Informazione: in guerra nessuna verifica delle fonti

Una narrazione semplificata e falsa – Alcuni esempi del passato per capire il presente
Ho visto su alcuni siti online e su qualche quotidiano, la foto di una bella e giovane ragazza ucraìna seduta su un bus con in una mano il telefonino e, nell’altra l’AK-47, il temibile Kalaŝnikov. Una fotografia molto emblematica: la comunicazione e la guerra, il telefonino per comunicare, l’arma per difendersi o attaccare, uccidere.
Bella foto, però… Sì, c’è un però molto grosso. Quella immagine è stata già pubblicata nel 2020 sul sito ingur.com.
Anche Il Sole 24 Ore contrabbanda immagini dei bombardamenti russi su Kiev, ma in realtà sono presi dal videogioco War Thunder. Intendiamoci bene: non dico assolutamente che non ci sono bombardamenti russi su Kiev o che i civili non stiano resistendo imbracciando l’AK-47. Sto solo sottolineando come la foga di bruciare i concorrenti, di arrivare a dare la notizia prima delle altre testate, non fa guardare troppo per il sottile mandando così, in un colpo solo, la libertà di stampa e il controllo delle fonti al macero. Dall’Ucraìna ci arriva una narrazione della guerra in linea diretta e proprio la possibilità di utilizzare modernissimi strumenti di comunicazione, ci fa credere di sapere tutto di questo conflitto. Le dirette Tv ci arrivano 24 ore su 24. E poi ci sono gli aggiornamenti continui, gli “esperti” geopolitici con l’elmetto ben calcato in testa, mollemente sdraiati sulle poltroncine televisive, remunerati e contenti di questa notorietà improvvisa.
Presi dalla fretta, non c’è tempo di verificare quella notizia, quella foto. Si pubblica puntando sull’emotività piuttosto che sulla “verità putativa” del fatto, dell’episodio, dell’avvenimento. Sulla serialità, come se la guerra fosse una serie Tv. E allora vengono alla mente le parole di Eschilo: «La prima vittima della guerra è l’informazione».
Osservando la fotografia della bella e giovane ragazza ucraìna sul bus, persa fra telefonino e AK-47, mi sono venuti in mentre altri episodi che hanno condizionato l’immaginario collettivo. Ne voglio citare qualcuno perché danno l’idea di come l’informazione, in tempo di guerra, particolarmente, viene manipolata.
Il 23 febbraio 1945, un gruppo di marines ‒ malconci e infangati ‒ stanno piantando su una collinetta la bandiera a stelle e strisce. È l’immagine della vittoria americana nella Seconda guerra mondiale. La foto, di Joe Rosenthal, dell’agenzia Ap, Associated Press, scattata a Jwo Jima, è però una messa in scena nel senso che quel gruppo di marines dovevano piantare, in una giornata di forte vento, la bandiera nel loro accampamento. Un falso, dunque anche se quella foto, nell’immaginario collettivo, ha significato per tutti la vittoria sui giapponesi.
Oggi siamo sommersi da una valanga di immagini che ne fa diminuire il valore delle stesse. In Afghanistan, i comandi americani impedivano ai giornalisti di seguire i soldati in missione. E allora cosa “vendiamo” ai telespettatori o ai lettori dei giornali? Siamo andati avanti per mesi a ricevere foto rassicuranti, raffiguranti donne liberate dal velo, lanci di viveri, dune illuminate a giorno come fosse un enorme set cinematografico.
L’informazione non è mai imparziale. Quando i militari di Bush padre, liberarono il Kuwait dal "cattivo" Saddam Hussein, ci fu un momento importante rappresentato dai marines che si calavano dagli elicotteri sul terrazzo dell’ambasciata americana per liberarla. Le riprese includevano la bandiera a stelle e strisce gonfiata dal vento del deserto. Una scena Hollywoodiana da dare in pasto all’ignaro telespettatore. In realtà la capitale, Kuwait City, era già libera da 48 ore e per entrare nell’ambasciata, sarebbe bastato entrare dalla porta principale. Ma le grandi società di marketing avevano deciso diversamente. Perché la guerra bisogna venderla bene.
Ricordate il povero cormorano inzuppato di petrolio che abbiamo visto in Tv e sui giornali l’ultima domenica del 1991? Come non provare pena per quell’uccello che non poteva più volare, coperto di petrolio nel Golfo Persico? Soprattutto perché in quella guerra non si vedevano né sangue e neppure feriti: solo schermi radar, bersagli elettronici colpiti da puntini verdi. Una specie di war games, di giochi di guerra. Non una goccia di sangue perché, ricordate, si utilizzavano “bombe intelligenti”.
Invece era uno dei tanti falsi. Tanto più che in quel periodo nel Golfo Persico non era stagione di cormorani. E com’è, allora che la Cnn e l’inglese Inn avevano girato quelle scene? Il quesito viene risolto dall’inviato de il manifesto che mette alle strette un reporter televisivo il quale ammette di aver girato «scene con petrolio», con cormorani prelevati dallo zoo.
E ricordate quando cadde il dittatore Ceausescu e quello che avvenne nel dicembre 1989 a Timisoara? Martedì 19 dicembre, si parla di 300-400 morti. Mercoledì 20 dicembre, due agenzie di stampa ‒ la jugoslava Tanjug e la tedesca Adn ‒ descrivono Timisoara come una città completamente distrutta, di bambini schiacciati dai tank dell’esercito, donne incinte «trafitte dalle baionette». Alla fine, il 21 dicembre, Ceausescu capitolava: a Timisoara c’erano stati «4.660 morti, 1.800 feriti, 13 mila arrestati, 7 mila condannati a morte». Anzi, la Tv jugoslava fu più precisa: i morti ritrovati a Timisoara erano stati 4.662! I giornalisti occidentali arrivarono nella cittadina romena solo venerdì 22 dicembre e tutti convennero sulle cifre del massacro. Raccontarono di stragi, di fosse comuni di «cadaveri nudi legati col filo spinato» (l’Unità), di «donne sventrate e bambini trucidati» (La Stampa), «Una strage, sparavano anche dagli elicotteri» (Il Corriere della Sera).
Un falso d’autore, un falso collettivo. Lo scoprirono due giornalisti italiani, Michele Gambino e Sergio Stingo. Arrivano a Timisoara a loro spese. Vanno al cimitero e vedono sì tanti cadaveri ricuciti grossolanamente. Ma lo strano è che sono tutti in avanzato stato di decomposizione. Il guardiano del cimitero spiega che i morti sono vagabondi, derelitti, barboni. Non c’era stata tortura, ma autopsia. I corpi erano stati disseppelliti, illuminati, fotografati, ripresi dalle telecamere. I due giornalisti descrivono minuziosamente cosa vedono e fra le altre cose una cosa orrenda: il corpicino di una neonata sul ventre di una donna. C’è, però, una cosa strana: quella indicata come la madre «aveva almeno una settantina d’anni e il suo cadavere era peggio conservato di quello della sua presunta figlia». I due giornalisti italiani hanno lo scoop. Il loro giornale, un quotidiano provinciale, non pubblica una riga: d’altronde com’era possibile che la Tv mentisse? Pubblicano, dieci giorni dopo, quello che hanno scoperto, su un settimanale. Nessuno ci fa caso. Dopo dieci giorni la Romania non è più in prima pagina. Per la cronaca: la donna morta era un’anziana alcolizzata, Zamfira Baintan, morta di cirrosi epatica l’8 novembre 1989; la bimba si chiamava Christina Steleac, morta per congestione a casa sua, a due mesi e mezzo di età, il 9 dicembre 1989.
E potremmo continuare per molto, ad esempio con la Cecenia venuta alla ribalta solo perché è stata assassinata Anna Politkovskaja, la giornalista che da anni denunciava le malefatte del regìme di Putin quando i nostri governanti, invece, ne cantavano le lodi.
Per tornare alla foto della ragazza ucraìna sul bus, mi viene in mente quanto detto da un fotografo e studioso di fotografia, Lewis Hine: «Mentre le fotografie non possono dire bugie, i bugiardi possono scattare fotografie».
E quando scoppiano le guerre, i bugiardi aumentano.
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