Influenze: Coco Fusco
[09.08.05]
L’incredibile donna che riappare Intervista con Coco Fusco, performer, saggista e media artista cubana-americana. Di Synner
La frontiera. La frontiera come barriera tra nazioni, culture, sessi, economie. E la frontiera come zona di confine tra diverse rappresentazioni del se e della realtà. Gran parte del lavoro della media artista, performer e scrittrice cubana-americana Coco Fusco fa collidere gli aspetti simbolici e materiali della frontiera. L’uso politico della videosorveglianza, le migrazioni, gli effetti della globalizzazione e del capitalismo high-tech sui corpi delle donne sono temi ricorrenti della sua produzione artistica.
Tra i suoi lavori pi� recenti, "a/k/a Mrs. George Gilbert", confessione immaginaria di un agente dell’Fbi che prese parte alla caccia ad Angela Davis nel 1970. E "Dolores 10 to 10", videoperformance realizzata in collaborazione con Ricardo Dominguez, ispirata alla storia di Delfina Rodriguez, sindacalista di una maquiladora di Tijuana, in Messico, segregata per dodici ore in una stanza senza acqua e cibo.
I suoi lavori sono stati selezionati da istituzioni del calibro del Moma, della Biennale di Sydney e di Johannesburg. La School of the Arts della Columbia University di New York l’ha chiamata a insegnare Visual Arts.
In che modo ta tua identità di cubana-americana ha influenzato il tuo lavoro?
Il mio lavoro ha a che fare con la dimensione politica e psicologica dell’interculturalismo. In alcuni progetti ho lavorato sugli effetti generati dal mio corpo o dal mio aspetto, m a negli ultimi venti anni ho creato solo due performance sull’identità culturale degli esuli cubani e un documentario sul postmodernismo nell’arte cubana degli anni Ottanta. Ho iniziato la mia carriera nel 1988 quando la pratica culturale e la teoria postcoloniale erano agli albori e sono stata influenzata da pensatori come Edward Said, Stuart Hall, Gayatri Spivak e Homi Bhabha. Ho lavorato sul ruolo che etnografia e antropologia hanno avuto nel dare forma alla nozione europea e americana di "altro primitivo"; sulla condizione delle donne nell’ordine economico globale e all’interno dell’economia dell’informazione, e sulla xenofobia e il nazionalismo in Europa.
Come definiresti la posizione da cui agisci nel mondo e che tipo di contraddizioni vive un’artista donna americana di origini cubane?
Credo che tu ti riferisca al mio posizionamento come cittadina dell’Impero. Ho un passaporto americano e ciò mi da un enorme privilegio. Il mio stipendio da insegnante è migliore di quello degli colleghi latino-americani, l’accesso alla tecnologia mi rende parte di una tecno-elite. La legge statunitense garantisce una serie di diritti civili negati da molti altri governi, ma l’erosione di tale diritti portata avanti dall’amministrazione Bush mi disturba quasi quando l’accettazione passiva di questo processo della maggior parte degli americani. I cubano-americani che, come me, hanno ristabilito contatti con Cuba negli anni Ottanta e Novanta erano visti come traditori dagli esiliati anti-comunisti. Sono stata a Cuba parecchie volte, eppure le relazioni con la burocrazia culturale locale sono state tese perché ho sostenuto l’autonomia degli artisti dell’isola e affrontato temi controversi come la censura e il turismo sessuale. G li artisti cubano-americani non si percepiscono come un gruppo a sé. Ci sono artiste, scrittrici e performer rispettate come Cristina Garcia, Maria Elena Gonzalez e Alina Troyano. C’è chi, come la cantante Gloria Estefan e l’attrice Cameron Diaz, ha raggiunto il successo nell’industria dell’intrattenimento. Nell’era del marketing delle nicchie etniche, alcune decidono consapevolmente di promuovere se stesse come portatrici di una "un’autentica narrazione etnica". Altre scelgono di evitare associazione dirette all’identità cubana perché la vedono come un ostacolo al raggiungimento del successo. Altre ancora, un piccolo gruppo, esplorano storie e paradigmi culturali. Mi collocherei in questa ultima categoria anche se gran parte del mio lavoro non ha connessioni specifiche con l’identità cubano-americana.
In che modo il tuo background di performer influenza il tuo approccio alla media art e all’attivismo?
Ho cominciato studiando film e video e lavorando con produttori indipendenti negli anni Ottanta. A vent’anni ho lavorato per Third World Newsreel, una collettivo di mediattivisti emerso dal movimento studentesco degli anni Sessanta. Fin dai tempi dell’università ero interessata all’uso di tattiche performative nell’intervento politico. A volte le performance negli spazi pubblici permettono la circolazione di idee che non potrebbero essere articolate con mezzi tradizionali. Mi ha entusiasmato vedere molti giovani dare vita a performance durante le proteste che nel 2004 hanno accompagnato le elezioni presidenziali. Ho anche collaborato con il gruppo Axis of Eve in diversi dei loro interventi lampo in mutande**** (vedi nota).
Maria Fernandez ha parlato della difficoltà di articolare i rapporti tra studi postcoloniali e le teorie e pratiche legate ai nuovi media. Il tuo lavoro in gran parte è dedicato alla ricerca di nuove possibilità di intersezione tra i due ambiti. Cosa puoi dirci in proposito?
Nei primi tempi del boom della Rete ero piuttosto preoccupata che la retorica euforica di chi sosteneva l’equazione tra tecnologie digitali e libertà oscurasse lo sfruttamento violento della forza lavoro globale (in gran parte femminile) che assembla l’hardware. Ero anche stupita del fatto che molti teorici dei nuovi media sottolineassero il carattere disincarnato della comunicazione in rete, dimenticando la preponderanza del consumo pornografico e il fatto che le donne non bianche sono visibili su internet soprattutto in quel dominio. In altri termini in voyeurismo della rete riduce le donne del sud globale a intrattenimento visuale per il consumo della tecno-elite del nord. La mia performance multimediale del 2003, L’incredibile donna che scompare , si occupava di questo.
Nel cyberfemminismo dei primi anni Novanta ha prevalso l’idea del libero scambio identitario. Un approccio verso il quale sei stata piuttosto critica. Perché? Che cosa è cambiato nel cyberfemminismo negli ultimi 10 anni?
Mi preoccupava il fatto che la celebrazione delle identità libere di fluttuare nella rete fosse apolitica e disimpegnata e che implicitamente promuovessero l’idea che bastasse partecipare a una Mud o inventare un avatar per aggirare le iniquità politiche ed economiche. Di fronte al crollo della net economy e all’espansione degli sforzi governativi per controllare l’uso dei media digitali, era davvero difficile mantenere quel livello di euforia. Non so se c’è un nuovo cyberfemminismo. Di certo, molti gruppi di donne e di attiviste per i diritti umani sono diventate più esperte nell’uso della rete. Francamente, non sono molto interessata al lato cyber del cyberfemminismo. Mi preme di più che tipo di sforzi politici e culturali vengono realizzati per proteggere i diritti delle donne minacciati da ogni genere di fondamentalismo.
Operation Digna è un tuo progetto di attivismo cyberfemminista di sostegno alle donne di Ciudad Juarez realizzato nel 2003. Lo consideri una via di superare il gap tra attivismo postcoloniale e attivismo digitale?
Ho sviluppato Operacion Digna insieme a due gruppi di donne messicane e all’Electronic Disturbance Theater. Nel 2001, un gruppo di madri delle donne scomparse ha contattato molte organizzazioni di donne americane chiedendo di disseminare informazioni sul femminicidio in corso a a Juarez e Chihuahua. Volevano portare la protesta alla Commissione Interamericana dei Diritti Umani e attirare l’attenzione dei media internazionali per esercitare pressioni sul governo messicano. Sono felice che Operacion Digna abbia contribuito a questo sforzo e continuo a lavorare con uno dei gruppi con cui lancerò presto una radio su Internet chiamata "Rompere il silenzio". Riguardo al gap tra hacktivism e attivismo postcoloniale, non dimentichiamo che l’hacktivism è nato per sostenere gli Zapatisti in Messico.
L’approccio postcoloniale di pensatrici come Spivak è estremamente utile per spiegare il mito occidentale della guerra umanitaria. In particolare, Spivak parla di "missione di femminismo da parte dell’Occidente" . Come valuti questo fenomeno?
Concordo con Gayatri sulle implicazioni colonialiste nella missione occidentale di liberare le donne musulmane dalla loro cultura. Ma non credo che le femministe siano dietro la campagna mediale che ha supportato l’intervento americano in Afghanistan. C’erano femministe occidentali che denunciavano i Talebani già anni prima dell’invasione ma Washington non ha mai prestato attenzione. Il governo americano ha usato il tema del burqa per demonizzare ulteriormente i suoi nemici fondamentalisti. Da quel che so, le donne afgane sono ancora oppresse e quelle che vivono fuori dalle grandi città hanno paura e continuano a coprirsi. In generale, mi sembra che le donne dei paesi occidentali, prive di esperienze sulla vita nelle culture del sud globale, hanno una visione riduttiva delle complesse dinamiche di genere in quegli spazi e cercano di imporre i propri standard e stili di vita. Ovviamente, ci sono donne provenienti dal sud del mondo che vedono il nord come uno spazio di totale libertà. Sono a favore di una maggiore sensibilità per la specificità di ogni situazione ma non sono una di quelle relativiste culturali che giustificano qualunque forma di oppressione di genere in nome della protezione della tradizione.
Nel 2003 hai curato la mostra "Only Skin Deep: Changing Visions of the American Self" sulle rappresentazioni razziali nella fotografia americana.
" Only Deep Skin" è una ricerca storica che indaga 150 anni di storia della fotografia. Ho cercato di proporre un approccio diverso al tema della razza nella fotografia. Mi interessava la visione razzializzata, ovvero considerare la razza come un linguaggio dotato di una logica interna e far emergere quella che chiamo la "retorica visuale". Soprattutto, ho voluto distinguere tra la questione morale ed etica del razzismo e l’analisi culturale dell’immaginario razziale. L’interpretazione dell’immaginario razziale non è riducibile alla questione se una fotografia sia o meno razzista.
***Axis of Eve è un gruppo di donne che, nel corso della campagna elettorale statunitense del 2004, ha lanciato una linea di slip e culotte che esibiscono slogan roventi contro Bush e organizzato una serie di performance di strada e party elettorali. Per saperne di più: www.axisofeve.org.
Fonte: http://www.thething.it/tank/
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