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Il velo di mafia: la relazione 2025 della Dia sulle mafie

Il tema dell’affermazione e del successo, del prestigio e dell’agio esistenziale non tocca soltanto i giovani guaglioni affiliati alla camorra

di francoplat - mercoledì 4 giugno 2025 - 889 letture

Circa una settimana fa, è stata pubblicata la “Relazione sull’attività svolta e i risultati conseguiti dalla Direzione investigativa antimafia” nel 2024, presentata dal ministro dell’Interno al Parlamento e relativa all’analisi dei fenomeni di criminalità organizzata di stampo mafioso.

In questa sede, ovviamente, non si procederà all’analisi dell’imponente documento – consta di 420 pagine circa –, ma si cercherà di sottolineare alcuni aspetti generali di rilievo, così come di dare conto delle eventuali novità o delle acquisizioni consolidate in tema di mafie. La prima novità, va osservato, concerne la pubblicazione dei risultati della Dia relativi all’intero anno solare; in precedenza, le relazioni erano semestrali, spesso divulgate a più di un anno di distanza dal periodo analizzato. Non solo: la stessa struttura della Relazione è stata snellita, con un mutamento di impostazione dell’osservazione del fenomeno mafioso. In che modo? La documentazione prodotta dalla Dia si basa sulle “matrici mafiose”, come dichiarano gli stessi estensori della Relazione, «perché, atteso che i clan hanno infiltrato i contesti economici anche fuori dalle Regioni di origine, non si può guardare alla delinquenza organizzata solo volgendo lo sguardo verso i territori del Sud Italia». È desueto parlare di sodalizi in Calabria, in Sicilia o in Campania, «in quanto bisogna più che mai abituarsi a considerare appunto le matrici mafiose della ‘ndrangheta, di cosa nostra o della camorra, al di là dei confini locali, non trascurandone altresì la proiezione internazionale». Dunque, sul piano analitico, il lettore avrà modo di vedere descritta l’operatività delle «conventicole mafiose nel loro complesso» e poi «le loro presenze a livello territoriale, lo specifico modus operandi adottato nei vari contesti d’area».

Detto in altre parole, il cambiamento dell’impostazione da parte della Dia sancisce, in modo inequivocabile, un dato sicuramente non nuovo, ma ormai non eludibile dalle amministrazioni locali settentrionali circa l’inesistenza delle mafie ben oltre le regioni di origine: le consorterie mafiose sono un fenomeno “nazionale”, diffuso e capillare, per quanto gli ambiti degli illeciti possano variare da territorio a territorio. La matrice mafiosa, così com’è intesa dagli estensori del documento, è una fotografia che travalica i confini delle zone di insediamento originario e analizza le attività mafiose entro una cornice ben più ampia, appunto nazionale, salvo poi declinarla in un quadro locale. Ad esempio, presentando l’operato della ‘ndrangheta, si rileva come la sua infiltrazione «sempre più concreta e articolata nel settore degli appalti pubblici e nel rilascio di autorizzazioni, licenze e concessioni» vari a seconda che si guardi al territorio calabrese – dove l’inserimento fraudolento mafioso riguarda settori come quello agroalimentare, la produzione e il commercio all’ingresso e al dettaglio di prodotti alimentari, l’edilizia, il turismo e la ristorazione, oltre che il settore estrattivo e quello dei trasporti – o alla realtà extra-regionali. In questo secondo caso, l’intervento criminale si esercita sul settore agricolo, su quelli turistico-ricettivi, sulla raccolta rifiuti, le costruzioni edili, il trasporto merci, il commercio al dettaglio, la farmaceutica, la somministrazione di alimenti e bevande e il noleggio di autovetture.

Sul piano dell’analisi generale delle mafie e dei loro ambiti illeciti, ciò che emerge con maggior evidenza è la sempre maggiore tendenza dei clan a estendere le loro capacità relazionali, ad allargare cioè i rapporti con l’area grigia. Qui, nelle regioni dove maggiore è la presenza imprenditoriale e più vivaci gli scambi finanziari, la «vocazione economica delle consorterie si sposa […] con la determinazione di evadere il fisco da parte di alcuni titolari di imprese che tendono ad aggirare le regole della libera concorrenza, ignorando i comportamenti fiscalmente corretti». E, aggiunge il documento, la difficoltà a intercettare tali fenomeni nasce dal fatto che, in molti casi, gli imprenditori, «piuttosto che incolpevoli vittime dei mafiosi, ne diventano in qualche modo conniventi e complici».

Né le sirene mafiose attraggono soltanto imprenditori ed erogatori di servizi, ma si estendono anche a una «certa tipologia di funzionari “infedeli” della Pubblica Amministrazione, irretiti dalla prospettiva di facili, benché illeciti guadagni». È il caso, fra le altre, dell’operazione “Factotum”, conclusa a Torino nel settembre 2024, dalla quale è emerso come un dirigente sindacale dei lavoratori edili avesse fatto leva «sulla propria funzione per favorire gli interessi di alcune imprese e favorito l’assunzione di soggetti d’interesse in favore di personaggi calabresi contigui al contesto mafioso locale».

Se non mancano riferimenti puntuali alla collaborazione fra mafie nostrane e mafie straniere, certa è anche l’attitudine delle diverse consorterie nostrane a stabilire accordi tra loro, mirati a ben determinate finalità illecite. Si pensi, fra gli altri, all’intesa fra Cosa nostra e la ‘ndrangheta per la gestione del traffico di stupefacenti o al «forte radicamento della ‘ndrina pelle di San Luca (RC) in territorio catanese». O, ancora, alla sinergia tra la comunità Sinti in Piemonte – dedita a reati prevalentemente predatori in quel territorio – e le organizzazioni criminali calabresi della Regione: le prime, in alcune circostanze, hanno «svolto una funzione sussidiaria nel reperimento di armi da fuoco».

Non manca, inoltre, un riferimento allarmato sul tema del cyberspace, «quale materia di vitale interesse per la criminalità organizzata e il terrorismo internazionale». La Relazione Dia riporta, infatti, le osservazioni avanzate dal Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo, Giovanni Melillo, dinanzi alla Camera dei Deputati nel marzo dello scorso anno. A detta di Melillo, infatti, «il cyberspace è oggi il cardine organizzativo fondamentale tanto della criminalità organizzata quanto del terrorismo. […] già oggi – non domani, già oggi, anzi già da tempo – non è più possibile svolgere efficacemente indagini nei confronti delle mafie e del terrorismo senza governare efficacemente la dimensione cibernetica». Appello condiviso dal Procuratore della Repubblica di Napoli, Nicola Gratteri, che ha messo in evidenza l’evoluzione delle prassi mafiose in senso tecnologico, sottolineando come un’organizzazione criminale, composta da soggetti legati ai Casalesi e alla ‘ndrangheta e dedita al riciclaggio internazionale tra Italia, Lituania e Lettonia, utilizzasse criptovalute e finanza occulta, anche fruendo del dark web, per riciclare i guadagni illeciti, con considerevoli danni per l’economia nazionale vista l’ingente quantità di capitale sistematicamente sottratto alle casse dello Stato.

Un ulteriore elemento di analisi, sintomo ovvio delle carenze statali, è legato a quegli interessi mafiosi che spingono i boss a infiltrarsi nel tessuto economico e sociale dei territori, fino «a orientare l’erogazione di alcune forme di servizi, sfruttando situazioni di emergenze quale, ad esempio, la grave carenza idrica che da qualche tempo affligge, per vari motivi, la Sicilia». Al di là del fatto che le regioni meridionali, e la Sicilia in particolare, sono afflitte dal problema idrico da decenni e decenni, resta comunque interessante la notazione della Dia: in alcuni territori della regione siciliana, «la distribuzione dell’acqua a uso irriguo è risultata di fatto controllata dalla famiglia mafiosa “batanese”, che subordina l’erogazione idrica alla dazione di un “prezzo maggiorato da parte dei conferitari”». Così come, per altri versi, sono emerse prove della gestione abusiva della rete idrica per la distribuzione dell’acqua a uso civile da parte del boss della famiglia mafiosa di Carini (PA).

Un ultimo rilievo generale riguarda, poi, la modesta, anzi «modestissima capacità di recupero sociale, una volta terminato il periodo detentivo» dei soggetti mafiosi. Una volta tornati in libertà si registra, di fatto, il loro immediato reinserimento nei sodalizi di provenienza. «È, infatti, ormai noto che anche il regime di carcere duro applicato a figure chiave delle organizzazioni, di fatto non appanna l’aura di onnipotenza dei boss, i quali talvolta riescono, sebbene ristretti e mediante alcuni congiunti, a impartire disposizioni ai loro sodali».

Ecco, questi sono alcuni dei temi e delle criticità che la Dia individua circa le consorterie mafiose e il loro contrasto. Si tratta di un’analisi complessiva che merita alcune considerazioni, anche se qui si tralascia il lungo lavoro di monitoraggio dei singoli fenomeni mafiosi. Ciò che appare strano o quantomeno che stupisce, è l’assenza, nelle considerazioni generali, di riferimenti precisi al tema dello scambio elettorale politico-mafioso. Poiché si tratta di una prassi tuttora in voga, come si desume dai tanti riscontri di cronaca giudiziaria, l’assenza salta agli occhi. Difficile spiegare la latitanza di questo tema dal robusto lavoro di analisi della Direzione investigativa antimafia; robusto e vario, poiché pone sotto esame un’impressionante mole di documenti giudiziari e non solo, ad esempio le audizioni di personalità eterogenee per competenze professionali dinanzi alla Commissione parlamentare antimafia. Forse, l’assenza è legata a una scelta ben precisa compiuta dagli analisti della Dia, ossia privilegiare le dinamiche mafiose legate al tema dell’accumulazione illecita di capitali.

Che il profitto illecito sia il carburante fondamentale – o uno dei più rilevanti – dei clan, non vi è alcun dubbio. Del resto, come fa osservare il Direttore della Dia – il generale di Corpo d’Armata della Guardia di finanza – Michele Carbone, la stessa copertina della Relazione porta impressa l’opera di un artista contemporaneo, Rosario Oliva, realizzata per il calendario della Dia e che «riproduce una skyline di grattacieli e palazzi della finanza e del business, la quale, rispecchiandosi nell’acqua, mostra in modo speculare un riflesso contrapposto fatto di banconote, lingotti, cumuli di monete e, tra queste due realtà strettamente collegate, si inserisce il motto “follow the money”, che incarna l’ineludibile strategia investigativa nella guerra alle mafie». Il richiamo alla nota frase di Giovanni Falcone, dunque, indirizza l’attività investigativa e potrebbe spiegare la mancanza del tema sopra evocato dalle considerazioni generali, proprio in virtù di un approccio prettamente economico.

Del resto, almeno relativamente al clan camorristico Amato-Pagano, il documento tratteggia la necessità dei membri del sodalizio di conquistare autorità, rispetto e prestigio criminale attraverso l’ostentazione della ricchezza e dei simboli del potere: gli appartenenti al gruppo, infatti, «non esitavano a esibire un altissimo tenore di vita, pubblicando in rete sui social network il possesso di autovetture e orologi di lusso, nonché l’uso di potenti imbarcazione e a ostentare tutte le dimostrazioni di forza e di ricchezza ritenute utili per accrescere il potere sul territorio». Proprio in rapporto a questo tema, la Dia segnala con un certo grado di allarme il fenomeno delle baby gang, espressione di una preoccupante devianza minorile. È interessante, soprattutto, il riferimento al contesto in cui tale fenomeno si sviluppa e consolida, ossia «in un momento storico di assoluta fluidità delle relazioni sociali e di smarrimento di quei principi morali di base meritevoli di fungere da riferimento per le nuove generazioni». Per i giovani e i giovanissimi – soprattutto se provenienti dalle fasce sociali marginali – in cerca di un’affermazione identitaria, quei simboli di potere e di successo rappresentano una straordinaria attrazione, «come quelli che, apparentemente, solo il potere mafioso sembra in grado di offrire».

La Relazione, in due sole righe, disegna un contesto complessivo tutt’altro che erroneo, quello in cui si sviluppano le giovani esistenze dei camorristi: la società fluida e la presenza di una griglia valoriale altrettanto liquida, in cui il piano etico è rimesso continuamente in discussione dal bisogno di auto-affermazione, costi quel che costi. In tal senso, per suggerire ancora una riflessione sul documento in questione, non deve sfuggire l’importanza crescente del tema dell’area grigia. Sempre più, nel corso degli anni, la Dia rimarca la questione della coabitazione fra le mafie e altri segmenti della società. Anche nel documento relativo al 2024, oltre a quelli già evocati in precedenza, non mancano riferimenti di questo tipo. Parlando della proteiforme capacità della ‘ndrangheta di nascondersi «nelle acque torbide, in bilico tra legalità e illegalità», la Relazione osserva come gli imprenditori in crisi di liquidità avvicinati dalle cosche calabresi – da cui accettano sostegno finanziario per salvaguardare la continuità aziendale – non sempre siano vittime inconsapevoli: alcuni di questi operatori economici, «pur essendo in qualche modo consci della presenza della criminalità mafiosa, scelgono deliberatamente di non riconoscerla o di ignorarla». Atteggiamento definito “willful blindness”, ossia cecità volontaria, che contribuisce al consolidamento del potere criminale delle ‘ndrine.

La paura di denunciare, certo. Ma non solo. Perché il tema dell’affermazione e del successo, del prestigio e dell’agio esistenziale non tocca soltanto i giovani guaglioni affiliati alla camorra. Tra le righe della Relazione – che, va ricordato, non è un trattato di sociologia o di psicologia collettiva – affiora, qua e là, il tema che fa da cappa alla mafie e alla società civile, rendendo, a volte, difficile comprendere se siano le prime pronte ad approfittare della fluidità del contesto che le circonda o se sia la società civile ad aver smarrito «quei principi morali di base meritevoli di fungere da riferimento per le nuove generazioni» e trovi, per conseguenza, del tutto lecito l’uso strumentale delle consorterie criminali per gli obiettivi di consolidamento della propria posizione sociale. È il tema del velo di mafia, per parafrasare la nota immagine del filosofo tedesco Schopenhauer desunta dalla filosofia orientale che suggerisce come il velo di Maya sia la coltre illusoria che ci impedisce di scorgere la vera natura della realtà. Bene, il velo di mafia è anch’esso una coltre, un alibi individuale e collettivo, una giustificazione a volte facile, che consente di ammantare le nostre scelte e i nostri comportamenti della violenza mafiosa e che impedisce, in tal modo, di riconoscere come le consorterie criminali facciano velo ad altri fenomeni distorsivi della vita libera e democratica. Pur senza volerlo o senza un chiaro intento di questo tipo, mentre analizza le mafie, la Dia abbozza un ritratto della società in cui esse vivono. E non è un ritratto esaltante.


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