Informazione. Un taglio di classe
Nessuna indignazione per le scelte governative. Si affossano i piccoli giornali e si finanziano i grandi gruppi editoriali. Il ruolo della pubblicità. Completata la strategia del materassaio di Arezzo
Quanto costa una copia di quotidiano? O meglio: a quanto la dovrebbero vendere gli editori una copia di quotidiano per essere autonomi finanziariamente? Ogni copia dovrebbe costare dalle 2,5 a 4 euro. Un costo enorme per il consumatore che acquisterebbe ancora meno giornali di oggi (ogni giorno circa 6 milioni totali di copie vendute). E così, tenendo conto che informarsi è un diritto costituzionale, i quotidiani si vendono sottocosto, più o meno 1 euro. La differenza fra costo effettivo di produzione e costo in edicola, la mette in parte lo Stato e, in parte, la raccolta pubblicitaria.
Sono dunque due le entrate principali per un giornale. Il contributo da parte dello Stato è – anche se sempre in ritardo di anni – certo. La pubblicità è una voce ballerina nel senso che non tutte le testate hanno pubblicità adeguata a sopperire i costi di produzione. Oltre a queste due voci importantissime per la vita del giornale, ce ne sono altre come l’introito delle vendite nelle edicole e gli abbonamenti per la verità pochissimi (solo 8 copie di quotidiano su 100 sono in abbonamento mentre in Olanda rappresentano il 90%, in Svezia l’80 e in Francia il 62%).
Quello che sta avvenendo nel nostro Paese con l’approvazione in Parlamento dell’articolo 44 del decreto 112/2008 riguardante i contributi statali ai giornali, è una cosa gravissima che dovrebbe far gridare d’indignazione tutti coloro che credono che in un Paese moderno non possa non esserci la pluralità dell’informazione. L’indignazione, si sa, è ormai merce rara e così quasi nel silenzio più assoluto si è compiuto il misfatto parlamentare che porterà molti giornali editi da cooperative e partiti, associazioni e comunità locali a chiudere, a non poter far più sentire la loro voce. Partiamo dunque da qui, dal pericolo che in futuro troveremo nelle edicole solo alcune testate legate a grossi gruppi industriali mentre scompariranno le piccole, soprattutto i giornali editati dalle cooperative.
La pubblicità − Abbiamo detto che per vivere tutte le testate, siano esse quotidiane o periodiche, hanno bisogno della pubblicità. Tutti si lamentano che giornali e Tv hanno troppa pubblicità, ma in molti lettori è radicata l’idea che un giornale senza pubblicità sia un sottoprodotto, qualcosa d’incompleto. E non dobbiamo neppure dimenticare che gli italiani, a maggioranza, hanno votato affinché i film televisivi mantenessero le varie interruzioni pubblicitarie (11 giugno 1995). Nel passato, addirittura, ci sono stati casi di protesta (nel 1974) che hanno interessato Il Giorno e Il Messaggero per uno sciopero degli addetti alla pubblicità. In questa situazione si capisce bene l’enorme potere che hanno le inserzioni pubblicitarie e i condizionamenti che derivano da questo potere. Intanto vediamo com’è divisa la pubblicità. C’è quella commerciale (che propaganda prodotti e servizi e che rappresenta la parte maggiore), poi ci sono le ricerche di personale, la finanziaria, gli spettacoli, i necrologi. La commerciale, a sua volta, è divisa fra nazionale e locale.
Le concessionarie − Non tutti i giornali e le imprese editoriali gestiscono in proprio la pubblicità. Lo fanno solo le più grosse. La stragrande maggioranza si affida a società concessionarie che vendono lo spazio agli inserzionisti. Queste concessionarie procacciano ai giornali la pubblicità con costi inferiori a quelli di una gestione diretta. Infatti, il giornale, in questo modo, non ha personale proprio per la pubblicità ed inoltre le concessionarie ripartiscono le spese fra molte testate ricavandone una certa percentuale (attorno al 20-25 per cento) sul fatturato lordo, mentre gli editori hanno un minimo garantito ogni mese.
Molte volte avviene che una determinata pubblicazione accumuli debiti nei confronti della concessionaria perché non riesce a raggiungere la diffusione che si era posta ed ecco, allora, che la concessionaria diventa quasi una banca e, attraverso i crediti, diventa in sostanza compartecipe dell’impresa editoriale. Può capitare che, per diversi motivi, una concessionaria decida di aiutare una testata con un minimo garantito più alto riducendo la propria percentuale diventando così, sempre più influente nelle scelte politiche di un giornale.
Discriminazioni − In genere l’equazione è semplice: più un giornale vende in una determinata zona e più pubblicità dovrebbe portare. La realtà è ben diversa. Se quel giornale porta articoli a me invisi, io la pubblicità la dirotto su altra testata che magari vende meno, ma scrive cose che mi vanno bene. Nel passato queste discriminazioni hanno riguardato non soltanto giornali d’opposizione come l’Unità (con la diffusione porta a porta, alla domenica, arrivava a vendere, per tutti gli anni Settanta, anche 800 mila copie), ma anche una testata come Il Giorno (negli anni Sessanta) che fu oggetto di numerose discriminazioni pubblicitarie, perché apparteneva all’Eni e sosteneva l’apertura ai socialisti e le tesi dell’industria pubblica in contrapposizione a quella privata.
In pratica, se un giornale decide di fare un’inchiesta sui prezzi dei farmaci o quant’altro, deve tener conto dei grossi interessi economici che a volte hanno anche coperture politiche e del possibile venir meno della pubblicità. A questo punto debbo scegliere: o faccio l’inchiesta ugualmente sapendo di dover perdere tanti soldi oppure non faccio l’inchiesta, mi autocensuro, perché l’industria farmaceutica dà al mio giornale diversi milioni di euro all’anno.
Perché i contributi − Proprio per questo il legislatore aveva deciso i contributi ai giornali. Se una testata è scomoda al potere (qualunque esso sia), è chiaro che non riceverà pubblicità, quindi dovrà chiudere. Per poterla mantenere in vita, visto che i giornali non dovrebbero essere considerati una merce, io, Stato, ti faccio arrivare dei soldi che tu, giornale, puoi mettere in bilancio come entrate certe, in base ad alcuni parametri prestabiliti (tiratura e diffusione).
Squilibri pubblicitari − In campo pubblicitario ci sono squilibri gravissimi. Contrariamente a quanto avviene in tutta Europa e in Usa, nel nostro Paese la Tv rastrella la maggior parte della pubblicità. Nel 2006 la Tv raccoglieva il 54,7% di tutte le risorse pubblicitarie; la carta stampata il 35,2%. Nel periodo gennaio-dicembre 2007 il totale degli investimenti pubblicitari è stato di circa 9 miliardi di euro così suddivisi: Tv, 4,6 miliardi; Stampa, 3,1 miliardi (di cui 1,7 miliardi sui quotidiani); Radio, 476 milioni; Internet, 281,9 milioni; Affissioni, 200,6 milioni; Cinema, 69,7 milioni. Queste cifre sono il risultato della mancanza di regole, acuite da leggi assurde come la Gasparri che ha aumentato l’occupazione oraria pubblicitaria sulle reti tv, grazie anche ad una politica di sconti che non ha precedenti in tutta Europa. E così Mediaset, da sola, raccoglie pubblicità per 2.149 milioni.
Le cifre della mannaia – I tagli sono di 83 milioni di euro per il 2009 e di 100 milioni per l’anno successivo. In due anni scompaiono quasi 200 milioni di euro. E scompare il “diritto soggettivo”, cioè la certezza di prendere gli aiuti statali. A questo punto le banche non anticiperanno più soldi alle cooperative e piccoli giornali perché non c’è più la “certezza” delle entrate statali.
I contributi indiretti – I contributi indiretti (spese postali ed altro), invece rimangono intatti e così il gruppo Mondadori (Berlusconi) riceverà 20 milioni di euro (e 10 milioni in provvidenze per la carta); il Sole-24 Ore (Confindustria), quasi 18 milioni (essendo quotato in Borsa, ha distribuito questi soldi fra gli azionisti); Rizzoli-Corriere della Sera prenderà 13,793 milioni.
Finte cooperative – Quando si parla di giornali editi da cooperative è necessario fare molta attenzione. Ci sono quelle vere e quelle false. C’è il manifesto con i suoi 142 soci e il Corriere Mercantile, ma tantissime altre hanno spillato soldi allo Stato travestendosi da cooperatori o dichiarando di essere organi di partito Ricordiamo Libero (registrato come organo del Movimento monarchico così da prendere i contributi statali e di proprietà del re delle cliniche private Angelucci), il Foglio (organo della Convenzione per la Giustizia, di proprietà, fra gli altri, con il 38%, della moglie di Silvio Berlusconi, Miriam Bartolini alias Veronica Lario. Come si vede anche quotidiani ultraliberisti che chiedono, in continuazione, la fine dello Stato assistenziale, non disdegnano i soldi dello Stato. Poi ci sono i quotidiani di veri partiti come l’Unità (che però recentemente è stato acquistato da Renato Soru), la Padania, il Secolo d’Italia, Liberazione. Gli abusi, è vero, ci sono stati e vanno colpiti, non però sparando nel gruppo, ma con una seria riforma dell’editoria, concedendo i finanziamenti ai veri giornali cooperativi e non a quelli falsi, distribuiti per vie misteriose, alle testate che hanno un peso territoriale indispensabile e non a quelli creati solamente per prendere soldi dallo Stato (tipo Il Campanile di Mastella). Era necessario, da parte del governo, un intervento selettivo secondo un criterio di merito che guardasse alla natura dei soggetti e puntasse a scoraggiare furbizie, truffatori e posizioni abusive.
I risultati della scelta governativa – I risultati dei tagli governativi si abbatteranno, come visto, solo sui piccoli giornali (e anche alcune radio), sui giornali che spesso sono espressione viva di un determinato territorio, scomodi. Giornali che non hanno come obiettivo il profitto, ma l’allargamento del dibattito, della pluralità delle idee. Giornali di associazioni territoriali, di antica tradizione (il Corriere Mercantile ha 150 anni di vita), giornali dove lo stipendio è gramo, ma dove si compie un lavoro indispensabile per la democrazia nel nostro Paese.
Referendum – I tagli del governo all’editoria sono passati senza colpo ferire. Non solo perché agosto, ma soprattutto perché l’opinione pubblica è d’accordo con la campagna contro “lo spreco del denaro pubblico”. Dentro questa frase c’è di tutto: dai dipendenti pubblici “fannulloni”, ai soldi per i giornali. Persone pochissimo informate, pontificano su “mercato” e “liberalismo” non vedendo che proprio i tagli daranno un colpo fatale non solo alla libertà di stampa, ma anche ai canoni del liberalismo. Resteranno in vita solo i grandi gruppi che continueranno a percepire i contributi e moriranno i piccoli giornali. Anche Beppe Grillo, fra tante sue campagne importanti, ha raccolto firme contro il finanziamento pubblico ai giornali. Sarà contento ora? Ma perché mai il quotidiano della Confindustria deve continuare a prendere soldi dallo Stato e non la Voce di Mantova o il manifesto? Badate bene. Qui non stiamo parlando se, individualmente, ci piacciono o no queste testate. Lo sforzo che dobbiamo fare è di pensare ad un Paese senza questi giornali, ricordando che nessuna testata può mantenersi solo con le vendite in edicola.
La libertà di stampa in un Paese serio si misura anche in queste cose. Si misura anche con i tagli che si fanno nei confronti della piccola editoria e gli aumenti dei finanziamenti a certi settori come quello militare. Il disegno della P2 si sta realizzando grazie a fratello Silvio. Licio Gelli, sorridendo, ringrazia riconoscente.
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In Italia non esistono giornali indipendenti, la famosa libertà di stampa è prevista solo nella Costituzione. I giornali grandi, medi e piccoli, sono tutti schiavi di questo o di quel partito e blaterano, come tanti pappagalli, a comando. Ci propinano le notizie che vogliono, secondo i dettami dei loro padroni. Perciò, bisogna prendersela, non soltanto con Silvio "mi consenta", ma con tutti i giornali ed i giornalisti italiani venduti, con tutti coloro che fanno del pessimo giornalismo e con tutti gli italiani pecoroni, qualunquisti e leccapiedi. Se poi ci sono sprechi, meglio tagliare, tanto, tranne rarissimi casi, avremmo sempre e comunque, una stampa di parte e di pessimo livello. Vincenza