginavamo che ci fosse la forza operaia: come la Sincat, o la zona industriale, molto di più la Sincat verso Siracusa. O anche in zone dove ci avevano insegnato, e questa era l’unica cosa giusta, c’erano le lotte agrarie. Andammo cioè a Lentini. Nel visitare questi quartieri, la lotta che abbiamo trovato soprattutto era la lotta degli edili. Vedevamo noi questi quartieri in costruzione, li abbiamo visti in costruzione. Abbiamo fatto gli scioperi più di una volta. Prima come gruppo Pintor, poi come Federazione giovanile dei partiti, come Sindacato e poi come gruppo politico "Falce e martello" o "Movimento Studentesco". Fare proprio i picchetti nei cantieri per gli scioperi, perchè vedevamo la città crescere, e un ceto di classe operaia dell’edilizia crescere smisuratamente. E vedevamo però, e questo fu il nostro limite, il fatto in sé, insomma il fatto epidermico, che per noi era importante perché c’era "la lotta".
A quell’epoca era, come dire, la mitologia numero uno: lottare. Non ci rendevamo conto che chi tirava le fila dietro questo meccanismo, era un poltico ben vestito, seduto dietro la sua poltrona, un arricchito che fondava banche locali, e che tutte queste persone facevano un comtitato d’affari. Quindi quando concepivamo l’idea di "lottare" contro la borghesia, al massimo ci siamo spinti fino all’idea di partecipare alle lotte sindacali [...] ma non abbiamo individuato il referente politico diciamo di questo scempio edilizio della città, e di questo scempio politico, anche, della città. Il referente era un corpo di borghesia, abbastanza ristretto, che avremmo imparato a conoscere negli anni successivi, e il suo leader, proprio nel ’68, fu l’ingegner Drago.
A quell’epoca difatti è significativo che noi lottassimo nei cantieri contro qualche povero capo-cantiere o contro qualche povero geometra, ma non ci accorgessimo nemmeno del fatto che il consiglio comunale era dominato da un grupo di affaristi e che la linea politica di sviluppo della città non era decisa nella sede politica, ma era decisa nei salotti di questo comitato d’affari. [...] Quindi questo è stato diciamo il vantaggio e i limiti del ’68, aver portato e proiettato questa generazione verso il mondo del lavoro ma purtroppo non avergli fatto vedere l’insieme...
Non avevate gli strumenti teorici o politici...
Io penso che alcuni tra di noi avevamo questi strumenti e io sicuramente ero tra quelli. Cioé avevamo letto, capito, studiato i libri e i giornali, le materie che erano necessarie. Però forse, qui parlo per esperienza personale... ma diciamo che l’elemento ideologico ha preso il sopravvento e piuttosto che la lotta impostata su chiave locale, sembrava naturale a tutti quanti impostare la lotta in chiave generale. E qui il fatto che il movimento del ’68 a distanza di meno di un anno già nel ’69-’70 si era frantumato dando vita a tanti partiti, ognuno dei quali pensava di essere lui il vero erede della tradizione rivoluzionaria. Questa frantumazione non è tanto significativa perché divise le forze di quella generazione, è significativa perché come in uno specchio che si rompe ma tutti i pezzetti riflettono la stessa immagine, ogni pezzetto, ogni brandello ogni setta cercava di ricreare la via unica verso la rivoluzione. Avremmo certo fatto meglio ad applicare ciò che avevamo studiato alla realtà locale.
Il ’68 è l’anno del Belice e anche dei fatti di Avola. Come sono entrati e se sono entrati nel movimento?
Certo che sono entrati, caspita se sono entrati! Perché il ’68 vede Catania, questo gruppo... insomma, per intenderci, si è trattato di un gruppo che aveva una sfera di ascoltatori di almeno un migliaio di ragazzi giovani, almeno un migliaio come sfera di ascoltatori. E un gruppo dirigente attivo di militanza di almeno un’ottantina di persone. Stiamo parlando ancora del circolo Pintor.
Che durò fino...
Si sciolse nel ’67. Si sciolse proprio per dare vita a organismi più attivi nella lotta. Però era un numero rispettabile di militanti, no? E questi militanti andarono per esempio alcuni, come tanti altri, nei luoghi del terremoto, io personalmente sono andato ad Avola. C’ero già andato nella zona per parlare e prendere contatti con i braccianti, fare agitazione e cose del genere, fare riunioni, e naturalmente si organizzarono immediatamente delle manifestazioni.
Però quando queste cose successero già non esisteva più il circolo come tale. La maggioranza del circolo Pintor aveva dato vita a questo organismo chiamato "Falce e martello". E un altro gruppo aveva dato vita a quello che sarà poi il Movimento Studentesco vero e proprio. Il Movimento Studentesco sarà in seguito numericamente più importante. Il Movimento Studentesco sarà poi l’MS, il famoso movimento di Milano diretto da Mario Capanna e da altri. Anche perché c’è da dire - lei mi chiede se abbiamo abbiamo partecipato al terremoto al Belice e ad Avola - ma noi abbiamo partecipato anche a manifestazioni a Milano e Roma, perché c’era un nucleo molto forte in quel momento.
Al di là della partecipazione, si innescarono nuove riflessioni, si determinarono prese di posizione più avanzate o meno avanzate, rispetto ai problemi dei lavoratori, ai problemi siciliani, della miseria?
La risposta è sì, in ambedue i casi. I fatti di Avola ci misero di fronte al fatto che il padronato e le forze dello stato erano solo e esclusivamente repressione. E quindi ci convinsero che solo la rivoluzione poteva abbatterli. I fatti del terremoto invece si fecero vedere - i fatti del terremoto e altre cose che vedevamo nei quartieri - ci fecero vedere la miseria. Ambedue queste cose ci spinsero molto di più a sinistra. Però nello stesso tempo ci spinsero verso l’astrattezza. E a chi critica quella generazione appunto di astrattezza rivoluzionaria io vorrei dire: la critica è giusta ma non potevamo vedere altrimenti. La Sicilia di quell’epoca, e proprio il Belice ce lo ha dimostrato - ma era proprio necessario andare al Belice?
Abbiamo trovato conferme di ciò che avevamo visto a Bronte e a Lentini o nei quartieri qua vicino - ci mostrava che non c’era questione di lotta di classe o di lotta politica, o di lotta per migliorare le condizioni di assistenza società e così via. Ci dimostravano che c’era una lotta violenta: da un lato quelli che avevano tutto e dall’altro lato quelli che non avevano niente. E che quindi non c’era alcuna possibilità se non la lotta violenta.
I limiti del sessantotto possono essere anche i limiti di un contesto...
Certo, questo è un dato storico. Il fatto che la stragrande maggioranza della gente in Sicilia vivesse in quelle condizioni che sono state rilevate - e adesso le dirò anche un altro episodio pure importante della storia mia personale e nostra - il fatto che la maggioranza delle persone vivesse in quelle condizioni lì era troppo invasivo, invadeva tutto il campo, ma nello stesso tempo non era così perché nello stesso tempo esisteva una élite finanziaria a livello nazionale e internazionale, esistevano quei gruppi di affari, esistevano nuovi settori di investimento come appunto l’edilizia [...] E quindi ripeto, la povertà, la miseria riempivano tutto il campo visuale e ci hanno impedito di vedere che però esistevano gruppi attivi nella speculazione finanziaria, nella speculazione capitalistica, nella speculazione politica. A livello nazionale e a livello internazionale, e che erano quelli forse i veri avversari.
L’enormità di quella miseria che vedevamo ci ha fatto dimenticare che le strutture politiche, gli Enti locali, il Consiglio comunale, per esempio avrebbero potuto erogare servizi, avrebbero potuto cambiare la vita. E noi sapevamo ovviamente - se ne parla in questi giorni per via dell’anniversario - che un prete toscano, don Lorenzo Milani, aveva organizzato la scuola popolare e quindi pensavamo anche noi a organizzare scuole popolari, non ci venne nemmeno per un attimo in testa che avremmo potuto lottare per costringere le strutture dello stato a migliorare. In un certo senso sì, la situazione era prederminata, la miseria era troppo grande.
Voglio raccontarle un episodio importante a questo proposito. C’è in Sicilia un angolo di feudalesimo che è stata la ducea di Bronte. Quest’angolo di feudalesimo ha la sua origine lontana nella concessione di questa ducea da parte del re Borbone al duca di Nelson come premio per il massacro che esso fece dei giacobini napoletani. Soltanto il fascismo tentò di rovesciare questo feudo che apparteneva a un cittadino straniero, un inglese. Caduto il fascismo e finita la guerra il duca di Nelson, o meglio i suoi eredi, ripresero possesso della ducea. Nella ducea di Bronte vissero soprattutto nell’area di Maniace fino al 1962, data di applicazione finale definitiva della riforma agraria, vissero dei contadini in condizione feudale. Per condizione feudale si intende: che senza il permesso del soprastante non si poteva mangiare carne, non si potevano allevare polii e conigli e altre cose, non si poteva costruire una casa, ma soltanto vivere nelle capanne. Condizioni di feudo, 1962! E io ricordo di essere stato portato lì proprio in quegli anni e proprio da Franco Pezzino a vedere l’applicazione della riforma agraria. Con la violenta ostilità dei soprastanti del duca: nel 1962.
Naturalmente in quegli anni lì si parlava del petrolio siciliano, c’era il caso Mattei, era già avvenuto il trasferimento della rendita fondiaria alla speculazione edilizia nella città. Però la ducea di Nelson invadeva tutto il campo visivo. Sembrava che la Sicilia fosse solo quello. Un posto senza strade dove si poteva camminare solo nel fango. Quattro dita di fango per arrivare là. E vedere gente che abitava nelle capanne, i cosiddetti pagghiari, dove c’è una cerchia di mura di pietra e il tetto di paglia. Dove non si aveva il permesso di muoversi nella zona senza l’autorizzazione del soprastante. Indubbiamente la ducea di Nelson era solo ormai un ultimo rimasuglio, non c’è dubbio che era l’ultimo rimasuglio, ma quest’ultimo rimasuglio era sufficientemente grande che non ci ha consentito, almeno a me, di vedere altro. Forse qualche mio coetaneo che ha visto dall’alto è entrato in politica nei partiti e ha proseguito poi diciamo la carriera politica, ma credo che questo sia più dalla seconda metà degli anni settanta.
Dal Pintor al ’68 ci fu una defezione o una continuità di protagonisti?
Una continuità direi, perché le defezioni portarono via della gente che andò nei partiti. [...] Non era una questione di defezionare il movimento, era invece questione se partecipare al movimento in quanto movimento oppure se iscriversi alla linea politica dei partiti. Ecco questa era la questione. Diverse persone presero la strada dei partiti. [...]
Come vedeva allora il suo ruolo all’interno del movimento e come lo vede adesso?
Queste sono domande intime... No, non vedevo il mio ruolo all’interno del movimento. Avevo un ruolo... mi sono reso conto del mio ruolo all’interno del movimento quando altri, che poi sono stati leader, mi hanno spinto. Per esempio ricordo una assemblea della facoltà occupata [...] nel corso della quale io feci il discorso che i temi studenteschi erano stati troppo dibattuti e che era l’ora di uscire fuori, di fare una grossa manifestazione per la strada, e lanciare quindi l’appello alla città per la rivoluzione generale o qualcosa del genere. Ecco nel mio animo io ero semplicemente un tribuno e non mi ero reso conto del fatto che avessi così una capacità di trascinamento di questi colleghi che erano per me colleghi, amici.
Ma uno dei leader del movimento che era appunto un ragazzo venuto da Milano per partecipare al terremoto del Belice, e che poi era tornato insieme con catanesi qui a Catania, mi spinse a fare questo discorso in un certo senso quasi addirittura me lo fece dire questo discorso - lasciamo i temi universitari e andiamo fuori. Io non capivo in quel momento però feci lo stesso questo discorso. E sono rimasto io per primo stupefatto e colpito dal fatto che quando feci quest’appello all’assemblea, tutti mi vennero appresso per andar fuori dietro la bandiera rossa a marciare in via Etnea. Personalmente quindi a quell’epoca non mi vedevo... al massimo mi potevo assegnare la parte del tribuno. C’era molto egualitarismo. La scuola di Barbiana ancora una volta insegna.
Io credevo nell’egualitarismo e ritenevo che tutto si stesse facendo... Però nello stesso tempo mentre tutto si stava facendo unanimamente insieme, ecco che c’è invece qualcuno che poi sarebbe diventato un leader politico che mi suggerisce il discorso da fare, mi spinge sul palco, mi fa fare questo discorso, e mi trascina e mi fa trascinatore di folle. Senza che io nemmeno me ne rendessi conto. Così le ho raccontato insieme come mi vedevo allora e come mi vedo ora. Oggi vedo criticamente quell’episodio.
Perché?
L’assemblea è stato il movimento cruciale... l’elemento cruciale del ’68, perché incorporava l’egualitarismo. L’idea di fondo era non l’organismo rappresentativo, ma l’assemblea perché "ci siamo tutti", ed è la vera e propria democrazia diretta. In realtà l’assemblea si è dimostrato uno strumento politico più manipolabile degli organismi rappresentativi. Ma questo noi non lo sapevamo perché non lo sapeva nessuno. Anche chi aveva studiato non è che poteva rendersi conto... chi aveva letto Tocqueville, la "Democrazia in America"... nessuno avrebbe potuto pensare che quell’assemblea in quel momento caldo dove c’era Che Guevara ucciso ecc... che c’entrava cosa dice Tocqueville sulla democrazia in America. Questa fu la responsabilità di alcuni, tra i quali mi metto anch’io, che avrebbero dovuto pensare un po’ di più... [...] Anche nel ’77 quando l’Autonomia ha cominciato a menare nelle assemblee, lì si è passati naturalmente a una forma di violenza fisica, naturalmente si vide che l’assemblea era uno strumento non di libertà ma di oppressione.
A proposito di violenza: per quanto riguarda il ’68 si registrano a Catania episodi di aggressioni da parte di fascisti all’università, ma non sembra che ci sia una risposta da parte del movimento
Assolutamente no, e mi lasci dire: io ho ormai 57 anni. Mente quel tipo di giornalista che naturalmente accusa il ’68 o il ’77 o gli studenti di aver prodotto le Brigate Rosse. Menzogna totale. Tutto il movimento nato nel ’68 è un movimento che poteva parlare anche di rivoluzione volendo, però era uno strumento politico questa rivoluzione ideale trasferita al futuro, da costruire, ed era dato per scontato che se non ci fosse stata la maggioranza della popolazione non ci sarebbe stata né la rivoluzione né nient’altro. Quindi niente in comune con la contro-esplicazione della violenza. Per questo tutto il movimento in tutta Italia è caduto nella trappola delle bombe di piazza Fontana, nella trappola degli opposti estremismi. Ma questa è storia nazionale.
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